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In ricordo di Francesco Baracca


saville

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e ricordati che rivive ogni volta che c'è un GP di formula uno..

 

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Un Grande Uomo che ha reso onore all'Italia!

 

Ricordiamolo con la storia di un abbattimento raccontata da lui stesso! ;)

 

8 aprile 1916

Fin dalle 4 della notte eravamo in piedi perché fra le nubi e sopra di noi si udivano rumori di velivoli austriaci; in tutte le direzioni, in alto verso Palmanova, Tricesimo, Casarsa sparavano. Alle prime luci, prima delle 5, siamo tutti partiti in volo e ci siamo poi dispersi nel cielo verso i 2000 metri; e giravo in tutte le direzioni scrutando l'orizzonte; e ho veduto di lassù il sole uscir dietro i monti ed uno spettacolo di luci meravigliose.

Dopo mezz'ora sparavano verso Palmanova; un aeroplano passava, altissimo, lontano, puntando verso Gorizia; un altro più indietro veniva dal Tagliamento pure su Gorizia, velocissimo: erano austriaci. Ho stimato di poter attaccare quest'ultimo ed ho virato verso il Torre per tagliargli la strada.L'ho incrociato che era ancora 600 metri sopra di me ed allora ho cominciato la caccia; montavo il piccolo "Nieuport" 170 km/h.

Vedevo sopra di me le grandi ali dell'Aviatik con le croci nere, filava velocissimo e poco guadagnavo su di lui; quando salivo troppo m'avanzava in velocità .

Accostandomi ho cominciato una manovra difficilissima per coprirmi dai suoi colpi; vedevo il mitragliere affacciarsi da una parte ed io viravo dall'altra e viceversa; questo giuoco è durato qualche minuto finche gli sono arrivato 50 metri dietro la coda e sotto, verso i 3000 metri d'altezza.

Allora, in un attimo, ho cabrato forte l'apparecchio, ho puntato e sono partiti 45 colpi di mitragliatrice.

E' stato un istante; il nemico si è piegato pesantemente ed è precipitato quasi a picco ed io dietro, giù, urlando di gioia.

Eravamo già quasi sull'Isonzo, se non sbagliavo andava di là. L'ho seguito per un po' nella discesa poi l'ho perduto, poi l'ho visto, dopo qualche tempo, in un prato vicino a Medea, mentre una folla di persone accorreva da ogni parte. Sono sceso là presso e mi son visto precipitare addosso una massa di soldati e di Ufficiali che gridavano "Viva l'Italia" e mi hanno preso, baciato, portato in trionfo sull'apparecchio nemico......Come senti, ricca di emozioni è stata la giornata di ieri. L'apparecchio abbattuto da me solo è il primo in Italia...

 

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Link dal quale ho tratto la vicenda:

Francesco Baracca

Modificato da Blue Sky
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  • 2 settimane dopo...
Ospite galland

Antonio Foschini

Baracca

Editoriale Aeronautica, Roma 1939

 

I “cavalieri del cielo” nascono con la prima guerra mondiale. Contrapposti alla fanteria, la massa grigia, che si muove a piedi, guazza nel fango delle trincee e muore anonimamente in una carneficina industriale.

I piloti da caccia combattono una lotta di un uomo contro l’altro, si riconoscono tra di loro per insegne di reparto o individuali facendo dunque rivivere l’antico spirito della cavalleria, quasi a voler gettare un ponte tra un modernissimo ritrovato della tecnica ed un remoto passato con un pathos mai dimenticato.

La biografia di Baracca di cui rendo degli stralci risente, come inevitabile, della retorica di un determinato periodo storico. Nulla di male, ogni epoca ha la sua retorica ed il suo “discorrere”, differente dalle epoche passate e da quelle successive. Sono convintissimo che la storia che scriviamo oggi è completamente diversa da quella che verrà scritta tra cinquanta o ottant’anni.

Quindi l’incipit delle radici agrarie della famiglia Baracca è propria dell’epoca fascista, in cui se da un canto si ricercava l’estremo passato della romanità e dall’altro si auspicava la modernità dell’aereonautica e delle trasvolate, il presente aveva reali, profonde ed effettive radici in un mondo contadino che la seconda guerra mondiale avrebbe definitivamente cancellato:

“Da Enrico Baracca e da Paola dei conti Biàncoli, nell’ambiente di felicità georgica della casa di Lugo, nacque Francesco Baracca ai 9 di maggio del 1888.

La famiglia Baracca si trasmetteva di padre in figlio da molte generazioni l’amore e l’opera per l’agricoltura, la possidenza della campagna lavorata sul luogo del podere, rettilinea alle stagioni tempo per tempo e giorno per giorno: la misura del sole, il pronostico sulle nevi e sulle piogge, l’incavo del solco, il concio, la semina, il primo verde, l’acqua di maggio, i frutti primaticci, la maturità delle messi che rinfranca la fatica sotto il solleone; e poi la campagna splendida e discinta dopo lo spoglio d’autunno.”

Dopo tale incipit vediamo le gesta militari dell’asso Baracca.

“ a sessanta chilometri dalla linea del fuoco, nel campo d’aviazione di Le Bourget, presso Parigi, un campo dal vasto perimetro, centro d’affluenza dei piloti militari, luogo di raduno dei nuovi apparecchi che qui passano il controllo sulla via del fronte, Francesco Baracca considera la macchina in moto della lunga guerra: ed anche per l’Italia non è più quistione di misurar la durata in giorni o a mesi, bensì di saperla durare con la stretta e la fatica di tutte le forze. Non è vero – come l’entusiasmo e la fanfara del quarantotto propalavano alla vigilia dell’intervento – non è vero che l’Austria s’affanni nel furore di tirar le cuoia, e che l’occupazione di Trento e Trieste camminerà sul piano d’una marcia agguerrita a scanso degli ultimi ostacoli, col massimo sacrificio di qualche morto sul ciglio della strada.

Incomincia da questa primavera del ’15 il periodo della lotta che s’arrampica verso il punto culminante, l’affronto per posseder l’intrico che serba i suoi nodi lontanissimi ancora dal pettine. Perché gli avversarii, tutt’altro che deboli e storditi dai colpi della prima annata, non perdono tempo a rammendare gli strappi dell’insuccesso e nemmeno insistono sulla vecchia strategia accozzandone gli elementi logori in guisa e in maniera che servano a ritentare un obiettivo fallito o un passo falso: gli avversarii, così rigidi come vogliamo figurarli, col cappottone a doppio petto e l’elmo a chiodo, di fatto sono destri e pronti a rinnovare la tattica, le armi e le forme di battaglia.

Baracca ascolta i resoconti delle azioni come effettivamente si pronunciano e si svolgono sulle linee francesi; comprende quel che ci vuole a respingere l’attacco e a guadagnare il palmo di terreno nella guerra di trincea; osserva e approfondisce l’osservazione intorno agli schieramenti delle truppe, alle caratteristiche delle varie armi, ai collegamenti e alle connessioni della battaglia. Le vicende gli appaiono esattamente proporzionate dal racconto dei reduci, franche da quell’apparato di bello scrivere esclamativo e copioso che spande in giro la letteratura dell’inviato speciale.

Ad informarsi sono sufficienti la carta topografica e il bollettino laconico del comando: per queste tracce, lasciando da parte commenti e pronostici, egli segue le operazioni iniziali sul fronte italiano. Sono i giorni della presa di posizione, giorni scabrosi: abbiamo messo piede nel territorio nemico. L’Esercito si è disteso all’avanzata, la guerra si va organizzando; ma il nemico ha stabilito le sue linee di resistenza, il suo sistema di difesa irremovibile, sull’Isonzo e sul Carso; ma le montagne del Trentino innalsano le cime a fortezza di cannoni e mitragliatrici.

Si rammaricavano i piloti italiani di star lì accantonati in Francia: va bene ad imparare il meglio, va bene a prepararsi; pure, sentirsi a scuola, mentre gli altri fanno le schioppettate, non è un bel sentire, tanto più si sa le istruzioni andranno per le lunghe, dai quindici giorni previsti e fissati trascinandosi ad un mese, e forse a due mesi. Si va adagio, con meticolosa prudenza. I primi giorni sono passati nelle intemperie, vento e pioggia. La pratica sui vecchi modelli non serve né punto né poco. E gli attrezzi e i comandi sono completamente diversi. Bisogna riprendere il “pinguino”, e dieci giorni rullare a terra.

Si rammaricano i piloti italiani perché a Le Bourget giungono gli echi dei voli di guerra sul fronte francese, e giungono gli stessi protagonisti a raccontarli. Questi piloti francesi volano di continuo eleganti, stupendi e temerarii: “Ogni giorno – osserva Baracca – vediamo gravi cadute sempre provocate dai piloti, mai dagli apparecchi; riguardo a questo in Italia abbiamo avuto una scuola assai migliore e una disciplina nei voli che qua manca affatto”.

Dell’aviazione italiana, poche notizie: un idrovolante ha esplorato le coste della Venezia Giulia; delle squadriglie di terra non si parla.

I piloti italiani chiedono a Baracca, come a chi deve saperne più di loro e confidenti nel suo buon senso, per quanto tempo rimarranno in Francia, e che fa l’aviazione nostra, e se in guerra non si arriverà troppo tardi.

Baracca è ormai convinto, lo dice ai colleghi, che il tempo a Le Bourget è tempo utile, che con gli apparecchi di stampo antico, quasi tutti così in Italia, c’è appena da svolazzar nel vicinato con le galline; che la guerra non finisce né domani né fra sei mesi, e che avranno tempo per mettere a profitto quel che acquistano in Francia; e mostreranno che l’aviazione italiana non invidierà, ma varrà bene l’aviazione francese. E ribadisce:

-La guerra sarà lunga ragazzi: si arriverà sempre in tempo alla guerra. Non vedete che qui preparano gli equipaggiamenti invernali, e parlano di quello che succederà tra un anno, nella primavera del ’16? Hanno fatto l’abitudine alla guerra come dovremo farla noi. Pazienza, e niente paura.

I “Taube”, apparecchi tedeschi da bombardamento, prendono spesso di mira il campo di Le Bourget nelle scorrerie che fanno su Parigi. Sopraggiungono in due, vicinissimi, che l’uno possa sorregger l’altro in caso d’attacco: e volano nascosti tra le nuvole alla quota di 3500 metri. Poi s’abbassano a 2000 metri; lanciano le bombe, e dileguano in altezza e velocità.

I “Nieuport”, i “Morane”, i “Voisin” li aspettano sbarrando la via del ritorno. Sovente raggiungono i “Taube” a grande altezza; riescono ad investirli, ad abatterli. Si narra di combattimenti aerei a 2500 metri: cadute di apparecchi infuocati come bolidi celesti. I francesi inaugurano la potenza dell’aviazione da caccia.

Durante la battaglia dell’Artois che è in corso tuttora, le squadriglie ne aiutano il fortunoso progresso non pure con i servizii d’allarme, di scorta e d’avanscoperta, ma anche con strenua attività aggressiva, sgominando gli apparecchi avversarii, partecipando col bombardamento dall’alto ai tiri di distruzione. L’arma aerea, nel mentre dell’impiego tattico ordinario allarga le iniziative, ne distingue e ne impronta le specialità. Ed ecco gli specialisti della caccia: dopo i successi di Garros, Pegoud assalisce i “Fokker” e gli “Aviatik” sbandandoli in fuga; Brocard abbatte un apparecchi nemico presso Soissons; il giovanissimo Guynemer è alle poste dai primi di luglio per cogliere a volo l’avversario da mettere a terra. Già molti apparecchi s’armano di mitragliatrice.

Frattanto, a Le Bourget vien fuori un nuovo ordigno per l’attrezzatura difensiva di Parigi: l’apparecchio “Voisin” dotato di cannoncino da 37 millimetri, che un artigliere di marina assai speditamente manovra. Il “Voisin” non ha grandi requisiti di velocità: è piuttosto tardo a paragone degli altri aereoplani. Però è solido, sopporta il pezzo come una piazzola blindata: può essere elevato senz’altro al rango di cannoniera dell’aria. Il proiettile sparato a zero, incalzante sulla scia dell’apparecchio nemico, dovrebbe rispondere allo scopo offensivo più e meglio della granata in traiettoria dal basso in alto, che vale poco anche quando vale; e quindi dovrebbe riuscire il bombardamento difilato che insegue il bersaglio e non perde la mira.

Le coppie dei “Taube” che insidiano Parigi, mancando d’ogni mezzo di difesa, non osano gettarsi a repentaglio nel raggio di questi tiri diretti; e basta che avvistino il “Voisin” mostruosamente armato, per correr via lo scampo dal netto taglio di corda.

In pratica, però, le granate del “Voisin” non sortirono un effetto superiore a quello delle artiglierie antiaeree. Fecero un utile fracasso; esitarono l’arcano e lo spauracchio terrificante; tennero a bada il nemico dal cielo di Parigi per il tempo che trova e che lascia il cosiddetto quarto d’ora di celebrità.

Poiché al campo di Le Bourget il rallentamento e, meno che mai, la tregua o il riposo non possono avere senso, la tensione guerriera prende nell’ingranaggio l’indole operosa e speculativa di Francesco Baracca. Come prima i campi della Malpensa e di Tailedo, così Le Bourget compendia tutto il suo mondo.

Parigi è laggiù, con le sue case e i suoi cittadini da difendere, nient’altro che la consegna di fare buona guardia. Non ha attrattive, non rivela più le complicazioni avventurose d’una volta: la città celebrata per la sua luminaria notturna cammina a lumi spenti, rari fanali blù che segnano le strade; i caffè e i teatri chiudono alle dieci; a mezzanotte è il deserto.

Far buona guardia: partono per turno tutta la notte da Le Bourget gli aeroplani in servizio di ricognizione che volano a grande altezza coi fari accesi sul carrello d’atterraggio. La tenebra si rompe all’improvviso frugata dai riflettori: luce tersa e gelida che squarcia l’oscurità come fendenti di sciabola.

Una notte, l’allarme: tuonano le artiglierie antiaeree, s’alzò con gli altri apparecchi il “Voisin” col suo cannoncino rabbioso: le sirene chiamarono, stridule e lamentevoli; balzavano le automobili in corsa lungo gli squallidi boulevards; ed un clamore sotterraneo di boati come d’organo e di suono di campane investiva il vuoto delle strade, e rimbombava nelle case,

quella notte, Baracca avrebbe voluto avere il suo “Nieuport” per dar la caccia al nemico nel cielo di Parigi.

Gli è già familiare il motore rotativo “Rhone” da ottanta cavalli e sa vigilarne il funzionamento agile ma fscil ad incepparsi; possiede in pratica l’uso e l’eventuale sforzo, e in ogni caso e per ogni verso, degli organi e dei comandi del moderno “Nieuport”, il piccolo biplano che chiamano bebè nel crocchio degli aviatori italiani, che sale in venti minuti a 3000 metri portando una velocità oraria dai 145 ai 150 chilometri, e che gli sembrò difficile alla prima manovra: più si era affezionato all’apparecchio per la sua difficoltà. Aveva temuto sui due estremi del volo, la partenza e l’atterraggio, appunto per il costante regime di velocità che richiede un gran campo; soprattutto dubitava della corsa di slancio e della corsa d’arresto nella stentata ampiezza di spazio che permette il terreno montuoso della frontiera italiana. Perciò s’era proposto di studiare il congegno, di sorvegliarlo nel corso dei voli, di risolvere il problema; ed era giunto, prendendo bene la macchina alla mano, a ridurre sensibilmente i disordini col prevenirne le cause specifiche.

Il “Nieuport” s’identifica con l’aviazione da caccia, che in quei giorni di combattimenti accaniti confermava il valore di supremazia dell’aviazione francese, la quale aveva saputo liberare il cielo dalla minaccia dell’aviazione nemica proprio con l’attività dei suoi cacciatori. L’eccezionale celerità dei “Nieuport” faceva sì che tutti i tipi correnti dell’aviazione tedesca, gli “Euler”, i “Rumpler”, i “Gotha”, i “Fokker”, macchine lente e pesanti, ed anche gli “Albatros” e gli “Aviatik”, modelli di aeroplani più rapidi e muniti di mitragliatrici, non reggessero all’inseguimento, e prestassero il fianco a quel tiro a volo nel volo, e finissero per cadere abbattuti.

Da ciò una notevole diminuzione dalla parte avversaria dei voli troppo addentro nel territorio francese: diminuzione – dicevamo – temporanea, perché i costruttori germanici eran già sulla via di lanciare la via di lanciare la controbattuta degli apparecchi velocissimi.

Intanto, per ora, chi picchia per primo picchia due volte. Gli aviatori francesi intendono conservare e difendere questa sorta di rècord della velocità, che è, tutto sommato, una conquista di gara stizzita, se si vuole, dalla guerra, ma non fine a sé stessa nella guerra. Così sentono pure gli aviatori avversarii.

Insieme, nel medesimo rango, quando l’Europa giurava in santa pace sulle ceneri della sua civiltà, gli aviatori combattevano e cadevano lottando con gli elementi: campavano alla giornata, sostenuti dal pericolo come un’armatura di giovinezza, sì che esser dichiarato “fuori dal pericolo” significava la formula d’infermità espropriata dal linguaggio medico per dire che si era a terra, sfiniti e fuori corso. Perciò essi non caricheranno sulla carlinga l’odio patriottico da guarnigione territoriale che sventola sui baffi grigi della revanche, pittura 1870; essi faranno la loro parte di guerra, diciamolo, senza infierire, stimandosi al di sopra della carneficina, provocandosi, sfidandosi, tenzonando a tu per tu.

E che cade abbia la sua corona di gloria, dall’avversario che ha vinto: oggi a te, domani a me.

Che zavorra d’odio vuoi che porti su l’apparecchio del ragazzo Guynemer, la mattina del 19 luglio, quando scopre l’avversario, un “Aviatik” alto a 3200 metri nel cielo delle trincee di Soissons?

C’è, nel ragazzo l’ansia di misurarsi, di riconoscersi pari o di rivelarsi superiore alla capacità di quell’altro pilota sconosciuto; e sorridono in lui il brio dell’audacia e il valore delle prime armi. Guynemer attacca il duello con la scarica della mitragliatrice, e mira ancora serrando addosso al bersaglio. L’”Aviatik” si scuote e prende l’imbardata: una scheggia salta via dalla fusoliera. Presto il nemico si raccoglie e si difende dall’attacco a colpi di carabina: la mira è giusta, se una pallottola buca l’ala dell’apparecchio francese sfiorando di rimbalzo guancia e mano dell’altro tiratore Guerder. Il fuoco dura dieci minuti – Guynemer che preme, l’”Aviatik” che fronteggia sfuggendo” - alla distanza oscillante fra i due apparecchi dai venti ai cinquanta metri.

Ora, la scarica di falciata più fitta e violenta investe l’”Aviatik” che sprofonda in fiamme sulla terra sconvolta dalle trincee. Il pilota è accasciato sulla fusoliera. L’osservatore alza le braccia in alto dal vortice nella colonna di fumo.

Guynemer era il pupillo di Le Bourget: di vent’anni, col volto emaciato e la divisa goffa sul corpo smilzo, sembrava non il pilota che ha già contato il bel numero uno della vittoria, ma uno studente attonito, la schiappa del collegio.

Così lo vedono Baracca e i piloti italiani all’indomani del successo: che arrossisce, che si schermisce alle domande dei colleghi, che passa sottovoce al compagno Guerder l’incarico di raccontare. Ma più tardi prende fiato, allorché vuol dimostrare il proprio sistema di manovra armeggiando sul piccolo “Niuport” che dovrà essere la sua macchina di battaglia.

Anche Pégoud, il maestro d’acrobazia, l’inventore dei loopings, viene apposta dal fronte per pilotare il “Nieuport”. Egli è sicuro del nuovo apparecchio che è come costruito su misura per l’aviazione da caccia. E da prove di codesta sicurezza, eseguendo dodici cerchi della morte. C’è molta gente, quel giorno, che s’accalca sul prato per assistere alle prodezze di Pégoud. Aria di festa e di spettacolo.

Baracca dalle prodezze di manovra del celebrato aviatore volle capire che le sue cautele sopra certi particolari di costruzione del “Nieuport” derivavano da una coscienza forse ancora incompleta del meccanismo, da quell’impressione di prima vista e di primo tocco che sembra la più giusta, come la simpatia e l’antipatia, e che non può in seguito correggersi se non accada un fatto direi violento a mutarne la premessa, la quale, radicata com’è a fondo, sarebbe altrimenti ingrato da distogliere o da strappare.

Così, ammirando i voli e parlando con Pégoud, egli rivedeva le sue convinzioni e le sue riserve tecniche, rettificandole sull’intelligenza e sulla meccanica di volo ardito.

Nella sua pratica professionale contavano soprattutto le cose esatte e positive: non ammetteva gli entusiasmi astratti e le imprudenze inutili; ma, se vedeva una difficoltà appena affrontata da altri, egli voleva vincerla a qualunque costo. E’ la forza dello spirito dell’emulazione su cui doveva attivarsi il suo spirito di guerra.

Ben noto, Baracca, fra gli aviatori di Le Bourget: l’officier italien; ha rindossata la divisa, sente meglio, perché l’abito vale, la sua partecipazione alla guerra. E la visibile parità di grado con i tenenti piloti francesi gli dà più confidenza, più estro a parlare e a discutere.

Riassunta nel quadro delle sue necessità, la guerra per Francesco Baracca è ormai detersa dai suoi mascheramenti anodini e dai miraggi spaventevoli. Non più la rappresentazione passata attraverso le vie oblique, sì che perde l’essenziale, ed acquista l’incrostatura del superfluo; ma la vista panoramica a fuoco sulla specola. E poi la consuetudine di viverla in un centro motore d’alta sfera e di ascoltarne il respiro che giunge dall’aria, portando il clima della trincea nella sua densità procellosa, come il vento il soffio di bufera dalla montagna al piano: Baracca s’accalora e s’adatta al riverbero, che è proprio un mutar di pelle; e la guerra gli entra nel sangue, nell’ordine della vita e delle idee, a determinare la sua condotta di combattimento. Egli decide la sua qualità di aviatore da caccia sulla pratica delle armi in auge e sull’esperienza degli aviatori francesi, alla stregua dei fatti che accerta e dai quali sa arguire la forza di propulsione e la forza d’inerzia. Pacatamente ne scrive alla madre: “Fra i piloti francesi vi è molto da osservare e da imparare… ho avuto poi una grande quantità di notizie utili che metterò in applicazione al mio ritorno in Italia”.

Dovrebbe rimanere nel circuito chiuso del campo: volando nel cielo di Parigi, non superare Saint Denis. A regola, l’allievo pilota straniero va tenuto con tutti i riguardi dell’ospitalità, al riparo dai pericoli, sorvegliato e tutelato.

Ma il pilota istruttore Baracca saprà eludere l’angustia della regola: perché la conoscenza dell’apparecchio sia completa, non basta l’esercizio monotono, comunque insistente e persuasivo, sull’orizzonte limitato del campo; perché l’allievo – e quest’allievo non è di quelli che s’accontentano della scuola svagata sulla scienza e sull’impiego del minimo sforzo – superi senz’altro le involuzioni del tirocinio, e dimetta ogni dubbio ed ogni stento dalla fiducia in sé e nella macchina, bisogna ampliargli l’orizzonte, svezzarlo dalla ginnastica sul percorso fisso, dargli quel colpo alla testa che lo scuota a non batter ciglio.

Ed ecco Baracca insieme al suo istruttore prendere la via proibita d’una crociera di trenta chilometri al di là da Le Bourget, di circa quaranta al di là da Parigi, ad alta quota verso il fronte: non è improbabile l’incontro con aeroplani nemici, e perciò viene piazzata, non si sa mai, la mitragliatrice sul dorso dell’ala superiore e alla mano dell’ufficiale italiano, che a tremila metri saluta il suo volo d’approccio alla guerra con una salva di colpi.

Non arriveranno fino a Reims, come vorrebbe Baracca, perché, in quella zona battuta dal nemico e sorvegliatissima, i due aviatori di sfroso, individuati e segnalati che fossero dagli osservatori francesi, lascerebbero le penne nella tagliola della disciplina.

- Non gran male – assicura il pilota istruttore – una dose d’arresti premeditati e meritati; ma la fatica della premeditazione merita almeno il premio dell’impunità.

Il pilota conosce il terreno: nei giorni del ’14, allo scoppio, ha contato i suoi turni di trincea sulla Somme, ufficiale di fanteria. Non traffica con la temerarietà dei giovanissimi, i quali distinguono di rado il valore dell’ardimento dal valore della vita; e cerca, anzi, quando può, di allontanarli dalla fretta dello strafare, che gioca e perde, che rompe e paga di persona.

Va per i quarant’anni: ha la faccia ruvida, la mascella cruda, gli occhi chiari attenti sotto la fronte più lunga che larga, dove a seconda dei pensieri le rughe s’increspano con segni cabalistici come a dire: >”leggi qua e capisci”; ed ha il ciuffo folto quasi in mezzo alla calvizie, un pennacchio fine, biondo e argento. L’acciacco di una ferita lo tiene un po’ indietro, e lui fa di tutto per mettersi avanti.

Prepara la scappata col segreto e l’accorgimento che sul più bello non vada a rotoli. Prende il volo nell’ora pomeridiana fra le sei e le sette. E’ un’ora calma. Il vento, così come si fa propizio verso l’est, sul declinare del sole non muterà.

L’aeroplano perde di vista le torri di Parigi e i pennoni di Le Bourget: è libero sui tremila metri, volando facile per la rotta, svolgendo la sua distanza col suo rumore di cilindri e d’elica, un rumore che nell’aria del cielo aperto condensa, pare, le voci, i suoni e gli echi laggiù della terra.

Luzarches, Chantilly, Senlis, Creil sono paesi di retrovia che appaiono croste e macchie fra le ondulazioni del terreno scavato a labirinto di trincee e sistemato a difesa, come la fortezza campale che protegge Parigi per miglia e miglia all’intorno, da ogni parte e di fianco a ogni strada.

Qui durò molteplice giorno e notte il tiro dell’artiglieria tedesca che avanzava, e la sua furia aboliva la stessa misura del tempo, prima della battaglia della Marna.

La pianura grigia, i nastri bianchi delle strade, i solchi neri delle trincee nel zig zag dei salienti e dei rientranti, le nebbie e il letto del fiume Oise che vien giù dal fronte: tutto è nitido anche all’altezza di 2500 metri per la visibilità verticale del “Nieuport”.

E fu per Baracca il volo di scoperta sul mondo nuovo.

Quel paesaggio tagliato e tormentato dalle linee di un’astrusa geometria, gli sembrò, con la luce del mezzo sole, la vista dell’emisfero della luna, com’è rugosa e diruta sulle immagini fotografate dal telescopio.

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  • 2 settimane dopo...
Ospite galland

Museo Francesco Baracca

Casa Baracca, via Baracca 65, 48022 Lugo (Ravenna)

Dove informarsi:

telefono: 0545/24821 – 0545/38556

web: www.museobaracca.it

e-mail: museobaracca@comune.lugo.ra.it

Orari di apertura: dal martedì alla domenica, dalle ore 10 alle ore 12 e dalle ore 16 alle ore 18, chiuso il lunedì e la seconda settimana d’agosto.

Ingresso: a pagamento.

Il Museo è dedicato all’asso della regia aereonautica della prima guerra mondiale (34 vittorie riportate, medaglia d’oro, d’argento e di bronzo al valor militare). La collezione presenta oltre 500 tra reperti e cimeli di grande interesse, mentre un rinnovato ed intelligente apparato critico appare teso ad offrire un immagine dell’eroe più calata nel contesto storico e sociale del tempo da lui vissuto. Al piano terra si trovano alcune vetrine con immagini e materiali a stampa relative all’asso e la sala nella quale è esposto lo Spad VII S 2489 (1917), sul quale spicca l’emblema del cavallino rampante nero in campo giallo, in seguito destinato a diventare il simbolo della Ferrari. Nel cortile coperto, si nota invece un moderno Fiat G91Y (1966). Al primo piano, arredate con mobili originali, le sale delle uniformi e dei cimeli, delle onorificenze, delle collezioni Francesco Baracca, della 91a Squadriglia e delle onoranze funebri e la camera da letto dell’asso.

Il visitatore viene introdotto nell’epoca della Belle époque, che l’aviatore aveva vissuto in maniera spensierata. Quindi è accompagnato agli anni che conducono al primo conflitto mondiale, nel quale i mutamenti sono resi evidenti anche dal confronto delle uniformi dello stesso Baracca, eleganti e sgargianti nel tempo di pace, ma grigioverdi e intristite del periodo di guerra. Degni di nota sono anche le bacheche che espongono medaglie, oggetti personali e la spada d’onore donata all’asso dalla città di Lugo (1917) e il locale dedicato ai più celebri aviatori della 91a Squadriglia, con pannelli biografici e profili a colori dei diversi aerei impiegati, sovrastati dai montanti di un Brandenburg, abbattuto da Pier Ruggero Piccio. Al secondo piano, una serie di pannelli offre invece un’essenziale panoramica della vita dell’asso con l’approfondimento di alcuni elementi biografici di particolare interesse ambiente familiare; carriera militare; passione per i cavalli, con i trionfi nei vari concorsi ippici; e infine l’approccio con l’aviazione e l’impegno in guerra. La figura di Baracca è affrontata come aviatore, asso e comandante, senza trascurare il suo cavalleresco rapporto con gli avversari e la tragica morte.

Tra i reperti esposti: il timone e un frammento di fusoliera del Brandemburg 61.57, prima vittoria ottenuta dall’aviatore italiano, diverse parti di un Dfw c.v 3955 tedesco e un gran numero di strumenti aereonautici dell’epoca della Grande Guerra (bussole, altimetri, contagiri ecc.). il Museo dispone anche della Sala audiovisivi, nella quale vengono proiettati su schermo panoramico documentari sull’aviazione e di Bookshop.

 

Mario Bussoni

I musei della storia guida ai musei italiani di storia militare

Mattioli 1885 Fidenza (Parma), 2008

 

Altre informazioni sullo specifico topic sul volume > libri e riviste aeronautiche.

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Museo Francesco Baracca

Casa Baracca, via Baracca 65, 48022 Lugo (Ravenna)

Dove informarsi:

telefono: 0545/24821 – 0545/38556

web: www.museobaracca.it

e-mail: museobaracca@comune.lugo.ra.it

 

Deve essere molto interessante, da visitare a tutti i costi..... Purtroppo anche sapendo dell'esistenza di tale museo, non ho mai avuto l'occasione di visitarlo!!! :(

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Museo Francesco Baracca

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Ospite galland

CAPITOLO XV

L’ARTE DELLA CACCIA E DELLO SCONTRO

 

Baracca, durante gli attimi dello scontro sul cielo di Medea, comprendeva tutti gli anteriori e successivi sviluppi dell’aviazione da caccia, e più sapeva del duello aereo nella pratica di quanto prima non pensasse ed immaginasse intorno alle teorie ed agli esempii di questa specialità particolare e coraggiosissima.

L’esperienza gl’illuminava certe svolte segrete o appena percettibili dell’inseguimento e dell’aggressione che i profani nient’affatto, ed anche alcuni piloti, d’altronde esperti d’ogni altro “servizio” dell’Arma, la ricognizione la crociera il bombardamento , avrebbero mai saputo, se non per sommi capi, arguire e giudicare.

Quando si venisse a trarre dalla più evidente felicità del combattimento aereo un ipotetico profitto esemplare, e cioè dal gomitolo il filo, dalla figura geometrica la linea che si prolunga oltre la rappresentazione intrinseca della figura per lo sforzo dimostrativo del teorema, allora il diagramma e il paradigma saranno ben logici, ragionati sulla carta col rompicapo dello studio. Ma, via il rompicapo del pensiero dominante, quando si è in aria e di fronte al nemico, finalmente ci si accorge che questa matematica è ancora meno di un’opinione.

Si dice che per tutte le arti sia così, come la proverbiale differenza – tirando via con un paragone alla penna del mio mestiere – fra la pratica e la grammatica.

Naturalmente, Baracca aveva tracciate sull’esperienza le iniziali del suo metodo aggressivo, tracciate e fissate a confronto dei casi facili ed ordinarii come occorrono; e tre fra le altre ne aveva risentite utili ed applicabili sul fatto: più che inseguire, tagliar la strada o anticipare la rotta dell’avversario; sparare a colpo sicuro, a distanza breve, quasi piegando alla collisione o al cozzo, manovra d’incubo per l’antagonista; prendere le mire dall’alto: la mira dell’appiombo sull’ avversario che entri nel bersaglio e come un’ombra dell’apparecchio aggressore, e la mira della mitragliatrice che sia diretta al punto vulnerabile.

Pur essendo stato vittorioso dal basso in alto, Baracca aveva capito dalla difesa dell’osservatore austriaco, disorientata nel nervosismo d’esser colto pressoché alla sprovvista sulla via del ritorno in un cielo credibilmente sgombro di velivoli da caccia e solamente qua e là percorso dai proiettili d’artiglieria ai quali bene s’ovviava per l’alta quota: Baracca aveva capito la superiorità della manovra discendente a spire e a cartoccio sull’avversario, la manovra che evita ogni presumibile fuga o resistenza o contrattacco.

Un altro concetto teneva per fermo e intransigente: che il duello aereo fosse da combattere come la “singolar tenzone” (mettiamo le parole della ragnatela romantica impigliate qui negl’ingranaggi della macchina), cioè una sola persona il pilota ed il mitragliere, un solo colpo d’occhio imprescindibile la direzione dell’apparecchio e la mira dell’arma. Due uomini nella carlinga sbandano tanto l’arte quanto la regola della lotta. Nella caccia, vedono più due occhi che quattro.

L’apparecchio vinto da Baracca risultò il primo degli apparecchi nemici discesi e catturati in territorio italiano per fatto d’armi esclusivo dell’aviazione: l’apparecchi tipico, per intenderci, della taglia di diecimila lire messa in palio dal Comando Supremo nel settembre del ’15, a cui tirava fin da allora il sergente Mariano, come leggemmo a suo tempo in una nota faceta dello stesso diario di Baracca. L’apparecchio era stato abbattuto con la precedenza di dieci minuti sull’azione degli altri piloti della 70° squadriglia e con la spiccata qualità del combattimento condotto e concluso da un solo apparecchio e da un solo pilota.

Questo distacco dell’individuo sopra la moltitudine, principio di fattori superiori che entrano in campo, allargherà il respiro della guerra.

La guerra dello sbalzo e del rimbalzo stagna per tutti i fronti dell’Intesa, mossa di tempo in tempo e di settore in settore da massacranti offensive, le quali non varcano i reticolati delle fortificazioni nella profondità e nel raggio dei chilometri che diano adito al campo di battaglia, e quindi alla battaglia campale. Le disfatte di luogo in luogo formano come piegamenti provvisori sull’arco teso della resistenza; allorché si pronuncia la crepa, chi sia riuscito ad incrinarla non riesce a scavarla: la buca viene subito colmata.

La guerra diventa sempre di più, di mese in mese e d’anno in anno, babelica insondabile. Nessun telescopio avvicina la lontananza del suo ammasso vessatorio, nessuna antiveggenza scopre la parabola dell’ascensione né il vertice della parabola dove nascerà il sussulto della fine. Gli strumenti di distruzione moltiplicano l’atrocità nei congegni perfetti. Le parti in conflitto assalgono l’inverosimile col massimo della tensione negli eserciti e nei popoli.

Impraticabili, ora tentate ed ora abbandonate, sono le vie d’approccio per decider della guerra; misteriosa e sfuggente nel tempo e nello spazio diventa la via d’uscita, la quale dovrà pure un giorno aprirsi tra le conflagrazioni e le collisioni nell’enorme caos fine del mondo che inalbera bandiera bianca: “né vincitori né vinti”. E’ la frase ambigua, la frase corrodente come il bacillo d’un male epidemico, che vuole contrarre l’animo dei soldati nelle trincee, e storpiarlo alla resa, che corre sulle città spiegando il seme della discordia nel popolo, più deleteria dei lutti, della carestia, dei bombardamenti.

All’aviazione dovrebbe essere affidato il compito di rompere la cappa di piombo, di entrare nell’intimità delle resistenze accerchiate dalle trincee: in terra non si sfonda, o si sfonda e si sfonderà per poco momento. La teoria di colpire i muri, perché i muri , crollando, ingoino il tetto, è mera evidente teoria. I muri non crollano. Allora è necessario scoperchiare il tetto e scoprire il nemico nel nido. Anche questo concetto appare ormai semplice ed evidente; entra nel corso della considerazione; vuol essere portato all’opera.

Tuttavia, restano sempre le incertezze e i malintesi: sull’impiego tattico dell’arma aerea, una riforma che dovrà avere il suo sostanziale divenire per entro alla strategia della guerra, non mancano le riserve autorevoli e più quell’ostilità dogmatica che sulla riforma in azione batte di solito lo spirito caparbio dello status quo quando s’atteggia a gioventù restaurata col fanatismo della controriforma.

Ma le necessità premono, ed affrettano i tempi. Da marzo ad aprile le squadriglie dei “Caproni”, apparecchi di larga stazza, rovesciano sulle retrovie nemiche bombe d’alto esplosivo, inoltrandosi fino alla città di Adelsberg, sede dei comandi austriaci, e colpendola nei centri vitali, sorvolando Trieste e cogliendo in pieno l’arsenale del Lloyd Adriatico, base di volo e di rifornimento dell’aviazione, rovinandone gli hangars e gli edificii: rappresaglia alle recenti incursioni sui valichi dei fiumi nella pianura veneta, su Udine, su Casarsa e su Ancona.

Afferrata così da parte nostra l’iniziativa, l’aviazione austriaca diradava la sua attività che tendeva a delinearsi ossessionante e continua. Ed ora è la volta che l’aviazione da caccia rompa le ali a qualsiasi altro volo d’escursione nemica. Neppure i voli che s’affacciano poco al di là dalle nostre prime linee, e che cercano di rischiare il meno possibile, sfuggiranno alla sorveglianza ed alla caccia.allorchè le condizioni atmosferiche si addicono al volo, ed anche col tempo instabile, un apparecchio della 70a squadriglia salirà ad esplorare l’orizzonte.

Baracca segue e raggiunge a tremila metri, la mattina del 28 aprile, un apparecchio che va pigro e quasi veleggiando lungo la linea del basso Isonzo; può arrivargli da vicino, puntare la mitragliatrice, distinguere l’osservatore che arma la Mauser. E’ una maledetta cilecca della mitragliatrice (sono sempre da ungere strofinare ammorbidire queste armi nuove e ruvide!) che lo fa desistere dall’attaccare. Ma le cilecche forse furon due: la Mauser del nemico anch’essa non sparò.

Meglio il giorno dopo, per quanto le nuvole stessero lì lì per fare acqua, e soffiasse un vento contrario: scaricò duecento colpi della mitragliatrice sull’apparecchio avversario celere a sottrarsi alla mira con l’aiuto del vento; ma qualche proiettile dové ben sentirlo il nemico sul groppone, se nel ricacciarsi ad atterrare oltre le linee aveva una tremarella che non era tutta da segnarsi sul quadrante del manometro.

Audacissimo l’aviatore austriaco che sorvolò il cielo di Tarcento, la mattina del 2 maggio. Venne basso basso ad osservare, incurante degli spari d’artiglieria: meritava di lasciarci le penne con tutti gli onori. Terminato il giro di ricognizione, riprese quota e tentò di scomparire. Baracca riuscì ad accostarlo a 3500 metri d’altezza, a serrarlo nel tiro a 50 metri, a scaricargli addosso una sfilata di 30 proiettili. Gli avrebbe dato il fatto suo alla seconda scarica, se una molla del distributore della mitragliatrice non si fosse spezzata. Intanto, l’avversario, audacissimo come s’è detto, capì subito l’incidente di Baracca; e ne approfittò per intralciarlo sulla strada con una spuntatura di mitraglia.

Ritornando al Campo di Santa Caterina, Baracca, malcontento di tralasciar la partita, era del resto soddisfatto di aver sentito ad armi pari la misura dell’avversario degno e temibile. L’apparecchio ha riportato due fori di proiettili sulla fusoliera: il serbatoio della benzina è ammaccato da una pallottola di striscio.

La mattina del 16 maggio, alle quattro, l’ora quasi crepuscolare che gli Austriaci scelgono abitualmente per le incursioni aeree, quattordici aeroplani divisi in tre scaglioni puntano da Gorizia su Udine. Volano nascosti dalle nubi basse. Le artiglierie sparano alla cieca sulla nebbia. La prima bomba nemica coglie il bersaglio che Baracca è sulla via del campo, sorpreso nel sonno dall’allarme, perché quella mattina non era il suo turno di volo. Gli altri della squadriglia sono già partiti.

Baracca prontamente decolla: volando in basso sul punto di prender quota, vede la città incupita ed abbagliata dall’incendio d’una casa che solleva tra le fiamme la colonna di fumo. E’ segno che i nemici già finiscono la prodezza. Volge allora la ricerca verso Gorizia per inseguirli o tagliar loro la rotta del ritorno. Devono passar di lì per atterrare alla presunta base di partenza, Aidussina.

Viene innanzi da Cividale, tronfio e placido sulla via libera, come forse ritiene a prima vista l’osservatore, e senza un colpo di cannone che almeno l’appunti nel cielo o lo segnali, il caratteristico biplano austriaco con le croci nere cavalleresche, grosse di figura che sembrano le pale dei mulini a vento.

Viene innanzi; e non si capisce ancora se ha gettato o no il carico delle bombe, se verrà su Udine o se va di ritorno oltre l’Isonzo. Comunque sta per salir di quota a 3000 metri sospeso sull’abitato di Cormons, quando gli sorge controluce chiudendogli il cammino l’apparecchio di Baracca. Allora, virando ed uscendo dall’ombra, il velivolo nemico cambia rotta in direzione di Gorizia.

Il biplano deve aver esaurito la provvista delle bombe, scarico e leggero, dall’andatura in velocità, se Baracca stenta a tenerlo sotto, e può fissare la mira a distanza utile soltanto sulla riva dell’Isonzo.

Il nemico si difende; spara torcendo la mitragliatrice in cerchio da ogni parte; e forse crede ad uno schermo d’incolumità ravvolgendosi così tra i proiettili. Dalla distanza di pochi metri che non scartare il bersaglio, Baracca lancia sessanta colpi. E adesso di botto l’aeroplano austriaco perde il rilievo, s’appiattisce nella sagoma delle due tavole in croce; è lungamente lontano in basso, sull’orizzonte dell’ultimo sobborgo di Gorizia.

Baracca cerca di seguirlo addentro nelle linee volando sui 1500 metri. Ma, pure nella visibilità chiara che distingue tutti gli oggetti, non c’è traccia di che fine abbia fatto: scomparso come se anche la terra l’avesse inghiottito.

La prima ondata del bombardamento aereo su Udine non fu colta a tempo. La città aveva sofferto di vittime e danni.

Ma dei quattordici apparecchi dello stormo nemico solo tre, i più veloci, e celati nella foschia dell’alba, raggiungevano lo scopo. Gli altri furono inseguiti in una battuta di caccia per il cielo del Friuli, braccati e sospinti a distanza dalle città e dai luoghi di raccolta delle truppe, dai magazzini e dalle polveriere; sì che lungo il percorso della fuga, nella furia del ritorno, gettarono alla lesta come zavorra il carico delle bombe, lontano dalle strade, per le campagne, e senza fra quasi danno. Furono inseguiti dai piloti della 70a squadriglia oltre le linee, in territorio nemico; e due degli aeroplani bombardieri vennero colpiti e costretti all’atterraggio fuori campo sotto il tiro dei nostri.

La seconda sortita della 70a squadriglia conferma la preponderanza dell’aviazione da caccia nell’assetto difensivo delle città passibili di bombardamento dall’alto.

Il contrattacco aereo ha scongiurato il massimo danno: quel che non si è potuto evitare di sinistro sta nel difetto di segnalazione degli osservatorii, nella sorpresa, su cui il nemico contava, dell’azione tra notte e giorno, nella sorveglianza a rilento. Si vuole che tutti i centri d’osservazione siano più diretti e collegati al campo, e che, numerosi e sensibili, gettino a tempo il segnale d’allarme.

Dunque una buona giornata di battaglia; pure, in complesso, il broncio della fortuna – commenta Baracca -; perché nessuno dei tre apparecchi distrutti o danneggiati, e messi perciò fuori combattimento, è sceso catturato in territorio nostro.

Dopo, per circa due mesi, a ciel sereno e a cielo in burrasca, niente di nuovo per gli aviatori: manca l’avversario. Anche i voli nemici di ricognizione non passano il segno dell’Isonzo; s’affacciano appena, guardinghi: osservano, se osservano, col cannocchiale come i “draken”, e riferiranno molto poco intorno al formicolio dei nostri spostamenti di linea e di retrovia; oppure s’alzano così a scopo dimostrativo come per dire: “siamo qua: da un momento all’altro, forse anche adesso, c’è caso che ci muoviamo”.

Le artiglierie nostre e nemiche si controbattono a tiri d’interdizione. Le fanterie sistemano le linee, armano i piccoli posti, si scontrano in pattuglie, saggiano tra loro a braccio le forze e le intenzioni. La notte, i razzi luminosi dilatano a barbagli il mucchio semovente e le ombre sfuggenti che sono o sembrano uomini in agguato. La mitraglia la fucileria le bombe a mano s’allungano sulle parvenze della mira: esplosioni e bagliori scoprono quella rincorsa di lampo e tuono che scuote il nervosismo della vigilia a ferri corti sul-sulle mosse dell’offensiva.

Ferma, come abbiam detto, l’attività dell’aviazione, la diligenza e gli sforzi del comando austriaco appaiono concentrati nella ristretta attività del fronte uomini corpo a corpo.

Diversamente dai Tedeschi, i quali hanno inaugurato il sistema simultaneo di tutti i mezzi rivolti all’unico obiettivo, così che dettan legge nella guerra moderna, e combattuti dai franco-inglesi sulle stesse orme e col medesimo sistema; diversamente dai Tedeschi, l’esercito austriaco sostiene ancora nel 1916 una tattica d’ordine distributivo nei tempi e nei compiti: la disciplina d’ogni cosa a suo tempo, e sempre una faccenda sola. Si battevano bene, e uniti pur nella differenza dei linguaggi e delle nazionalità, i sudditi della vecchia monarchia austro-ungarica; si battevano alacremente, con l’alterigia di spuntarla prima o poi e con fierezza senza tracotanza, tanto che noi stessi, nemici capitali, dovevamo ammirarli: ma, esperti e valorosi sull’andamento della guerra com’era un tempo, pareva che non sapessero dar la volta alla guerra com’è oggi.

Il fronte russo e il fronte balcanico, forse, sono un collaudo che non basta agli Austriaci per sostenere la guerra moderna come gl’Italiani già sanno combatterla in un anno d’aggressività travagliata e di resistenza. Gl’Italiani oggi riescono agguerriti più che mai dopo l’alterna vicenda della lotta sugli Altipiani, il colpo d’offensiva nemica fra capo e collo che avrebbe voluto piegarci ginocchioni nella disfatta.

Gli Austriaci, dunque, praticano per necessità gli strumenti della guerra moderna; ma ne intendono l’impiego strategico o all’ingrosso o con la sottigliezza vecchio modo. Il patriarcale imperatore quarantottesco, vivo e vegeto anche in questa guerra, comanda sempre dall’alto dei suoi anni e dal prestigio della sua severità.

Frattanto gl’Italiani traggono lo sforzo all’offensiva da Tolmino al Mare. Siamo all’ordine di spiegamento delle forze sul piano della battaglia imminente. Siamo alle prove d’aggiustamento di tiro delle artiglierie sulle trincee e sulle retrovie nemiche. Siamo, quindi, ai voli d’esplorazione e di ricognizione che ragguaglieranno dei movimenti al di là e rappresenteranno i luoghi da battere.

Baracca, il 18 luglio, in uno di questi voli di ricognizione ardita, assolto che l’ebbe e sulla via del ritorno, si scontrò e s’attaccò con un apparecchio nemico anch’esso in crociera per le nostre retrovie.

L’avversario fu il primo ad assalire. Una virata a tempo salvò Baracca dalla scarica. In breve, il nemico si trovò inseguito a sua volta, obbligato a ripiegare sotto tiro. Al campo, Baracca accertava nella fusoliera del “Nieuport” il foro del proiettile che per poco non lo feriva al piede.

Un altro aeroplano austriaco, il quale tendeva a spingersi col favore del vento nella zona di Cormons, fu sorpreso da Baracca, il 27 di giugno, in prossimità di San Floriano. S’avvicinò senza poterlo raggiungere. Era un apparecchio di recente costruzione, snello e di corso veloce, irriconoscibile alla prima come nemico; e voltò strada su Gorizia, scaricando all’impazzata la mitragliatrice, anche questa una novità: Baracca vedeva i proiettili scintillare sulla traiettoria, svanire per l’aria nel pullulio delle bolle luminose; ed erano pallottole che dove toccavano appiccavano il fuoco.

La battaglia dell’Isonzo scoppiò, magnifica e tremenda. Si capì dall’inizio che l’impegno non sarebbe fallito. Non si trattava di conseguire il progresso limitato e saltuario d’una linea avanzata con la cattura di qualche centinaio di prigionieri; non si trattava delle sanguinose sbrecciature “né vincitori né vinti”, la catapulta che rinculava sull’offensore, le perdite ritorte e ribadite da un capo all’altro; non si trattava dell’atrocità ordinaria del tempo d’estate, la terra bollente, l’acredine dello strazio, il morbo della carneficina come seguitava la guerra su tutte le frontiere. Era un passo di vittoria, una conquista tangibile. Si abbandonava per sempre la linea della malannata e si sfondava: si scacciava il nemico dalle sue posizioni dominanti. Gl’Italiani avanzavano oltre l’Isonzo. Ora per ora il combattimento della giornata echeggiava nella fatica indefessa delle retrovie: giungevano i convogli dei feriti e dei prigionieri, partivano i camion carichi d’armi e d’attrezzi; e i rifornimenti in viaggio per i reparti del Genio Pontieri ripetevano la certezza di possesso del fiume.

Oslavia, Peuma, Podgora: posizioni nefaste e pressanti, assalite e tenute per più di un anno con le unghie e con i denti, ora divelte e superate nel termine di pochi giorni: l’8 agosto cade il campo trincerato di Gorizia, e sul castello della città fra le mura suona l’alza bandiera. L’impeto della Brigata Casale, i romagnoli, ha travolto le ultime difese.

Baracca è dei primi a sapere e ad essere lieto, amore di Romagna, aria familiare di paese, come il sottotenente Aurelio Baruzzi di Lugo sia stato all’avanguardia dell’assalto; e da solo abbia ridotto all’impotenza una schiera i nemici. Il lughese Baruzzi è all’ordine del giorno dell’Esercito, insignito della medaglia d’oro al valor militare.

L’aviazione da bombardamento precedeva l’avanzata delle fanterie, scompigliando il nemico alle spalle col gettito degli esplosivi sopra gli accantonamenti dei rincalzi e sopra le strade di accesso e le linee ferroviarie.

Sul pomeriggio del 9 di agosto, scortando i “Caproni” nell’incursione su Domberg, Baracca incontra nel cielo di Gorizia un “Aviatik” da caccia che poi gli taglia la strada. Nel modo dell’audacia repentina, l’avversario si mostra avventato e pivello. Così alla manovra d’impennata, per cui Baracca risponde, e che significa “in guardia battiamoci”, il nemico tentenna e smarrisce il senso del combattimento, roteando scontroso e incerto se attaccare o scamparla. I cinquanta proiettili della mitragliatrice di Baracca non riusciranno a colpirlo: il pilota austriaco s’è salvato planando di getto su Aisovizza.

Baracca seguita la scorta ai “Caproni” nel successivo bombardamento di Domvberg e sulla stazione di Provocina: “Voli che servono – egli dice – non soltanto a conoscere gli aspetti del campo e del territorio nemico, ma anche a provare, nel lungo percorso e nell’avventura, l’autonomia dell’apparecchio”. Il 22 di agosto, mentre sta per rientrare dal volo di esplorazione sulla zona montana, viene attaccato da un “Aviatik” da caccia; ma anche questo pilota dev’esser piccione quanto l’altro di Gorizia, se basta l’affronto, cioè lo scopo per cui ci si espone, a farlo battere in ritirata.

Grazie al cielo o toccando ferro, corna facendo o scongiuro al sodo del maschio, la 70a squadriglia corre avanti all’opera, indenne e vittoriosa: qui non disgrazia volle, ma fortuna fa.

Il 23 agosto, il terzetto di pattuglia, Baracca, Ruffo di Calabria ed Olivari, prendono in mezzo l’aeroplano austriaco davvero imprudente, che si passava e ripassava la ricognizione dalle linee alle retrovie, nel settore di Tolmino. Non aveva fretta di piantarla. Pareva che volesse sfidare, insistere anzi nella sfida, con l’andazzo sicuro della sentinella che conta i passi sulla consegna.

Quando si voltò al ritorno, era troppo tardi. I tre apparecchi italiani lo inchiodavano in croce. Dovunque cerchi lo scampo, trova la punta che lo aspetta. E’ abile, portentoso nella manovra; esaspera la usa abilità: nel buon tempo di pace vincerebbe la gara d’acrobazia. Mette fuori le unghie, tenta di sparare la sua parte. Scansa il tiro della mitragliatrice di Baracca. Guadagna cielo verso le sue linee.

Non può sfuggire, aeroplano austriaco da ricognizione: ha visto troppe cose, ha troppa roba nel gozzo da buttar fuori.

La sventagliata di Baracca deve avergli gettato il piombo in corpo; non abbastanza però, se è sempre lì in procinto di svignarsela, sballottato, ondeggiante, eppure con lo spirito degli spiriti ridesto sul timone di profondità. L’elica tuttora gira. L’avversario si salverebbe, ammaccato com’è di macchina e forse egli stesso ferito, se Ruffo di Calabria non gli desse l’assoluzione alla madre terra col violento assalto dalla minima distanza e con la scarica a tutto spiano della mitragliatrice.

E’ fatta. Il velivolo si piega di fianco, si abbatte sul fianco, s’avvita, travolto come una festuca nel turbine della fine. S’incendia; e sparge le fiamme cadendo tra le rovine di Biglia presso Ranziano.

Ripetiamo che non c’è tattica da dissertare intorno all’aviazione da caccia, e che il pilota, dal primo combattimento, porta con sé, nel sangue, la condotta e la schermaglia del duello.

Folco Ruffo di Calabria mostrò nel cielo di Ranzano una tattica propria, come se quel combattimento non fosse il suo primo, ma risultasse da una lunga serie di azioni. Tanto naturali e precisi i movimenti di assalto e parata, tanto tempestiva la scarica della mitragliatrice, tanto solerte ed intelligente lui da intendere le mosse dei compagni e da farsi intendere, che si assumeva di colpo la parte preponderante del torneo, e con gli altri ne carpiva la vittoria.

Soldato di razza il tenente Ruffo di Calabria, la bravura e il portamento del suo stile discendono “per li rami”: egli è della famiglia dove ognuno, per innata fierezza, per secolare tradizione, letterato giurista prelato che fosse, brandiva sempre come di natura la spada; della famiglia di quel cardinal Ruffo, più cotta d’armi che cotta di prete, il quale riunì frati e diavoli, briganti e soldati, nobili e plebe per un esercito che riconquistasse al reame di Napoli “l’ordine napoletano” adulterato dalle libertà francesi del 1793; e vinse per arte militare nella marcia reazionaria o liberatrice dalla Calabria a Napoli.

Dal torneo di Ranziano, Ruffo e Baracca stringeranno l’animoso sodalizio: più volte, giocheranno insieme la vita; si parleranno un linguaggio di segnali nei solitarii combattimenti d’alto cielo; spesso vinceranno insieme. Un’amicizia intrepida, aperta a tutte le emulazioni, e mai reticente allorché i punti di vista su una questione o sul medesimo fatto divergessero: schietta e senza peli sulla lingua.

Laboriosa è la guerra attraverso tutto il fronte italiano nel mese di settembre: le incursioni della fanteria sul Carso e sull’Isonzo si connettono e s’atteggiano in battaglia per ottenere il vantaggio più che si può dalla conquista e dalla solidità di posizione prima che il freddo arresti ogn’altra velleità d’avanzata.

L’aviazione da bombardamento scortata dagli apparecchi da caccia accresce le incursioni sui punti strategici e sugli arsenali in territorio nemico.

Il 10 settembre, Baracca assalisce un “Aviatik” nei pressi di Monfalcone, il settore forse più tormentato e combattuto della zona carsica. Il nemico non s’incanta, e risponde con una sfuriata di fuoco. Baracca schiva sì e no la raffica. Può ripiegare fuori tiro con un certo sforzo: si sente nell’apparecchio qualcosa che non va. Ma non perde l’occasione di riaccendere il duello, e tanto fa da costringere l’avversario ad una velocità che, se non è di precipizio, poco ci manca. L’apparecchio di Baracca era stato preso da quattro pallottole, una delle quali un’unghia più giù del serbatoio.

Il 13 settembre 1916 rappresenta una grande giornata per l’aviazione italiana: il bombardamento da parte degli idrovolanti della marina degli hangars di Parenzo, azione ch’ebbe fra gli equipaggi Gabriele D’Annunzio, mal guarito dell’occhio offeso, ma tuttavia cocciuto di voler “combattere ad occhi aperti”; e simultaneo il bombardamento da parte di 26 “Caproni” scortati da 14 apparecchi da caccia. Fra i cacciatori di scorta si trovava Baracca. Egli poté osservare, anche attraverso la foschia, gl’incendii di cui si costellava il litorale istriano. Uno solo dei “Caproni” s’era perso tra la nebbia. Gli altri rientrarono incolumi alle basi di partenza.

La manifestazione offensiva della nostra superiorità di guerra aerea, insieme Esercito e Marina, si presentò imponente sull’altra sponda: la nostra avanzata in territorio austriaco superava per le vie dell’aria l’avanzata delle fanterie, e puntava diritto al cuore delle armate nemiche. D’Annunzio ne metteva a frutto i risultati per insistere presso gli alti comandi il donec ad metam: Vienna: l’auspicio, nel suo latino testardo spiritato dal delenda Carthago della pervicacia romana di Catone.

Il 16 settembre, ecco l’alto rilievo, ecco l’alto rilievo d’un combattimento aereo come Baracca lo ricostruisce nella pagina di racconto alla madre:

“Sapevamo d’una azione di fanteria nella conca di Plezzo per sabato. Informati da un collega di là che gli aeroplani spesso si mostravano fra quei monti, siamo partiti in tre arrivando là sopra alle 9 e ad una quota di quattromila metri. Io incrociavo seguito a cento metri dai miei due colleghi tenente Ruffo e aspirante Olivari, che anch’essi hanno già abbattuto un apparecchio; e siamo rimasti mezz’ora ad aspettare su quei monti e quelle gole: vi erano nubi che spesso coprivano il terreno, e forte il vento.

“Volevo già ritornare, ma mi tratteneva là lo spettacolo della battaglia sul Rombon, dove scoppiavano innumerevoli le granate a 2200 metri. Alfine, ho veduto un punto nero che s’ingrandiva da Villach verso di noi: era il nemico. Feci segno ai miei colleghi, girai al largo perché non ci vedessero, e mi ritirai un po’ verso Caporetto; e l’austriaco, ancora inconscio del pericolo, entrò nelle nostre linee verso il monte Stol. Era a 3700 metri, e noi da 4000 gli siamo piombati sopra. Esso ha virato subito verso il Plezzo sparando rabbiosamente con la mitragliatrice e col fucile a ripetizione; ma poi è stato preso in mezzo e gli abbiamo scaricato la mitragliatrice a 50 metri di distanza.

“In questo momento, Ruffo, pilota di gran coraggio, è passato col suo apparecchio a gran velocità a pochi metri dal mio; e poco ci è mancato che ci siamo urtati.

“il nemico è caduto abbandonato senza direzione, impennandosi, rovesciandosi, riprendendo l’equilibrio; poi è andato giù a picco; ed anche col nemico per poco non ci urtavamo. La sua caduta era impressionante: si vedeva l’apparecchio abbandonato e col motore ancora acceso fare da sé i cerchii della morte: e due o tre volte l’ho visto quasi fermo in aria con le grandi croci nere sul giallo delle ali. Credevo si schiacciasse a terra. Invece, forse, l’osservatore, per quanto ferito, riuscì ad afferrare il timone e a raddrizzare l’apparecchio prima di toccar terra. Sbatté le ali contro gli alberi di un bosco sul costone ripido del Monte Stol: si rovesciò, e poco dopo bruciò.”

Impossibile un atterraggio sulle falde scoscese della montagna: i piloti tornarono a Santa Caterina per ripartire di là subito in automobile alla volta di Potocki, villaggio slavo della conca di Caporetto, ai piedi di Monte Stol.

Baracca, Ruffo e Olivari debbono farsela da alpinisti salendo l’erta mulattiera raggirata a coclèa intorno alle pendici, ora allo scoperto, ora incassata come un camminamento, intoppato dai cavalli di frisia, dai muretti a secco, dai rifugi; e attenti a non cascare per certi sdruccioli di venti metri, far la figura, via, che si rompe la noce del collo ruzzolando per le terre.

Giungono affaticati e tirano il fiato. V’è gente intorno all’apparecchio abbattuto, alcuni soldati di sanità e il tenente medico, reclini sopra le barelle. Sull’altra scarpata della montagna s’apre la mulattiera nuova dal dolce pendio, e più giù vedi le tende dell’ospedale da campo, dove stanno per portare i due aviatori austriaci, sbalzati dalla carlinga sul colpo dell’atterraggio.

L’apparecchio è un “Lonher” con motore di 160 H.P. distrutto ormai dall’incendio ancora fumante. Il pilota, un caporale con due medaglie al valore, è morto secco con due pallottole alla testa; stringe nella mano del braccio piegato la pistola Mauser: è morto bene con l’arma in pugno.

L’osservatore, sottotenente d’artiglieria da montagna, spasima e respira a soffio nel tremito convulso dei labbri e del collo libero sganciato dalla giubba. Elegante, si vede, e molto giovine: ferito all’intestino, da trasportare senza perder tempo all’ospedale per l’operazione di laparatomia; sarà difficile che si salvi:

- Ma la gioventù… - dice il medico -, se non c’è altra lesione interna…

- Allora c’è speranza? – Domanda Baracca.

A Baracca piange il cuore nel riguardare quel viso pallido, quegli occhi socchiusi dalle lunghe ciglia, e fra le ciglia la ruga della sofferenza, dell’assopimento grave tra la vita e la morte:

- Allora c’è speranza?

- Se facciamo presto, se l’operiamo subito.

I portatori e il medico s’allontanano con le barelle. Baracca li segue col viso attento: li vede apparire e disparire tra i varchi delle siepi e nel folto degli alberi fino al tendone bianco della croce rossa:

- Puvraz – esclama nella sua spontaneità romagnola, rivolgendosi a Ruffo e ad Olivari che gli stanno accanto: - puvraz! Ma è la guerra.

Hanno trovato un chirurgo per operare il tenente austriaco. S’è fatto di tutto per salvarlo. Mentre acconciano lentamente per il lungo nel letto il ferito, coperto di bende e fasciato come una mummia, il chirurgo dice che l’operazione a rigore sarebbe riuscita, né si avvertono per il momento i sintomi delle complicazioni. Po’ sta bbuono e po’ murì, dicono i napoletani. Egli ne ha visti di peggio, quel chirurgo di guerra, dei casi disperati e mortali. Eppure, son sempre i vent’anni la medicina toccasana.

Ha vent’anni o poco più il luogotenente aviatore Anton Von Csaby: vent’anni, e bel ragazzo. Fra le sue carte spicca un biglietto azzurro, i caratteri slanciati, l’inchiostro viola oro che usano le donne: è un biglietto di poche parole; dà l’appuntamento e l’ora delle sette di sera per quel giorno stesso; indica il balcone fiorito di una villa; firma misteriosamente “la sconosciuta”.

Baracca ha letto quella carta. Entra piano nella stanza dove giace il giovine che può morire. L’aria è quasi notte. I monti s’abbrunano. Una lista di cielo chiaro è come sospesa sull’imbrunire, attraverso i vetri della finestra. Il malato non sente, sempre dalla mattina smarrito di sensi: sulle labbra aride l’infermiere passa di tanto in tanto il batuffolo di bambagia inzuppato. L’orologio da polso di Baracca segna le sette meno cinque. Sono i cinque minuti dell’attesa per l’innamorata, quei cinque minuti che tremano e sospirano fra lo specchio e la finestra: il balcone fiorito, l’ombra che invade il viale, un passo che può essere di lui, strisciato sulla ghiaia del viale. Dalla villa al campo d’aviazione ci dovrebb’esser poco tratto: la donna conterà, batterà il tempo sui passi dell’amante che sta per giungere. E sarebbero, per lui che giace, i cinque minuti della fretta, gamba lesta e sguardo di conquista, la strada che è tanto lunga, l’impazienza di vederla e forse di riconoscere la sconosciuta: chi sa come avrà fantasticato nel cielo della battaglia, e chi sa che non fantastichi tuttora nel barlume della coscienza.

Baracca pensa alla donna che aspetta il tenente Von Csaby, all’ora che passa, alla lancetta dell’orologio che allarga l’angolo di minuto in minuto sul quarto d’ora e sulla mezz’ora, compassata intorno al circolo del quadrante. Pensa all’attesa di lei, alle domande che si dirà sul giro del tempo, al tempo che trascorre col tic tac, le gocciole del tempo, ognuna che trafigge. Sono simboli di trafitture le lancette dell’orologio: chi le fece così puntute immaginò di certo il lanciarsi dei nervi sulla soglia d’un convegno d’amore. E tutto avrebbe del gaudio nello schiocco d’un bacio, se lui giungesse. Spiare che giunga, illudersi che è li sulla porta. E lui è qui tutto fasciato fra la vita e la morte.

Tempo d’avventura: fedeltà usuale dell’unico o dell’unica è pur sempre la speranza dell’istante, il calore che ci vuole a far fiamma: esiste sempre – se no che diresti? – il linguaggio delle mille promesse e lusinghe, non bugia della gioventù, ma gioiosa fantasia di buona fede: colui o colei che giura non sa di spergiurare, e chi ascolta fa bene a crederci.

Sopra questa animazione d’amore all’amore per le donne che s’incontrano e c’intendono, sopra questa rigogliosità giovanile tipica del clima di guerra, vagavano gli amori di Baracca. Egli riceveva lettere da Milano, da Roma, da Bologna, dalla Romagna: ogni tanto, vedeva riaffacciarsi dal passato una donna, magari da una remota ora o da una sola giornata di confidenza. Tutte scrivevano lettere distese e di vario tono: appassionate, ardentissime, confortatrici, ausiliatrici, bonaccione, vanerelle, prepotenti, ché le donne posseggono la rettorica dell’amore assai meglio di noi; ed ognuna della passione anche fugace vuol farne il suo romanzo. A tutte rispondeva Baracca, e spesso con la cartolina in franchigia che le ragazze apprezzavano come il segno civettuolo che al fronte ci avevano qualcuno.

Alle volte, nelle sere di pioggia, per non saper che fare, o per riposarsi nelle immagini lontane della pace (chi sa come ritornerà, se ritornerà, la pace?), gli piaceva di scrivere la lettera lunga ad una donna milanese; e le parlava di guerra, di voli e di cielo, e le domandava della città e delle amicizie, e metteva fra le righe qualche frase lepida per sorridersi così di lontano.

Adesso, una febbre gli dura da qualche mese: la donna friulana selvaggia e giovanissima. Molto più di un’avventura delle solite. I convegni raccolti segreti, sull’imbrunire, a quest’ora: la medesima del tenente Von Csaby, l’ora d’oggi immolata nel combattimento; e l’amore che sprofonda nell’eternità fra i singulti dell’agonia.

Quella sera, Baracca arriverà in ritardo, ma arriverà più vigoroso al convegno tra le braccia della sua donna. E’ la guerra.

Salirà l’alba sulla notte d’amore. Di primo mattino, scorta o crociera, risponderà il cimento dell’aria. C’è aria densa sul Carso: seguita l’offensiva nostra che smozzica gli angoli acuti della fortezza nemica a Dosso Faiti, a Nad Lagem, sul Veliki. Gabriele d’Annunzio, cavaliere ed aviatore, ha preteso il suo posto di combattimento tra le fanterie. Si vorrebbe aprire la via di Trieste. La resistenza austriaca è chiusa arroventata come porta inferi. La nostra pressione andrà avanti per un mese a cozzare e sgretolare. I bombardamenti aerei nemici battono sulle trincee.

La mattina del 13 ottobre, un “Albatros” scortato da un biplano da caccia incrocia su Castagnevizza. Sorpresi da Baracca, i due velivoli virano e s’allontanano. All’improvviso, ritorcono la manovra attaccando. Baracca si salva dalla duplice scarica con una picchiata, riattaccando a sua volta il biplano, e distanziando fuori tiro l’”Albatros”. I nemici non osano combattere, girando alla larga della mitragliatrice. Il “Nieuport” rimase forato da due proiettili sull’ala sinistra.

Il 27 di novembre, Baracca scrive alla madre:

“ Sono al mio quarto apparecchio e ad una delle più belle fra le mie vittorie. Dai già che dopo il 16 settembre volavo spesso in alta montagna e sulla Carnia, sapendo che prima o poi qualche aeroplano nemico l’avrei incontrato anche là. Il 25, alle 11, passavo verso Tolmezzo, quando vidi verso la fronte del Pal Piccolo scopii innumerevoli di artiglieria aerea e una squadriglia nemica che avanzava altissima. Continuai a salire perché non avevo abbastanza quota: gli austriaci erano a 4500 metri, perché sai che su quella fronte le montagne bianche di neve sorpassano i 2000 metri. Giunseo prima essi su Tolmezzo a gettar bombe, ma erano già ormai sui 4400, e potevo attaccare il terzo “Albatros” che arrivava. Gettò l’ultima bomba quando io ero a poche centinaia di metri di distanza. Mi vide soltanto allora, e cominciò a far fuoco con la mitragliatrice che aveva tra le ali, e prese la via del ritorno.

“lo raggiunsi presto fra i suoi colpi. Da 50 metri con 30 colpi della mia mitragliatrice, era servito. Scese giù a picco in mezzo ai monti dentro una vallata profonda. Lo perdetti di vista in uno strato di nubi, e non vidi dove andò a finire.

“Atterrai vicino a Tolmezzo in festa per il nemico abbattuto. Solo un’ora dopo, il telefono ci faceva sapere che l’apparecchio era sceso nella valle del Chiarzò verso Paularo, ad otto chilometri dalle linee. Arrivai là in automobile, e raggiunsi l’apparecchio dopo lungo camminare per una mulattiera verso il fondo valle, là dove era andato ad urtare nei grossi faggi della sponda, rovesciandone tre o quattro.

“Avrei molto da narrarti: ma è tardi, e sarò breve. Il pilota sergente era ancor riuscito a portar giù il velivolo senza precipitare. Morì sei ore dopo per due ferite al collo, e forato da parte a parte il torace presso il cuore. L’ufficiale osservatore è colpito al polmone e ad un braccio, ma forse se la caverà. Gli ho parlato a lungo all’ospedale, ed ho saputo molte cose interessanti. Venivano da Villach. Abbiamo trovato nell’apparecchio una mitragliatrice con nastro di 1000 colpi, un moschetto e due pistole Mauser.

“Fui solo nel combattimento”.

Le lettere di Baracca alla madre, al padre e ai pochi amici, le scarse pagine del diario, le sue stesse relazioni e annotazioni d’ufficio dimostrano sincerità, sobrietà, accortezza e precisione di parola: egli scrive pronto e bene senz’esser mai soverchiato dal peso del fatto, raccontando distesamente, raffigurando i particolari effettivi, giungendo al nocciolo e al profitto degli avvenimenti, dai quali in guerra, e più nell’aviazione, si apprende tuttodì la cosa nuova; e si affacciano i problemi, e si arriva a specificare elementi di tecnica e di tattica. Tutti i caduti dell’aeronautica, nostri o nemici, per disgrazia o per necessario ardire, accendono come una costellazione d’orientamento nel cielo della guerra.

Dalle lettere di Baracca, non si deduce il terribile in ogni atomo, come dalla maggior parte delle scritture di guerra, tanto da quelle cascanti e disperanti sul cataclisma, dramma della paura e tragedia della morte, dei diarii della trincea, quanto da quell’altre rimesse a romanzo o novella, rimuginate nelle speciosità speciosità elucubrative che, a seconda delle tesi di sostegno, passano per le vie spettacolose dell’atrocità o dell’amenità: sfondi grigi, ossessione; oppure sfondi vuoti, declamazione di coraggio. Baracca né rimugina la sua impressione per essere bello di filosofia, né si esalta con le frasi – sereno sprezzo del pericolo, sangue freddo, nobile esempio, strenua resistenza, eccetera – che formavano la prosopopea stilistica delle motivazioni di medaglia al valore.

Veritiere le sue lettere della verità di un uomo sana che vuole adempiere rettamente alla sua missione, ed umanissime quando accolgono nel resoconto del fatto d’armi gli episodii della lotta e della morte.

Una lettera del 5 dicembre 1916, interessante su questa traccia, l’abbiamo trovato presso Vincenzo Boschi di Lugo, allora tenente di fanteria sul fronte di Gorizia; ed è la lettera della buona amicizia semplice e genuina, una delle più chiare e cordiali che abbiamo colte dall’esiguo epistolario di Baracca:

“Carissimo Cenzino,

“Ho sperato molte volte, un giorno o l’altro, di vederti a Udine o di ricevere al campo una tua telefonata, ma forse non sarai più passato per qua; dopo che seppi da casa che eri guarito e partito di nuovo ho perduto le tue tracce. Sai chi mi dette tue notizie? Il tenente dottor Peano, non so se ricordi, cugino del mio capo squadriglia, che viene da noi al campo spessissimo. Con tanto interesse lessi e rilessi la tua lettera, non potei scriverti subito perché allora era tanto occupato e stanco per i voli continui; questo tuo indirizzo (spero ti giungerà la mia lettera)l’ho avuto da non molti giorni.

“Tu pure hai molte belle pagine e molti bei ricordi della tua vita di guerra, ed io invidio tutti quelli che nei giorni gloriosi di Gorizia si trovavano su quel fronte in prima linea, e vibrarono dell’entusiasmo dei nostri soldati irrompenti all’attacco dietro i nemici in fuga. Anch’io volai allora su Gorizia, ed ebbi uno scontro sul suo cielo in quel pomeriggio. I nostri combattimenti si svolgono pure tragici, ma brevi nel silenzio delle grandi altezze, senza essere accompagnati da vicino dall’entusiasmo e dalle passioni dei combattenti.

“Immagino che ora, dopo tanti mesi passati nelle trincee, avrai un po’ di riposo, e non ritornerai da queste parti. Io rimango ancora: non ho molte preoccupazioni, non avendo comando di squadriglia. Faccio il semplice pilota da caccia con molte soddisfazioni e con la più grande libertà di sorvolare a mio piacimento o le trincee di Monfalcone o quelle di Gorizia o i monti di Caporetto o di Tolmezzo, sempre cercando qualche nemico in ricognizione o lanciatore di bombe col quale accapigliarmi. Ma si vola e si vola, per ore ed ore, ed è difficile incontrare se stessi; ora ho un nuovo apparecchio, velocissimo, ma raramente mi capiterà di adoperarlo. Hanno avuto troppe perdite i nemici, sono disorganizzati, non hanno velivoli da caccia per far scortare i loro in ricognizione; perciò rischiamo poco; e non accettano combattimento, ritirandosi a tempo dinnanzi a noi, o vengono a delle altezze tali che, se non si è già in quota al loro arrivo, non si possono raggiungere.

“Non è come alla fronte francese dove un pilota che parte in caccia, durante un volo è certo d’incontrare almeno 5 o 6 velivoli, e non ha che da scegliere a che dare combattimento. Questo mi raccontava giorni sono il capitano Beauchamp, quello del raid su Monaco, facendomi un quadro della guerra aerea sulla fronte della Somme, tragico e terribile.

“Io sarei già stanco di stare qua; sono già sedici mesi di campagna, ma mi trattiene ancora il desiderio di nuovi successi e l’attrattiva della caccia aerea bella, difficile, emozionante per noi piloti cacciatori che abbiamo la fortuna di montare apparecchi velocissimi perfezionati.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

“E così una vittoria di tanto in tanto mi dà nuova lena per continuare ancora, tanto più che qui godo di molta libertà e molte comodità; ed ho vicino Udine dove vado a divagarmi quando piove”.

Baracca prosegue i voli di crociera e di scorta ai “Caproni” per tutto il mese di dicembre. Il cielo è pulito; del nemico, si direbbe, non vola una penna. Le operazioni sul Carso e sull’Isonzo, dopo le battaglie del novembre, decadono nella fase dell’assestamento invernale: scontri di pattuglie e duelli d’artiglieria.

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Ospite galland

Dato il continuo riferimento a macchine nostre o avversarie credo di fare cosa utile citando qualche riferimento alle une ed alle altre.

Tutti i dati sono tratti da:

 

Storia dell’Aviazione

Profili di aerei Militari della I guerra mondiale

Fratelli Fabbri Editore, Milano 1973

 

Nieuport Ni. 17 C.1

Fu senza dubbio uno dei più famosi caccia messi in linea dalle aviazioni alleate nel primo conflitto mondiale. Ma non ci si può limitare alla sua descrizione: per l’esattezza storica è giusto soffermarsi sull’intera serie di sesquiplani che la ditta di Issy-les-Moulineaux mise a punto con originale concezione a partire dal 1914, anno in cui volò il Nieuport Ni.10; una “famiglia” che totalizzò una produzione complessiva di circa 7.000 esemplari tra il 1915 e il 1918.

Con la formula che va sotto il nome di “sesquiplana” si intendeva conciliare la rigidità strutturale della cellula biplana coi vantaggi offerti dalla velatura monoplana, specialmente riguardo la visibilità. Questi aerei risultavano quindi, in pratica, dei monoplani ad ala alta “parasole” con normale struttura bilongherone, provvisti di una seconda ala, inferiore, monolongherone e di ridotta profondità (corda).

Il Nieuport Ni.10 appare al fronte all’inizio del 1915, destinato all’impiego scout (ricognitore veloce), ed era biposto. Progettato da Gustave Delage, venne prodotto in due varianti caratterizzate dalla posizione dell’osservatore, seduto rispettivamente davanti o dietro al pilota. Inizialmente disarmato, a parte ovviamente l’armamento personale dell’equipaggio, ebbe poi una mitragliatrice (Hotchkiss o Lewis) sparante attraverso un’apertura nell’ala superiore; il motore era un rotativo da 80 cavalli, del tipo Gnome o Le Rhone. L’aereo fu in dotazione anche a reparti britannici, belgi e italiani: in Italia fu costruito su licenza dalla ditta Nieuport-Macchi di Varese.

Sotto la spinta delle esperienze belliche si andavano intanto delineando sempre più nettamente le specializzazioni nell’impiego delle diverse macchine. Mentre per la ricognizione la Nieuport metteva a punto il Ni.12 (leggermente più grande, con motori da 110-130 cavalli), molti Ni.10 passarono all’impiego come caccia – sia pure di ripiego – compensando il maggior peso derivato dall’istallazione della mitragliatrice con l’abolizione del posto dell’osservatore. Questi N.10 monoposto ebbero l’arma montata su affusto Foster, che consentiva il tiro in avanti con possibilità di inclinare la mitragliatrice per sparare obliquamente verso l’alto e per ricaricarla.

E’ da questa prima esperienza, nonché da progetto prebellico per un aereo da corsa (lo “XB” del 1914), che Delage sviluppò un caccia vero e proprio, il Ni.11, più noto, per le sue ridotte dimensioni, come Nieuport “Bébé”. Lo sviluppo di questo modello fu così rapido che già nell’estate del 1915 qualche “Bébé” era presente nelle squadriglie francesi e inglesi sul fronte occidentale e ai Dardanelli: Nel febbraio 1916 il Ni.11 fu protagonista della battaglia di Verdun rivelandosi il miglior caccia degli Alleati; anch’esso fu prodotto su licenza in Italia – sempre dalla Macchi – e in Russia.

Il Nieuport Ni.11 aveva lo stesso motore del precedente Ni.10, pur essendo alquanto più piccolo, e identico era pure l’armamento, con l’aggiunta in molti casi di otto razzi Le Prieur applicati ai montanti alari, per l’attacco ai palloni frenati. Nel 1916 fu realizzata un’edizione migliorata, Ni.16, con motore Le Rhone da 110 cavalli e mitragliatrice sincronizzata, che prestò limitato servizio nelle aviazioni francese, inglese e belga.

In Italia, la Macchi fece seguire il Ni.17 al “Bébé” sulla sua linea di produzione (150 macchine tra il 1916 e il ’17), quando già il nuovo caccia era sul nostro fronte grazie ad una fornitura francese: diversamente da questo, tutti gli esemplari di produzione nazionale – le cui consegne iniziarono nel dicembre del 1916 – erano armati con la Vickers sincronizzata.

Tra i reparti italiani dotati, integralmente o parzialmente , di “Super Bébé”figurano le Squadriglie 72, 73, 74, 83, 85 e la sezione cui era affidata la difesa aerea di Padova; molti esemplari erano, comunque, sparsi tra le squadriglie montate su Ni.11. tra gli assi italiani che impiegarono il Ni.17 compaiono i nomi di Francesco Baracca (che si era già distinto col “caccia d’emergenza” Ni.10 monoposto, Ferruccio Ranza, Pier Ruggero Piccio, Silvio Scaroni.

Sul nostro fronte il Ni.17 rimase a lungo la punta di diamante della caccia, ma le forti perdite riportate nelle dure azioni dell’inverno 1917-18 e il progressivo inserimento in linea dell’eccellente Hanriot HD-1 e poi dello Spad, fecero presto ridurre il numero dei “Super Bébé” in servizio operativo: nel dicembre 1918 non ce n’erano più nei reparti di linea.

 

 

Caratteristiche (riferite al Ni.XVII)

 

Motore Le Rhone 9J

Potenza CV 110

Apertura alare m. 8,22

Lunghezza totale m. 5,74

Altezza m. 2,33

Superficie alare mq. 15

Peso a vuoto kg. 374

Peso totale kg. 565

Velocità massima km/h 177 a 2000 m.

Salita a 4000 m. in 19’30’’

Tangenza pratica m. 5300

Autonomia 2 h

Modificato da galland
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Dato il continuo riferimento a macchine nostre o avversarie credo di fare cosa utile citando qualche riferimento alle une ed alle altre.

Tutti i dati sono tratti da:

 

 

Mmmm... Bella scheda del Nieuport Ni. 17 C1 Galland! ;)

 

Da ricordare anche l'Asso William Avery "Billy" Bishop che ha volato con il Ni.17 :D

Lieutenant-Colonel_Bishop.jpg

Bishop and a Nieuport 17 fighter

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  • 1 mese dopo...
Ospite galland

Riprendo la narrazione delle gesta di Francesco Baracca postando due abbattimenti narrati da lui medesimo alla madre. Tratto da:

 

Vincenzo Manca

L’idea meravigliosa di Francesco Baracca

Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1980

 

La 28a vittoria: tragico e spaventoso scontro

Al 19 novembre

«Ora mi trovo a Padova assai bene, abbiamo occupato, vicino al campo, una ricchissima villa, dove abbiamo acceso il termosifone, notte e giorno, e vi abito da proprietario: tutti sono fuggiti di qua e Padova è spopolata, vi è più posto per noi.

Le notizie della fronte sempre più buone; i tedeschi attaccano a dense masse e se ne fanno mucchi di cadaveri e non riescono a sfondare le linee. Qui si crede che presto la loro offensiva sarà sospesa, e si spera di ricominciare poi noi di nuovo la marcia in avanti ed ho molta fiducia di ritornare in primavera al mio campo di Santa Caterina.

Avrete già avuto notizia dell'ultima mia vittoria: la 28a, tragico e spaventoso scontro. Ero in crociera il 15 sull'alto Piave, sulle colline di Montello. Vidi un punto nero lontano, sui 4.200 metri; veniva da Conegliano verso Susegana alle 12,30 e continuò su Treviso; era nemico, girai dietro e incominciai l'inseguimento. Mi avvicinavo e l'aeroplano ingrandiva; a una certa distanza riconobbi l''Aviatik' tedesco; accostai con la mia solita rapidissima manovra sotto il suo fuoco; si difese bene, ma, dopo un 120 colpi, vidi le fiamme a bordo e incominciò a scendere; vidi l'aeroplano avvolto dalle fiamme a 4.000 metri; gli aviatori si gettarono fuori e l'Aviatik' precipitò vicino al campo di aviazione di Istrana (Treviso). Scesi subito e dopo pochi minuti ero sul luogo.

Gli aviatori tedeschi erano due tenenti di aspetto molto distinto; uno di essi aveva anelli d'oro, la fede matrimoniale ed un ritratto di donna in un astuccio di pelle; aveva la croce di ferro, decorazione di guerra tedesca. Conservo dell'apparecchio le due mitragliatrici, i tubi del timone bruciato, la macchina fotografica.

Vi è poca attività da qualche giorno; parto spesso guidando forti pattuglie di 4 e 5 piloti e percorriamo le linee: guai a chi ci capita in mezzo! C'è, dall'altra parte, la pattuglia del capitano Bramowshy che ha abbattuto 22 nostri aeroplani; vola su un 'Albatros' da caccia e due mitragliatrici, tutto rosso; ma non c'incontriamo mai» (1).

(1) Cfr.: lettera alla «Mamma» del 19-11-1917.

 

Ed ancora al 26 di novembre

«Vengo ad annunziarti un nuovo apparecchio abbattuto: è la mia 29a vittoria. Il giorno 23 è stato un trionfo per la mia squadriglia: abbiamo avuto 8 scontri aerei e tre apparecchi abbattuti. Il 21, Ranza ha abbattuto il suo 90 nelle nostre linee a Bassano, un 'Aviatik' germanico: morti i due ufficiali che lo montavano; il 23, nel mattino, il capitano Costantini della mia squadriglia, col sergente Magistrini, abbattevano a Cornuda un 'Aviatik' germanico nelle nostre linee: morti anche i due aviatori; è la terza vittoria di Costantini e la 4a di Magistrini, venuto da poco nella mia squadriglia. Il colonnello Piccio, dopo uno scontro, era costretto a scendere con l'apparecchio crivellato di proiettili; alle 3 del pomeriggio attaccai io, col tenente Novelli della mia squadriglia, un caccia tedesco che volava sulle nostre linee; la lotta fu emozionantissima da 3.500 m. finì a 500 metri da terra, fra un alternarsi di colpi di mitragliatrice e di acrobatismi per sfuggire ai colpi; finalmente il nemico colpito planò dentro il Paese, vicino alla nostra riva, su una secca e l'apparecchio si rovesciò là sopra. Lo seguii fino a 100 metri; poi risalii perché sentivo le mitragliatrici dalla riva opposta; il pilota tedesco, che portava al collo una sciarpa di seta nera, forse ferito incendiò l'apparecchio e mi riferirono poi che riuscì a fuggire ed a nascondersi. L'apparecchio era un 'Albatros D III ' da caccia a due mitragliatrici, il migliore caccia germanico. Fu la mia 29a e la 3a di Novelli.

Alle 3,15, avvenne un altro scontro di un'altra pattuglia dei miei piloti Parvis e Keller; abbatterono un 'Aviatik' che cadde sull'altra riva del Piave e furono poi attaccati da quattro caccia nemici e ritornarono essi pure con gli apparecchi crivellati di colpi e fu la 88 vittoria di Parvis e la l8 di Keller.

Ora arriveranno francesi ed inglesi.

Il mio tedesco cadde a Falzè di Piave, vicino al ponte di Vidor. L'altro ieri, un valoroso sergente, che promette molto ed è un'anima perduta, abbatté da solo, al di là di Monte Grappa, due aeroplani nemici. Anche dei nostri in questi giorni ne sono andati giù molti e rimasti di là; ma ne perdono di più i tedeschi».

Cfr.: lettera alla «Mamma» del 26-11-1917.

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