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Quella mattina di sabato, giorno sacro per la religione ebraica, lattività alla base dellUnità raggiunse il suo massimo. Quasi nessuno aveva chiuso negli ultimi due giorni. Tutti gli uomini destinati alla missione erano pronti e già si cominciava a controllare e ricontrollare ogni voce dellequipaggiamento che si sarebbe portato. Lapprovazione o meno della missione ora dipendeva dal potere politico e non più dai militari: gli ostaggi ancora a Entebbe erano prigionieri ormai da una settimana e lultimatum dei terroristi sarebbe scaduto il giorno dopo. A Tel Aviv verso le 09:00 sarebbe cominciata una lunga riunione dei ministri di Israele, Rabin in testa, che si sarebbe protratta ben oltre il decollo della forza dintervento: si calcolava infatti che si sarebbe potuto dare lautorizzazione formale alla missione anche quando gli aerei si sarebbero trovati già in volo. Il problema era che raggiunto il punto di non ritorno, la forza dattacco non avrebbe avuto più il carburante per tornare in Israele in caso di un annullamento di tutta loperazione. Per cui la decisione andava presa prima gli la forza raggiungesse quel punto in Mezzo al Mar Rosso. Di prima mattina, Netanyahu, che era ritornato poco dopo lalba, andò con Shomron dal generale Adam a ricevere gli ultimi ordini formali, poi tornò alla base dellUnità e parlò personalmente con ogni uomo che sarebbe partito con lui. Gli ufficiali subalterni avevano avvicinato il loro superiore diretto, il capitano Giora Zusman, dicendogli che non si sentivano ancora sicuri riguardo ad alcuni punti della missione e che a loro sembrava ancora organizzata in modo affrettato. Zusman lo riferì a Netanyahu che indisse una riunione tattica con i suoi ufficiali, nella quale venne esaminata lintera gamma delle domande possibili. La riunione avrebbe dovuto durare 15 minuti, ne durò 50, ma alla fine tutti ne uscirono soddisfatti. Successivamente Netanyahu corse a Lod per il briefing con i comandanti delle altre unità coinvolte e con i piloti. Nel frattempo per gli uomini del Sayeret Matkal non cera altro che lattesa. Tutto lequipaggiamento era preparato e verificato. Bisognava solo aspettare. Lattesa fu snervante a detta di alcuni. Molti si misero a dormire sul loro equipaggiamento, convinti che non si sarebbe mai andati da nessuna parte. Bukhris a un certo punto venne preso dallo sconforto. Andò da una sua ex compagna di scuola, YaEl, che era una delle segretarie di Netanyahu e le dettò uno scritto per i suoi genitori, in caso non fosse tornato. Poi allimprovviso, nella mattinata, quella calma apparente venne infranta. Arrivarono gli autobus in una lunga fila e si disposero in attesa sul piazzale. Gli uomini vennero chiamati per nome e contati, poi iniziarono a salire a bordo degli autobus. Allultimo momento, Kafri e Dagan, che ormai lavoravano ininterrottamente sulla Mercedes dalla notte del giovedì precedente, si accorsero che la pittura nera applicata venerdì notte, asciugandosi, creava chiazze di colore di tonalità differente, per cui i due specialisti iniziarono a darsi da fare sullautomobile con bombolette spray di nero lucido, per dare più uniformità al colore. Stavano lavorando ancora attorno allauto con quelle bombolette, quando Dagan si fermò di botto e alzò lo sguardo, guardandosi intorno: il familiare frastuono della base allimprovviso era scomparso, per cedere il posto a uno strano silenzio. Vedendo lamico, anche Kafri smise di spruzzare vernice e fissò Dagan stupito, poi anche lui realizzò: Ci hanno lasciato qui! I soldati dellUnità erano saliti sugli autobus in attesa proprio davanti allhangar dove Kafri e Dagan stavano verniciando il Mercedes e tutti avevano dato per scontato che loro si fossero accorti, per cui nessuno li aveva avvertiti. I due specialisti non potevano crederci! Gli uomini dellUnità che non erano stati assegnati alla missione e che bighellonavano lì intorno ormai stavano sghignazzando apertamente. Dagan e Kafri buttarono le bombolette di colore, coprirono le targhe ugandesi, salirono sulla Mercedes e corsero a Lod, dove la forza dintervento si stava imbarcando sui C-130H dellaviazione. "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan. "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo netanyahu.
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A vederla così questa nuova "classe" di velivoli mi sembra molto promettente. Da quel che ho letto un solo turboalbero basterebbe all'S-97 per far girare l'elica di coda e i due rotori. Se si toglie il peso in più del doppio rotore, questa formula mi sembra più conveniente di quella dell'Osprey, perchè è più semplice: non cìè bisogno di inclinare proprio neinte, c'è l'elica per muoversi come aereo e ci sono i rotori per fare l'elicottero. Da questo punto di vista, penso che non dovrebbero chiamarli "elicotteri", ma "elicoplani", cioè in volo traslato l'elicoplano ha la sinta in avanti data dal motore di coda mentre il rotore (o i rotori come in questo caso) diventano un'ala, ossia servono solo a fornire portanza e non a muoversi in avanti. Il contrario accade in hovering, in cui forse l'elica posteriore la mettono in bandiera ?
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Se l'aereo o le'licottero hanno i sensori passivi giusti, questi si accorgono quando il radar nemico cambia modo di scansione e passa dalla tracciatura al puntamento e avvisano il pilota. Da quel che so, l'avvisatore SAM si accende quando capta le emissioni di radar ostili che scandagliano la zona. Se uno di questi radar punta l'aereo, cioè passa dalla normale tracciatura radar all'acquisizione, o addirittura si accende il guidamissili, allora la spia "SAM" (già accesa) dovrebbe iniziare a lampeggiare e si dovrebbe sentire in cuffia l'allarme acustico che avvisa il pilota che l'aereo è appena stato acquisito. (Però io non sono pilota ...). Nel caso del SA-13 probabilmente il sensore RWR dell'F-18 ha captato gli impulsi Doppler del radar nemico e si è accesa la spia "SAM" sul cruscotto. Ci sono sistemi che poi servono a rilevare eventuali missili in volo, per cui se uno o più missili (a guida IR in questo caso) vengono lanciati, l'aereo se ne "accorge". Uno di questi sistemi dovrebbe essere rappresentato da una o più "catene" di sensori IR sparsi sulla superficie dell'aereo, che rilevano la vampa di coda di un missile in volo e avvisano il computer di bordo.
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C-17A Globemaster III - discussione ufficiale
Hobo ha risposto a enrr nella discussione Aerei da Trasporto, AWACS e Aerocisterne
Da quello che so io il C-17 è un trasporto strategico, non tattico. Anche se con doti di decollo corto da piste inprovvisate che lo avvicinano a un trasporto tattico. Credo che sia per questo che non so se è il terzo o il quarto aereo più caro al mondo. Dovrebbe esistere un accordo tra Australia a Nuova Zelanda per l'utilizzo dei C-17 australiani, come si è visto in occasione del terremoto di Christchurch. (Rivista Aeronautica, n° 2, 2011, pag 66). -
Il giorno prima Alle 16:00 di venerdì, Netanyahu prese il suo autista e in macchina con lui si recò per l’ennesima volta al Kyria a Tel Aviv, per spiegare il piano d’assalto dell'Unità al ministro Peres. All’entrata del Kyria, la sentinella di guardia non voleva farli passare perché non risultavano. Netanyahu scese, alzò di persona la sbarra e fece cenno al suo autista di muoversi. La riunione con il ministro della difesa durò 50 minuti. Peres ne uscì soddisfatto e disse che avrebbe raccomandato l’autorizzazione dell’operazione al primo ministro Rabin. Netanyahu ritornò alla base dell’Unità e si rimise al lavoro sul piano con Avi Livneh, che avrebbe dovuto recarsi all’ennesima riunione notturna dei Servizi. Durante la notte, l’attività proseguì. Kafri, Dagan e Razal continuarono il lavoro sulla Mercedes. A fine esercitazione, Netanyahu aveva lasciato un biglietto per Dagan: “E’ imperativo che l’auto funzioni”. Danny Dagan si era rimesso al lavoro sulla Mercedes, ma non prima di dire a Netanyahu che aveva un amico che possedeva una Plymouth Fury che avrebbe potuto andare come sostituta della Mercedes, qualora in ultimo Dagan non se la fosse sentita di autorizzare l’uso dell’auto tedesca. Netanyahu gli aveva detto: “Bene! Va a prendere l’auto del tuo amico e testiamola sugli Hercules. Digli che le Forze Armate lo risarciranno di qualunque danno alla sua auto”. Dagan era andato dall’amico ed era tornato con la Fury, ma questa si era rivelata 60 cm troppo lunga per entrate nel C-130 con le due Land Rovers, per cui era stata scartata e ora Dagan stava dando il meglio di sé sulla Mercedes: tutto pareva girare attorno a quella macchina, anche se Yisrael Sales aveva detto che in casi estremi si sarebbe potuta usare anche la sua grossa Audi verde e anzi aveva già consegnato le chiavi al comandante dell’Unità. Nel frattempo, Amitzur Kafri aveva ricevuto da Netanyahu l’ordine di preparare anche diverse cariche esplosive. Le più grosse, da demolizione, sarebbero servite durante la ritirata, per minare le piste e i raccordi che gli israeliani si sarebbero lasciati alle spalle mentre ritornavano agli Hercules. Queste cariche sarebbero state ritardate di 10-15 minuti e avrebbero avuto il duplice scopo di sfondare il fondo delle piste e di dare l’impressione agli ugandesi che gli israeliani fossero ancora in linea. Le cariche più piccole invece avrebbero dovuto servire per abbattere eventuali porte sbarrate. Si fece notte, ma le luci alla base rimasero quasi tutte accese. Bukhris nella sua branda non riusciva a dormire. Non aveva molta paura, ma c’era un pensiero che lo teneva sveglio: lui era l’ultimo rimasto della sua squadra nell’elenco per l’operazione a Entebbe. Sapendo di essere il più giovane di tutti, di non essere mai stato in guerra e che c’erano altri “pretendenti” con ben altra esperienza che la sua, Bukhris temeva di essere cancellato all’ultimo momento, così se ne era uscito dalla sua camera ed era andato a chiedere se c’erano novità. L’ufficiale responsabile l’aveva tranquillizzato: nessuno l’avrebbe cacciato e poi Netanyahu lo conosceva personalmente e aveva scritto di suo pugno il suo nome nell’elenco degli ammessi, se ancora non l’aveva cancellato, difficilmente l’avrebbe fatto in seguito. Bukhris infatti conosceva di persona il comandante. Il ragazzo aveva appena passato la durissima selezione per il Sayeret Matkal. Era successo che si era talmente allenato in montagna da aver riportato una frattura da sforzo in un piede; motivo per cui non aveva potuto sostenere le ultime prove nella sessione prevista e non aveva potuto recarsi a ricevere le ali dell’Unità con i suoi compagni nella consueta cerimonia serale. Al contrario, aveva dovuto risostenere l’ultima prova notturna a fuoco reale: lui da solo con un altro collega. Netanyahu, come sempre, aveva voluto venire di persona a presenziare all’ammissione delle nuove reclute nell’Unità, anche se stavolta erano solo due. A fine prova li aveva chiamati entrambi per nome nel buio, aggiungendo: “Stasera non c’è tutto il Sayeret Matkal schierato a ricevervi, ma ci siamo solo noi. Questo non toglie nulla all’azione, che anzi per me è ancora più commovente. Questo è un esame privato, che lega me, come comandante, a voi due”. Poi Netanyahu gli aveva stretto la mano e dentro il palmo del comandante Bukhris, ancora ansimante per la prova, aveva sentito che c’erano le ali del Sayeret Matkal: era rimasto lì impalato nel buio, fradicio di sudore, a stringere quelle ali nel pugno chiuso senza poterle vedere. (Il distintivo dell’Unità è segreto: non si indossa sull’uniforme e nessuno dei non addetti ai lavori conosce i volti e i nomi di coloro che fanno parte di quella Forza). Bukhris sapeva che avrebbe anche potuto non fare ritorno da Entebbe, ma dopo aver parlato con l’ufficiale di servizio se ne andò a dormire: era improbabile che lo cancellassero dalla missione. Anche Amir Ofer non dormiva. Lui e Shlomo Reisman avevano chiamato Blumer e se ne erano andati nella camera di Ofer, avevano spento la luce ed ora erano tutti e tre sul pavimento a regolare i visori notturni dei Kalashnikov. Erano tutti veterani. Reisman ricordava l’azione all’hotel Savoy di Tel Aviv, in cui il fumo delle esplosioni e l’oscurità per poco non avevano provocato il disastro; lui stesso era stato ferito e un suo compagno era rimasto ucciso. I visori notturni all’infrarosso sono utilissimi per prendere la mira sulla breve distanza, nel fumo e nel buio, ma bisogna regolarli bene, perché dove arriva il raggio del visore arriva il proiettile, quindi bisogna essere precisi nel montaggio: è questione di vita o di morte. Provati i visori, Ofer e la sua squadra riaccesero la luce, aprirono i dossier e ristudiarono tutta l’operazione per imprimersela meglio nella memoria. Studiarono anche la via migliore per squagliarsela da Kampala via terra, qualora gli Hercules fossero stati distrutti: la cosa appariva disperata, ma possibile, anche se il Kenya distava più di 200 chilometri. Anche Danny Dagan nell’hangar di Razal stava studiando la mappa del Kenia. In linea d’aria il confine keniota distava 193 chilometri da Kampala. La strada invece, che superava i 200 chilometri e costeggiava la riva settentrionale del lago Vittoria. Era lungo quella strada che correva la via più breve per scappare via terra in Kenya. Si sapeva che le strade africane moltiplicano la distanza; per non parlare delle forze ugandesi … Dagan andò da Sales. Insieme fecero due conti sui pesi e decisero di saldare agganci supplementari per altre taniche di benzina sulle Land Rovers già stracariche. Netanyahu intanto proseguiva il lavoro con Livneh, il quale non avrebbe potuto seguirli a Entebbe. Avi Livneh, ufficiale alle informazioni dell’Unità, doveva andare assolutamente a una riunione notturna con le alte sfere dei Servizi, in vista dell’approntamento di qualcosa che avrebbe riguardato quasi sicuramente cosa avrebbe fatto Israele dopo Entebbe, specie dopo un eventuale fallimento del tentativo di salvataggio. I contenuti della riunione cui si recò Livneh sono tuttora segreti. Netanyahu lavorò con i suoi per tutta la notte. Solo alle prime luci della mattina trovò finalmente il tempo di dormire qualche ora: non riposava da più di 48 ore. Andò a casa sua, un piano sotto all’appartamento di Ehud Barak e per poco non si addormentò esausto sotto la doccia. La sua ragazza fece appena in tempo a metterlo sul letto che lui già dormiva, mentre il cielo già spuntava l’aurora. “Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan. “Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.
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Io prima mi riferivo al ruolo aereo del radar, cioè aria-aria. Tu invece mi sembra che ti riferisci al ruolo terra-aria. Ti riferisci a Behind enemy lines? In quel film mi sembra che si veda un F-18F che viene abbattuto da un SAM di costruzione russa. Il SAM in questione mi sembra quello che la NATO chiama SA-13 Gopher. Il SA-13 dovrebbe essere un eccellente sistema SAM a bassa quota per la difesa missilistica a breve raggio del campo di battaglia: contro gli elicotteri della NATO soprattutto, o contro aerei come gli A-10 o gli Harriers. Il SA-13 è montato sullo scafo di diversi veicoli. Quello del film mi pare un MTLB: un vecchio cingolato russo dalla eccezionale versatilità che ha una mobilità anfibia e in fuoristrada così spiccata che in Siberia lo usano al posto della jeep. E' un sistema missilistico i cui missili sfruttano un triplo sistema di guida passivo, che cioè si basa sulle emissioni del nemico: infrarosse, visibili e ECM. Le prime sfruttano il calore, le seconde la variazione di contrasto di un immagine (è anche detta "guida TV"), le ultime fanno sì che il missile si diriga sugli emettitori ECM nemici (electronic countermeasures) conosciuti. La guida TV su un missile SAM potrebbe essere un guaio perchè sulla breve distanza, essendo basata solo sulla guida televisiva, potrebbe tirar giù qualunque cosa, anche un bombardiere stealth. L'unico difetto è che il bersaglio non deve sparire dietro nuvole, o fumo, o dietro una montagna: cose cioè che interrompono la visione TV del bersaglio da parte del missile. Il sistema di acquisizione del SA-13 dovrebbe essere però elettro-ottico e sfrutta anche un piccolo radar doppler a impulsi per la ricerca dei bersagli ancora fuori dal raggio visivo umano, per poi puntarci sopra i visori ottici. L'antenna di questo radar di puntamento è quella tra i due lanciatori del SA-13. Quindi se nel film dicono "Ci hanno acquisito", forse si riferiscono al fatto che i ricevitori dell' F-18F hanno captato le emissioni del piccolo radar del SA-13.
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Non sono un tecnico, ma da quello che so io, qualunque radar "traccia" (cioè "vede") gli oggetti che cadono nel suo campo "visivo". Cioè emette onde radio e poi accende istantaneamente un ricevitore che capta le eco emesse da quelle onde che rimbalzano sugli oggetti "colpiti". Le eco captate sono poi convertite in un segnale luminoso su un tubo catodico (oggi sullo schermo di un computer). Credo che tutto questo sia captare i vari oggetti che cadono nel range del tuo radar. Uno di questi modi potrebbe essere RWS (Range While Scan, o "search"), in cui il radar si limita a individuare tutti gli oggetti volanti che ricadono nel suo range. "Agganciare" penso che sia un'altra cosa. Si "aggancia" un bersaglio. In genere quando si parla di bersagli volanti, sempre da quello che so io ci sono diverse modalità di funzionamento del radar, che possono essere scelte muovendo un selettore. Uno di questi modi potrebbe essere TWS (Track While Scan), cioè il tuo radar continua la scansione del suo campo visivo, ma ti "segue", ti "rileva" con precisione, uno o più bersagli aerei (altitudine, rotta, velocità ...) mentre continua la scansione (e continua anche a tracciare) tutti gli altri bersagli che possono ricadere nel suo campo. Per "Agganciare" credo che forse tu voglia riferirti alla situazione di aver "Acquisito" un bersaglio aereo. In questo caso, il fascio di onde del radar viene indirizzato tutto su un singolo bersaglio aereo, in modo da ottenere in tempo reale informazioni atte a guidarci sopra i missili (o l'aereo, nel caso di un combattimento a cannonate). Una di queste modalità di inseguimento potrebbe essere STT (Single Target Track), in cui tutto il fascio del radar, o una parte sufficiente di esso, viene "fissato" continuamente sull'inseguimento di un solo bersaglio al fine di ottenere tutte quelle informazioni (posizione, quota, rotta, velocità ...) che servono a un missile per colpirlo. Una volta, credo perchè l'energia richiesta era eccessiva e poi anche i computers non erano quelli di oggi, il lavoro dello scan e del track erano fatti da radar diversi. Es: un radar ti rilevava e un altro ti sparava (single track): quello che ti sparava era il radar guidamissili, che con il suo fascio si dedicava esclusivamente e continuativamente a te. Se sul tuo aereo c'era un ricevitore di onde radar nelle frequanze nemiche (RWR: Radar Warnig Receiver) ti avvisava quando un radar "di scoperta" di aveva visto e quando un radar "guidamissili" stava guidando un missile su di te; le frequenze, le energie e il modo in cui inviavano gli impulsi era diverso e poteva essere sentito in cuffia (e anche oggi credo). Questi sistemi di allerta radar vennero sviluppati soprattuto durante il conflitto nei cieli del Nord Vietnam. Oggi ci sono radar e computers così potenti (radar AESA) da poter gestire contemporaneamente diversi bersagli in diversi modi (controllo del fuoco incluso), continuando contemporaneamente lo scan del campo di visuale e addirittura gestendo bersagli aerei e al suolo (o sul mare). Questo perchè è come se avessero perdona l'espressione "mille occhi" e allora, mentre tutti gli altri "occhi" che compongono la parabola del mio radar si occupano del campo di visuale radar, 10 di quegli "occhi" li dedichiamo a quel caccia nemico e lo inseguiamo, altri 10 "occhi" li dedichiamo a quell'altro caccia e stavolta passiamo in STT e gli spariamo un missile, altri 10 occhi li mettiamo su quella nave, altri 10 su quel bunker nemico e così via... Se un bersaglio viene classificato dal computer di controllo del fuoco come minaccioso, invece di 10 "occhi", il computer gliene dedica 100, o 200, sempre prelevandoli da quei mille. Questo da quello che so io.
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La prova generale La giornata di venerdì venne spesa dalla forza d’attacco per sperimentare quello che era stato messo sulla carta. Sarebbero stati presenti anche il capo di stato maggiore dell’IDF Mordechai Gur e il generale Peled dell’Aviazione. Alle prime luci, i paracadutisti e quelli della Golani iniziarono a radunarsi alla base dei parà, insieme con i veicoli che avrebbero usato a Entebbe. Di, lì a poco, sarebbero arrivati anche i quattro Hercules del 131°. Gli uomini del Sayeret Matkal erano ancora alla loro base. Indossarono le tenute ugandesi e l’equipaggiamento, poi si riunirono nella sala cerimonie della base: c’erano tutti, da Netanyahu fino all’ultimo uomo, anche quelli che non avrebbero fatto parte della missione. Il comandante, seguito dal suo stato maggiore salì su una lunga pedana e dette il via al briefing generale. Bisognava informare gli uomini fino all’ultimo dettaglio e c’erano delle novità giunte da Parigi. Avi Livneh aprì la riunione, dicendo che quella mattina i terroristi avevano deciso di rilasciare i 104 ostaggi non israeliani e non ebrei che rimanevano detenuti nella hall grande. Questo probabilmente perché ormai si sentivano sicuri di aver vinto e di aver dimostrato che la volontà di Israele poteva essere piegata. Significava che ora restavano solo le 106 persone (gli 11 membri dell’equipaggio Air France più le 95 persone di religione ebraica, quasi tutte di cittadinanza israeliana), a quanto si sapeva ancora rinchiuse nella hall piccola, ma era possibile che fossero state spostate nella hall grande. Questo era un problema. Se da un lato infatti semplificava le cose perché gli ostaggi sarebbero stati probabilmente tutti in una stanza sola, dall’altro non si sapeva in che stanza fossero (hall grande o piccola), ma non ci si poteva fare niente. Dopo Livneh, fu la volta di Netanyahu che salì in pedana ed espose il piano d’assalto dell’Unità. Gli uomini ascoltarono in silenzio quello che il comandante aveva da dire. Netanyahu non nascose i rischi e le incognite della missione, che come tutti potevano immaginare erano dovuti in gran parte all’enorme distanza e soprattutto al fatto che non c’era stato tempo: il piano approntato secondo lui era il massimo umanamente possibile. Finita l’esposizione, cominciarono le domande, che erano molte. Una delle più pressanti fu quella riguardo all’arrivo dei blindati. Netanyahu stabilì che sarebbero arrivati come scendevano dagli aerei senza perdere tempo a radunarsi. Questo parve rincuorare gli uomini, che poche ore prima erano arrivati a minacciare di scavalcare la via gerarchica e andare direttamente dal ministro della difesa a dirgli come secondo loro stavano le cose. Al contrario, la tranquillità, la sincerità e la sicurezza dimostrata dal loro comandante parvero fare presa sugli animi e i soldati sembrarono cambiare atteggiamento. Tutti vennero dettagliatamente informati su quello che ci si aspettava da loro, su cosa avrebbe fatto l’uomo sulla loro destra e quello sulla sinistra e chi avrebbe fatto cosa in ogni eventualità umanamente prevedibile. Di più non si poteva fare secondo lui, disse Netanyahu. Quella battaglia sarebbe appartenuta a tutto il popolo di Israele. Quel piano era il massimo che si era riusciti a mettere insieme. Non c’era stato tempo per nient’altro e chi non se la sentiva, era libero di venire a dirglielo privatamente nel suo ufficio: meglio avere meno uomini, ma motivati, che un numero superiore di combattenti, ma divorati dal dubbio. La vita di 106 persone dipendeva dalle loro azioni: se avessero attaccato e fallito, per Israele avrebbe significato il disastro. “Una volta a Entebbe”, disse Netanyahu ai suoi, “ognuno si comporti come se tutto dipenda solo da lui”, Gli uomini iniziarono una lotta feroce per essere ammessi. Nonostante questo in realtà lo stato d’animo generale rimase quello secondo cui quell’operazione non sarebbe stata mai autorizzata da nessuno. La mancanza dei pezzi grossi, che invece normalmente si facevano vedere alla base del Sayeret Matkal prima di ogni operazione, aveva convinto gli uomini che quella missione non sarebbe mai stata realmente presa in considerazione. Nonostante questo,le prove e i tests continuavano. Per prima cosa, bisognava provare e riprovare tutte le armi previste per l'assalto, dalle Beretta .22, ai Kalashnikov, ai Dragon. Ogni uomo si recò al poligono a fare fuoco con le sue armi, sparando anche con tutti i caricatori che si sarebbe portato dietro, per vedere se funzionavano o si inceppavano. L’armamento scelto dalla squadra d’assalto dell’Unità era sovietico, come quello ugandese. C'erano i Kalashnikov, la 7,62 RPD e la pesante DSHK 12,7 mm montata sulle jeep. Alik Ron racconta che con l’abitudine la migliore arma per il combattimento sulla breve distanza secondo lui è proprio l’AK-47. Quelli delle Land Rovers avevano anche gli RPG, un’arma con cui non tutti avevano dimestichezza, per cui gli uomini che conoscevano già quei lanciarazzi portarono quelli ancora inesperti al poligono per fargli vedere come si usavano. Non c’erano visori notturni per tutti i Kalashnikov, per cui alcuni uomini della forza periferica dovettero ripiegare sulle Uzi per le quali i visori notturni abbondavano. Gli altri portarono un enorme armamentario: Galil, M-60, bombe a mano, Uzi, lanciagranate M-79 da 40 mm, granate lanciabili da fucile, mitragliatrici pesanti calibro .50, il tutto insieme con una quantità spropositata di munizioni. Gli uomini erano stracarichi, ognuno si portava dietro mediamente una quarantina di chili di materiali vari. Così bardati corsero tutti alla prima esercitazione prevista nella giornata alla vicina base dei parà, dov’era il simulacro dei terminals di Entebbe. Si cominciò con lo sperimentare la disponibilità di spazio sui vari veicoli della forza e a bordo degli Hercules. Gli uomini iniziarono a salire e scendere sempre più velocemente dalle jeep e dagli aerei, provando ogni volta diverse combinazioni di sistemazione a bordo. Netanyahu andò da Kafri sulla Mercedes e cominciò a girarci intorno, entrando e uscendo svariate volte dall’auto. La macchina, configurata come limousine, aveva tre divanetti: quello di guida, quello intermedio e quello posteriore. Netanyahu la studiò minuziosamente. In Uganda la guida era all’inglese, quindi con posto di guida a destra. La Mercedes purtroppo aveva invece la guida a sinistra, ma non ci si poteva fare nulla. Si sperò che gli ugandesi se ne fossero accorti il più tardi possibile. Gli uomini della forza speciale cominciarono a esercitarsi ripetutamente su come salire e scendere dall’auto il più velocemente possibile e su come trovare la maniera di farci entrare due squadre d’assalto ad equipaggiamento completo: in quel modo la Mercedes era piena da scoppiare. Si rischiava di impigliarsi con le fibbie e le cinture, per cui gli uomini limitarono al massimo la buffetteria e tolsero le cinture ai Kalashnikov, riempiendosi le tasche di caricatori. Kafri stava alla guida, con Netanyahu seduto alla sua destra nel posto del passeggero. Dietro, sul divano di mezzo, si misero Muki Betser, Alex Davidi e il capitano Giora Zusman. Sul divanetto posteriore stavano altri quattro uomini. Erano pigiati come sardine. Provarono e riprovarono diverse posizioni a bordo per le armi. Alla fine decisero che avrebbero tenuto i Kalashnikov verticali, stringendoli tra le ginocchia davanti a loro. Gli uomini davanti e quelli ai finestrini avrebbero impugnato le Beretta e le Smith and Wesson silenziate. In quelle condizioni, Netanyahu pensò che il rischio di far partire un colpo dalle armi una volta tolta la sicura prima dell’assalto era eccessivo e alla fine decise che avrebbe tolto un uomo dal divano posteriore. Frattanto, anche gli uomini delle Land Rovers stavano facendo esperimenti simili a quelli sulla Mercedes. Una volta decisa la sistemazione migliore sulle auto si trattò di imparare a caricarle a bordo degli Hercules con velocità e con precisione millimetrica, dato che anche 2 cm e 2 secondi in più o in meno potevano fare la differenza. Gli autisti iniziarono a salire (in retromarcia) e a scendere in velocità dai Karnaf, dopodiché tutta la forza salì a bordo dei grandi aerei. Tutti sapevano della missione, ma gli uomini delle forze speciali non sapevano se i piloti conoscevano tutto e viceversa, quelli dell’Aviazione non sapevano se i fanti erano già al corrente della cosa, per cui nessuno aprì bocca con gli altri. Gli Hercules iniziarono a rullare velocemente come se fossero appena atterrati a Entebbe. Il Karnaf-Uno (Shani non era ai comandi: si stava esercitando all’atterraggio cieco a Ofira) arrivò nel finto punto di inizio attacco, sbarcò la mezza squadra di Shomron e il Sayeret Tzanhanim, poi ripartì, raggiunse come un fulmine il secondo punto di stop, abbassò la rampa posteriore e ... Non accadde nulla! Il C-130 se ne rimaneva lì inchiodato, con a rampa abbassata e i motori al massimo che sollevavano una tempesta di polvere, ma i veicoli non si vedevano. Kafri sulla Mercedes infatti aveva girato la chiave nel cruscotto della vettura, ma il motorino d’avviamento era rimasto silenzioso. Disperato, Amitzur Kafri sbattè le mani sul volante, abbassò il finestrino dell’auto, sporse fuori la testa e urlò a Yardenai, il conducente della prima Land Rover che si trovava dietro alla Mercedes dentro la stiva dell’Hercules: “Spingimi Eyal! La maledetta non parte!”. Yardenai capì al volo e con la sua Land Rover spinse la Mercedes giù per la rampa e fuori dalla stiva del Karnaf-Uno. Grazie alla spinta, il motore della Mercedes riprese vita e si avviò, ma a bordo Netanyahu e gli altri erano preoccupati: e se fosse successo in Uganda? Appena a terra, svoltarono subito a sinistra e il corteo passò sotto le due gigantesche eliche in movimento dei due motori di destra del C-130: si era calcolato infatti che sotto le pale c’era appena lo spazio sufficiente per far passare le Land Rovers senza decapitare gli uomini che ci stavano sopra. Il corteo corse verso il simulacro dell’old terminal. Sul finto raccordo, Netanyahu sulla Mercedes si imbattè nelle “sentinelle” nemiche (due uomini della Golani) che lui stesso aveva disposto nei punti secondo lui più convenienti per il nemico e studiò l’angolazione migliore con cui eliminarle dalla macchina con le pistole silenziate. Poi si diressero all’old terminal dove altri uomini simulavano i terroristi, gli ostaggi e gli ugandesi e tutti si esercitarono, provando e riprovando, a riconoscere le varie porte da cui avrebbero fatto irruzione. Frattanto, anche i paracadutisti e quelli della Golani si stavano esercitando ad espugnare il new terminal e la nuova torre di controllo, rappresentati da diversi autobus vecchi e nuovi, alcuni dei quali disposti uno sull’altro. Surin Hershko era sergente nella squadra mortai dei parà e si stava esercitando ad espugnare il simulacro del new terminal di Entebbe. La sua squadra doveva conquistare il terrazzo del primo piano del new terminal. Tutti i soldati ugandesi che avrebbero incontrato andavano uccisi, ma non si doveva far male ai civili dell’aeroporto nemico. Hershko racconta: “Noi venivamo da un’esercitazione sul Golan. Ci dissero di mollare tutto e di scendere dalle montagne. Io e 13 altri della mia unità. Non ci dissero nulla riguardo al motivo, ma la notte prima dell’esercitazione ci parlarono di un palazzo di tre piani dove si erano asserragliati dei terroristi e che avremmo dovuto espugnare. Nessuno ci aveva parlato di Entebbe, ma quando vedemmo i Karnaf ed arrivarono le jeep blindate e ci dissero di iniziare a vedere in quanti riuscivamo a starci noi capimmo tutto. Conoscevo già Yonathan Netanyahu. L’avevo conosciuto a un’esercitazione in cui c’erano anche i miei mortai. Io ero abituato con gli altri comandanti di battaglione, che non sapevano molto del mio lavoro, per cui sparavo con i mortai quello che volevo, giusto per fare un po’ di fumo sul campo e accontentare tutti, ma con Netanyahu fu subito tutto diverso. Arrivò e io vidi che tutti lo rispettavano. Non se ne stava al comando di battaglione, ma si muoveva in prima linea. Sapeva cosa chiedermi e quando chiedermelo e mi dava lui stesso le giuste correzioni da fare. Avevamo il nostro veicolo di trasporto mortai, ma appena arrivò, Netanyahu fece scendere l’autista e lo assegnò immediatamente alla mia squadra, mentre sul veicolo mise il suo autista personale, che mi disse: - Sta attento, guarda come dirige il test, come arriva dappertutto - Vidi un comandante estremamente preparato e determinato. Quando seppi che avrebbe comandato lui le Forze Speciali a Entebbe mi sentii molto sollevato”. L’esercitazione proseguiva. Peled dell’Aeronautica non ci capiva molto di tutti quei soldati che correvano ovunque. Gur al contrario pareva apprezzare e aveva un aria soddisfatta.
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Se i depositi di munizioni non sono bunkers sotterranei, ma normali costruzioni, una Mk-83 penso proprio che sia più che sufficiente: pesa 454 Kg, è decisamente una bomba "grossa". Comunque da qualche parte si legge che Cocciolone avrebbe avuto problemi con l'Aeronautica Militare per aver disatteso a certe norme riguardanti per esempio la vendita ai settimanali di foto del suo matrimonio con cerimonia ufficiale dell'Arma Aerea, che pare sia cosa vietata. E quindi non per ciò che dichiarò alla TV irachena, come per anni si è pensato.
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Sergente Maggiore delle Forze Speciali Amir Ofer A mezzanotte del 2 luglio, il telefono aveva squillato a lungo nella camera da letto del sergente maggiore Amir Ofer. Svegliatosi, Ofer aveva risposto ancora intontito dal sonno. Era rimasto sorpreso nel sentire all’altro capo della linea la voce della segretaria di Netanyahu, cosa quanto meno insolita a quell’ora. Ordine di presentarsi alla base senza ritardi. Ofer ormai del tutto sveglio si era rizzato a sedere sul letto. “Che succede? Si va lontano? Aveva chiesto. “Molto”. Era stata la concisa risposta. Appena arrivato alla base del Sayeret Matkal, Ofer era andato dal suo comandante, il tenente Amnon Peled, per essere ragguagliato sulla situazione. Peled lo mise al corrente di tutto, poi aggiunse: “L’Unità sarà la punta di lancia della missione e noi saremo la punta di quella punta”. Ofer ricorda che, come veterano che aveva appena ricevuto la licenza precongedo, non fu molto felice di sapere quella cosa. Sapeva che come soldato anziano (22 anni) l’avrebbero sbattuto sulla linea del fuoco. Ofer racconta: “Ebbi paura. Solo un pazzo non ne avrebbe avuta. Mi mancavano pochissimi giorni al congedo e quella cosa mi sembrò un cattivo presagio. Avevo già riconsegnato l’equipaggiamento, quando Peled quella mattina mi informò”. Amir lasciò Peled e si recò in fureria. Per prima cosa, rintracciò la giovane recluta cui aveva passato la sua mimetica prima di andarsene in licenza; trovò il ragazzo e si fece ridare tutto, poi, indossata la sua comoda tenuta da combattimento, andò in armeria a fare “la spesa”. Prese anche lui il Kalashnikov e tutto il resto dell’equipaggiamento alla ugandese. Rimase impressionato da quel che vide: “L’armeria sembrava il giorno del D-day. Era piena di gente che faceva richiesta di equipaggiamenti d’ogni tipo. Qualcuno aveva messo un lungo tavolaccio davanti al bancone del magazzino che evidentemente non bastava più. Il tavolo era fatto con assi poggiate su dei cavalletti ed era letteralmente sepolto sotto una montagna di caricatori, nastri di mitragliatrice, bombe a mano, armi ed equipaggiamenti di ogni tipo e lì attorno tutti si davano da fare a ritirare quella roba, mentre altri uomini sopraggiungevano. Gli addetti non stavano più dietro alle richieste. Io sorpresi me stesso. Ligio al regolamento com’ero feci richiesta di tutto quanto, così mi ritrovai per le mani anche la torcia di segnalazione per l’atterraggio degli elicotteri. Quale elicottero sarebbe mai venuto a salvarci nel cuore dell’Africa? Sorrisi amaramente tra me e me e rimisi giù quella luce di segnalazione che non mi sarebbe mai servita. L’addetto dietro al bancone mi guardò stupito. Lui non sapeva nulla dell’operazione. Me ne andai senza spiegazioni e quello rimase lì a guardarmi mentre mi allontanavo stracarico di armi”. Ofer ancora non poteva saperlo, ma sarebbe stato il primo soldato israeliano che gli ostaggi avrebbero visto arrivare. Ufficiale riservista Alik Ron Al contrario di quelli che bisognava rifiutare, Netanyahu richiamò in servizio attivo Alik Ron, un ufficiale con cui aveva combattuto nella guerra del Kippur. Ron sarebbe ritornato da un’esercitazione dei riservisti solo venerdì pomeriggio. Netanyahu pensò di richiamarlo prima di allora, ma non lo fece per non insospettire gli altri riservisti che lo avrebbero visto andarsene senza spiegazioni. Nel pomeriggio di venerdì, i riservisti ritornarono coperti di polvere e con ancora tutto l’equipaggiamento. Iniziarono a smontare e a ripulire le armi prima di riconsegnarle in armeria e salire sugli autobus per tornare a casa. Alik Ron stava con i riservisti. Era un veterano, aveva notato subito che c’era qualcosa di strano alla base: la gente andava di corsa e rispondeva a mezze parole e inoltre nel vasto spiazzo aperto al di là della rete Ron aveva visto il nuvolone di polvere sollevato dalle Land Rovers e dagli uomini in addestramento. La cosa non era affatto inusuale in una base delle Forze Speciali, ma quando uno che conosceva lo fermò e gli disse: “Sbrigati, Netanyahu ti aspetta. Sei in ritardo!”, allora Ron fece due più due e capì tutto. Yonathan Netanyahu gli disse che c’era un posto per lui nella squadra comando. Ron accettò e corse al deposito a fare “la spesa”: l’esercitazione generale di Thunderbolt, nella vicina base dov’era stato costruito il simulacro dell’Old terminal, era infatti già cominciata. Il deposito armi era pieno di riservisti che riconsegnavano il loro materiale. Con la fretta che avevano di andare a casa, Ron ricorda che non si accorsero nemmeno che lui stava facendo il contrario. Alik andò al bancone e richiese tutto quanto gli aveva detto Netanyahu. Sotto gli occhi distratti dei riservisti, Alik incominciò a ricevere zaino, Beretta calibro 22 silenziata, due mimetiche da jungla e buffetteria ugandesi, pugnale, caricatori per la pistola, torce da segnalazione, corda e moschettoni da scalata, ambulanzeria, granate a frammentazione, granate al fosforo fumogeni, mine antiuomo, nastri da 7,62 per la RPD. I riservisti intorno a lui non si accorsero di nulla neanche quando Alik Ron posò sul bancone il suo Galil 5,56 mm d’ordinanza che aveva usato all’esercitazione e l’addetto andò a prendergli un Kalashnikov, posandoglielo sul bancone con i caricatori. Ron racconta che, con l’abitudine, nel combattimento sulla breve distanza lui non aveva più voluto nient’altro che il Kalashnikov. Per non dare nell’occhio con quella montagna di roba, Alik si diresse nella sua cameretta e buttò tutto sul letto, tranne il Kalashnikov che mise sotto il letto. Si sdraiò e attese che i riservisti salissero sugli autobus e se ne andassero dalla base. Di colpo però entrò il suo compagno di camera, lo vide sdraiato sul letto in mezzo a tutto l’equipaggiamento e rimase interdetto: “Ma che fai? Non torni in città con noi?” “Tu vai pure, io devo parlare con Betser”. Gli rispose Ron. “Ma sei matto? Betser rimarrà in riunione fino a domani e quelli là sono gli ultimi autobus in partenza! Ma Fa come ti pare!” . Detto questo il riservista se ne andò con gli altri. Rimasto solo, Alik Ron si spogliò. Poi si rivestì da ugandese e corse all’esercitazione che era già in corso alla vicina base dei parà. Il Vecchio Il sergente Danny Dagan era lo specialista in mezzi semoventi del Sayeret Matkal. Non era uno delle Forze Speciali, ma ne faceva comunque parte a tutti gli effetti. Durante la guerra del Kippur, come molti altri civili israeliani, anche Dagan aveva preso la sua auto privata ed era andato al fronte. La sua idea era semplice: rendersi utile. Danny si era spinto da solo fino al fronte di operazioni nord, sui monti del Golan, al confine con la Siria e aveva iniziato a presentarsi da tutti i comandanti di unità che incontrava: fanteria, carristi, paracadutisti, genio, artiglieria, logistica … Gli avevano detto tutti no, finchè non aveva bussato alla porta del giovanissimo comandante di un battaglione corazzato: Yonathan Netanyahu gli aveva risposto semplicemente: “Benvenuto a bordo”. Dagan si era guadagnato la stima di tutti, scendendo almeno due volte al giorno dai monti per trasportare i rifornimenti per i carristi e i loro carri. Di qualunque cosa si trattasse, Danny Dagan non diceva mai di no: ormai aveva lasciato per sempre gli abiti civili. Fu durante quella guerra che Dagan affinò le sue qualità di meccanico e imparò a riparare qualunque veicolo a motore, dalla jeep, al camion, al carro armato. Quando Netanyahu aveva lasciato i carri per le Forze Speciali, Dagan l’aveva seguito in qualità di soldato di carriera distaccato alle Forze Speciali. Quando quel venerdì mattina, Danny Dagan lasciò temporaneamente Kafri e Razal nell’hangar con la Mercedes per andare a bussare alla porta del comandante, Netanyahu non si stupì: se l’aspettava. Danny Dagan ricorda che era rimasto sulla porta e se ne era uscito dicendo al comandante dell’Unità: “Ecco la questione: io vengo con voi”. Netanyahu aveva sollevato lo sguardo dalla mappa, sembrava stanco. L’aveva guardato senza rispondere. Danny Dagan, con i capelli brizzolati e suoi 42 anni, era di gran lunga l’uomo più vecchio del Sayeret Matkal. Se ci fosse stato da marciare per fuggire in Kenya non ce l’avrebbe fatta e includere lui significava escludere qualcun altro. Per colmare quel silenzio, Dagan aveva aggiunto: “Se i veicoli si scasseranno e si scasseranno, nessuno li riparerà come me, lo sai”. “Lascia stare”, aveva ribattuto Netanyahu; “Mi hai convinto, vieni con noi”. Dagan ricorda che per poco non aveva urlato di gioia, invece si era limitato ad esclamare: “Ok! Raduno i piloti e vado a prendere quei blindati: i ragazzi non li hanno ancora visti, gli faccio vedere come si guidano!”. Netanyahu aveva acconsentito. Danny Dagan stava uscendo, quando di colpo si era ricordato anche di un’altra questione: “Comandante ci sarebbe un altro problema …”. Netanyahu l’aveva prevenuto: “Lo so, lo so: il compleanno di tua moglie è stasera, ha invitato anche me. Non preoccuparti, ci penso io”. Dagan era schizzato via, temendo che se fosse restato il comandante avrebbe potuto cambiare idea e lasciarlo a casa. Irena Dagan ricoda che Yonathan Netanyahu la chiamò di persona: “Pronto Irena? Si senti c’è un problema per stasera … Te l’immaginavi eh? Senti non possiamo venire, ma ti giuro che la settimana prossima Danny ed io metteremo su per te una festa che la metà basta”.
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Il Tifone ha sganciato la sua prima bomba guidata in azione di guerra. Per farlo, gli ci è voluto un Tornado GR-4 di 10 anni più vecchio con il Litening per dirgli dov'erano i bersagli. Le bombe dovrebbero essere due GBU-16 (CPU-123 per i britannici), in pratica Mk-83 da 454 Kg a guida laser: dei due carri libici non saranno rimaste neanche le impronte ... http://www.flightglobal.com/articles/2011/04/15/355641/libya-raf-typhoon-hits-fresh-target-with-help-from.html
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Il piano d’assalto dell’Unità all’old terminal di Entebbe Il Karnaf-Uno con a bordo la forza d’assalto sarebbe atterrato sulla main runway sette minuti prima degli altri tre aerei. In quei sette minuti era previsto che Netanyahu conducesse i suoi, vestiti e armati da ugandesi, fino all’old terminal e iniziasse l’assalto. Sul Karnaf-Uno, insieme con gli elementi d’assalto del Sayeret Matkal, ci sarebbero stati anche alcuni elementi scelti del Sayeret Tzanhanim (i parà), il generale Shomron e metà della sua squadra comando. I veicoli a bordo del primo Hercules, dato che i blindati erano ormai una certezza, sarebbero stati tre (di più non ne entrano su un C-130H): due Land Rovers armate a passo lungo e la Mercedes nera. Le due jeep avrebbero dovuto essere imbarcate per prime verso prua, mentre la Mercedes, che doveva scendere per prima, avrebbe dovuto essere imbarcata per ultima a poppa. I musi di tutti e tre i veicoli dovevano essere già puntati verso la coda del C-130 e pronti a scendere subito, la Mercedes di Kafri per prima. Il Karnaf-Uno sarebbe atterrato da sud, si sperava con le luci pista accese ed avrebbe raggiunto l’estremo nord della main runway. Secondo le guide Jeppesen, subito prima della estremità nord della main runway, sulla destra venendo da sud c’era lo svincolo per la pista obliqua. Giunto a livello di questo svincolo, il Karnaf-Uno si sarebbe arrestato per il tempo strettamente necessario a sbarcare Shomron, i suoi e quelli del Tzanhanim, i quali sarebbero scesi subito e avrebbero ripercorso in senso inverso la main runway, dirigendosi a sud verso il new terminal e attendendo lo sbarco di tutto il resto della forza prima di espugnare tutto l’aeroporto. Il comandante dei parà, Vilna’i, aveva avuto un’idea che si sarebbe rivelata vitale: i suoi paracadutisti del Tzanhanim, appena scesi dal primo Hercules, sarebbero corsi subito a piazzare ai due lati della main runway le luci di segnalazione che i parà usano per segnalare le landing areas della loro unità. Queste luci di emergenza stavolta avrebbero invece segnalato la main runway agli altri tre C-130, qualora gli ugandesi avessero spento le luci della pista. Quest’idea, come si vide poi, avrebbe salvato tutta l’operazione. Sbarcati Shomron e i parà all’imbocco dello svincolo, il Karnaf-Uno sarebbe subito ripartito, immettendosi rullando sullo svincolo e imboccando la pista obliqua verso sud: era questo il punto d’inizio attacco per Netanyahu e i suoi. Raggiunto quel punto, l’Hercules si sarebbe arrestato per la seconda volta, avrebbe abbassato la rampa posteriore e i tre veicoli, la Mercedes in testa, sarebbero schizzati fuori, poi l’aereo avrebbe richiuso la rampa e sarebbe rimasto a motori accesi in attesa dello sbarco di tutto il resto della forza d’attacco. Appena il new terminal fosse caduto in mano israeliana, il Karnaf-Uno si sarebbe diretto all'APRON del new terminal per iniziare subito a riempire i suoi serbatoi del carburante ormai vuoti. Netanyahu e la forza d’assalto a bordo della Mercedes e delle due Land Rovers si sarebbero diretti subito all’old terminal, percorrendo la pista obliqua e poi svoltando a sinistra, sul raccordo che portava all’old terminal, lungo circa 200 metri. Avrebbero formato un corteo “in parata”, con la Mercedes in testa e le due jeep gremite di uomini vestiti da ugandesi che la seguivano. Si sperava che gli ugandesi avrebbero pensato a all’arrivo di Idi Amin, o di qualche altro importante personaggio. Raggiunte le sentinelle sul raccordo per l’old terminal, Netanyahu e i suoi le avrebbero fatte fuori, sparando con pistole silenziate: Beretta calibro .22 e Smith and Wesson calibro 9 mm, modello 0, le classiche “Hush Puppy” con silenziatore. L’uso di fuoco pesante dalle auto era invece autorizzato solo nel caso in cui le sentinelle avessero sparato sulla Mercedes. In quel caso, l'effetto sorpresa sarebbe svanito e tutti avrebbero premuto sull’acceleratore per raggiungere il prima possibile il terminal e uccidere i terroristi prima che uccidessero gli ostaggi: la priorità assoluta erano gli ostaggi. Tutti e tre i veicoli avrebbero avuto i fari accesi. In questo modo si sperava che il convoglio avrebbe potuto sembrare il più disinvolto possibile e ci si augurava anche che la luce dei fari finisse in faccia al nemico, ritardando o impedendogli un chiaro riconoscimento immediato. Si decise che non c’era modo di occuparsi per prima della torre di controllo perché gli spari avrebbero allarmato i terroristi. Per cui si stabilì di andare dritti fino al terminal, scendere come se niente fosse, senza correre e uccidere per primi i terroristi dentro il terminal, facendovi irruzione di sorpresa. La torre di controllo sarebbe venuta solo in un secondo tempo: in pratica era un rischio altissimo, perché chi stava sulla torre di controllo, se si fosse accorto di qualcosa, avrebbe potuto iniziare un fuoco efficacissimo sulla forza d’assalto. La sorpresa era tutto. Sarebbe bastato un grido, uno sparo, per mettere in allarme il nemico. Gli ugandesi sulla torre di controllo avevano un campo di tiro privilegiato. Inoltre, l’irruzione in una stanza che si sa gremita di ostaggi e presidiata da terroristi è praticamente un suicidio per il soldato che la esegue. Egli non può farsi precedere nella stanza dalle granate antiuomo e da raffiche di mitra perché ucciderebbe anche gli ostaggi, per cui è costretto a entrare con la sua arma regolata sul colpo singolo. Il terrorista invece non ha la preoccupazione degli ostaggi ed anzi se ne fa scudo e spara a raffica. Roba da kamikaze per chi deve entrare dentro. Motivo per cui necessitava il massimo effetto sorpresa possibile. Al contrario di quello che si pensa, la torcia sotto la canna dell’arma delle truppe d’assalto non serve solo per illuminare l’ambiente in cui si entra, ma serve anche e soprattutto per abbagliare il nemico sulla breve distanza in modo da non permettergli, per quanto possibile, di prendere una mira efficace. (Pare che questa idea venga proprio da Israele). Durante l’assalto in un edificio però, gli spari e le esplosioni generano un fumo tale che difficilmente si vede bene qualcosa, per cui gli uomini del Sayeret Matkal usarono visori notturni all’infrarosso montati sui loro Kalashnikov fuori ordinanza. Un’altra idea che ebbero Netanyahu e i suoi (e che è diventata una procedura standard dell’antiterrorismo) è poi quella di fare irruzione urlando ripetutamente un ordine semplice e chiaro: “Everybody lie down!”. In questo modo si pensa, anzi si spera, che la maggior parte degli ostaggi si butti a terra, mentre la maggior parte dei terroristi rimanga in piedi per rispondere al fuoco. Così si può sparare al nemico senza colpire troppa gente innocente. Sembra che furono proprio gli uomini del Sayeret Matkal ad avere per primi questa idea. Netanyahu e Betser dettero ai loro uomini anche due megafoni in cui urlare gli ordini ai civili durante l’irruzione: in inglese e in ebraico. Una volta stabilito che Netanyahu avrebbe comandato (com’era suo diritto) il contingente d’assalto dell’Unità, dato che era lui il comandante del Sayeret Matkal e una volta che Ehud Barak si era fatto giustamente in dietro ed era partito per Nairobi per preparare l’assistenza in loco per il 707 ospedale, gli ufficiali dell’Unità dettagliarono il loro piano. In comando, Netanyahu, con la sua squadra-comando composta da: il dottor David Hasin, il medico, insieme con un infermiere assistente di Sanità. C’erano poi Tamir, ufficiale alle trasmissioni e un quinto uomo, che in seguito e per volontà dello stesso comandante si sarebbe rivelato essere Alik Ron, un ufficiale riservista veterano, richiamato urgentemente da Netanyahu in persona. Le altre squadre speciali d’assalto all’old terminal si sarebbero divise il compito dell’irruzione nel terminal e della copertura come segue. 1° Squadra, destinata alla prima entrata della hall grande. Composta da: Il Maggiore Moshe “Muki” Betser Amos Goren Alex Davidi Gadi Ilan 2° Squadra, destinata alla seconda entrata della hall grande. Composta da: Il Tenente Amnon Peled Sergente Maggiore Amir Ofer, 22 anni, ma già veterano del Yom Kippur Shlomo Reisman Ilan Blumer 3° Squadra. Stessa destinazione della seconda squadra. Composta da: Il Tenente Amos Ben Avraham Dani Fradkin Gal Schindler 4° squadra. Destinata all’entrata della dogana, al suo corridoio e a fare irruzione al primo piano. Composta da: Il Maggiore Yiftah Reicher (vicecomandante del Sayeret Matkal) Rani Cohen Amir Shadmi 5° Squadra. Destinata a seguire Reicher all’entrata della dogana e nel suo corridoio, per poi presidiare il pian terreno. Composta da: Il Tenente Arnon Epstein Pinhas Bar El (detto “Bukhris”, 22 anni, il più giovane di tutto il team) Udi Bloch Yonathan Gilad 6° Squadra. Destinata alla piccola hall. Composta da: Il Capitano Giora Zusman Adam Kolman Yoram Rubin Amnon Ben Ami 7° Squadra. Destinata alla saletta VIP. Composta da: Il Tenente Danny Arditi Amir Drori Aharoni Berkovich 8° Squadra. Destinata alla copertura e alla difesa ravvicinata della forza d’assalto e composta da: Il Tenente Rami Sherman Amitzur Kafri (lo specialista equipaggiamenti speciali): autista della Mercedes Eyal Yardenai: autista prima Land Rover Uri Ben Ner: autista seconda Land Rover Amos Goren e Amir Ofer avrebbero portato anche i megafoni, per ordinare agli ostaggi di buttarsi a terra e restarci. Amos Goren inizialmente non faceva parte del team, ma salì a bordo del Karnaf-Uno a Ofira, per sostituire un uomo che si era sentito male all’ultimo momento. Gli uomini di ogni squadra d’assalto si erano impressi nella memoria le varie porte d’entrata che avrebbero incontrato sulla facciata meridionale del terminal venendo da ovest e attraverso le quali avrebbero fatto irruzione: corridoio della dogana, prima porta della hall grande, seconda porta della hall grande, porta della hall piccola e infine la saletta VIP. Avrebbero eliminato tutti quelli che vi incontravano. Nessun elemento nemico doveva essere lasciato in dietro ancora vivo e armato. Il maggiore Reicher sarebbe arrivato per primo, irrompendo nella dogana con la 4° squadra, seguito dalla 5° squadra di Arnon Epstein. La 4° squadra si sarebbe diretta al primo piano, mentre la 5° avrebbe presidiato e ripulito il pian terreno. Il maggiore Muki Betser si sarebbe precipitato con la 1° squadra nell’entrata successiva a quella di Reicher: la prima porta della hall grande. Il tenente Amnon Peled, a seguire, sarebbe entrato con la 2° squadra nella porta successiva a quella di Betser, che era la seconda porta della hall grande. Il tenente Amos Ben Avraham l’avrebbe seguito a ruota attraverso la stessa porta con la sua 3° squadra. Il capitano Giora Zusman, con la 6° squadra, avrebbe fatto irruzione nella porta successiva a quella di Peled e di Ben Avraham, che sarebbe stata l’entrata della hall piccola, mentre il tenente Danny Arditi sarebbe piombato con la 7° squadra nell’ultima delle cinque porte: quella della saletta VIP dove sarebbero stati gli alloggi dei terroristi. Nel frattempo, Netanyahu si sarebbe disposto con la squadra comando all’esterno, davanti alla prima entrata della hall grande per prendere le decisioni e dirigere l’azione, pronto a fornire supporto dove richiesto: se necessario anche con la sua stessa squadra comando. Gli autisti della Mercedes e delle due Land Rover si sarebbero uniti all’8° squadra del tenente Rami Sherman, che aveva il compito della copertura ravvicinata e sarebbero rimasti all’esterno con Netanyahu per aumentare la potenza di fuoco, sparando verso la torre di controllo e verso il tetto del terminal con le GPMG e gli RPG dei veicoli, questo per non permettere che gli ugandesi facessero un fuoco efficace sulla squadra d’assalto. Il tutto sarebbe durato non più di pochi secondi, durante i quali sarebbero successe molte cose. Il maggiore Shaul Mofaz, dell’Unità, era stato poi designato da Netanyahu al comando della forza di difesa periferica. Sotto di sè Mofaz avrebbe avuto 30 uomini del Sayeret Matkal e i quattro blindati Re’Em (jeep M-38A-1C blindate e potentemente armate, anche di lanciamissili anticarro Dragon). La forza di Mofaz sarebbe atterrata con il secondo e il terzo aereo sette minuti dopo Netanyahu sul primo Karnaf. I blindati avevano l’ordine di raggiungere la squadra d’assalto di Netanyahu all’old terminal appena sbarcati dai C-130 e senza perdere tempo ad aspettare l’arrivo degli altri veicoli corazzati per radunarsi. I blindati avrebbero contribuito al fuoco contro la torre di controllo e poi all’approntamento di un anello difensivo attorno all’old terminal, all’imbocco della strada per Kampala a nord e al raccordo a est con la base militare dei Mig. I Mig, secondo Netanyahu andavano distrutti al suolo anche senza permesso: potevano abbattere gli Hercules quando sarebbero ripartiti. Il maggiore Mofaz, con la prima coppia di blindati avrebbe raggiunto Netanyahu per dare man forte contro la torre di controllo, poi si sarebbe piazzato sul raccordo ad est, verso la base militare nemica, dove con i blindati avrebbe formato una forza di blocco. Danny Dagan avrebbe guidato il blindato di Mofaz. Udi Shalvi avrebbe comandato la seconda coppia di blindati e si sarebbe attestato a difesa a nord dell’old terminal, all’imbocco della strada per Kampala con l’ordine di bloccare qualunque tentativo degli ugandesi di raggiungere il terminal da quella direzione. “Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan. “Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.
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Entebbe International Airport Le ultime notizie date a Biran e a Livneh dal Mossad dicevano che il volo Air France 139 aveva preso terra a Entebbe il 28 giugno alle 04:15 ora di Kampala, con 257 persone a bordo. L’aeroporto internazionale di Entebbe era una grande struttura situata sulla riva nord del lago Vittoria, 22 miglia a sud del centro di Kampala. L’aeroporto si trovava su una penisola, con a sud il lago Vittoria e a nord una vasta area paludosa. Le acque risultavano infestate da coccodrilli e altri animali potenzialmente letali. Una strada che correva in direzione sudovest-nordest, quasi tutta posizionata su un argine sopraelevato, collegava l’aeroporto a sud con la capitale ugandese a nord. L’aeroporto disponeva di tre piste disposte grossomodo come una gigantesca “N”. La pista più grande, la main runway, correva da sud a nord perpendicolare alla riva del lago Vittoria. Dall’ estremità nord della main runway, originava una pista obliqua che costituiva il tratto diagonale della N. La pista obliqua si dirigeva a sudest, fino ad incontrare l’estremo meridionale di una seconda pista che correva anch’essa da sud a nord e che era la pista dell’aeroporto militare, chiuso ai civili. Vari raccordi e bretelle collegavano le tre piste e i due terminal, il vecchio e il nuovo e andavano studiati attentamente sulle guide Jeppesen. L’A-300 dell’Air France risultava parcheggiato in fondo all’estremità meridionale della pista obliqua, vicino all’estremo sud della pista militare. Il new terminal di Entebbe, con la nuova torre di controllo, si trovava su una piccola collinetta alta una ventina di metri, subito a est della main runway, con davanti un grande piazzale di parcheggio e rifornimento. L’old terminal di Entebbe, ormai in disuso e disabitato da anni, si trovava 1,5 miglia terrestri (2.400 metri) a nordest del new terminal. Dal new terminal non si poteva vedere l’old terminal, nascosto alla vista dalla cima della collinetta sulla cui scarpata ovest sorgevano lo stesso new terminal e la nuova torre di controllo. Anche l’old terminal era stato costruito negli anni ’60 con soldi israeliani e la ditta di costruzioni Solel Boneh aveva gentilmente consegnato al Sayeret Matkal la sua planimetria. L’old terminal di Entebbe era una grande costruzione che si estendeva da ovest e est. Esso constava di piano terra e primo piano. La facciata nord dava sull’imbocco della strada che portava a settentrione, verso Kampala; mentre la facciata sud dava sul grande piazzale di parcheggio che un tempo aveva ospitato gli aerei di linea. A piano terra, andando da ovest a est c’erano: la dogana, due corridoi paralleli con direzione nord-sud che collegavano le due facciate del terminal, una hall grande, una hall piccola, una saletta VIP. La dogana, il primo corridoio, le due hall e la saletta VIP si aprivano a meridione, sul piazzale, tramite cinque uscite: una per il corridoio della dogana, due per la hall grande, una per la hall piccola e una per la saletta VIP. La saletta VIP era una novità per gli israeliani e non risultava nelle piantine della Solel Boneh perché era stata aggiunta dopo. Gli ostaggi liberati dicevano che i terroristi erano alloggiati nella saletta VIP per cui si dovette tenere conto anche di questo. Il primo piano dell’old terminal si poteva raggiungere grazie a due scalinate. La prima, la più grande, si trovava in fondo all’estremità nord del primo corridoio, quello della dogana. La seconda scalinata era invece nella hall grande e portava a un ampio ballatoio interno che sporgeva alla stessa altezza del primo piano dalla parete nord della hall grande. Questo ballatoio dominava tutta quella grande sala e da qui una porta munita di cancello decorato immetteva al primo piano del terminal. Chi controllava quel ballatoio, controllava tutta la grande hall. Andava assolutamente conquistato e tenuto. Il primo piano aveva ospitato un tempo un grande ristorante. A occidente, il ristorante si continuava in una spaziosa terrazza che costituiva il tetto della dogana, che finiva proprio sotto la torre di controllo. Subito a occidente della dogana, una bassa costruzione a pian terreno lunga circa 20 metri conduceva alla torre di controllo, era questa un’imponente costruzione alta una trentina di metri da cui si dominava tutta l’area circostante. A oriente della saletta VIP invece c’era la vecchia stazione dei pompieri aeroportuali. La saletta VIP comunicava con la piccola hall grazie a un corto corridoietto in cui si aprivano dei bagni. La piccola hall comunicava con la grande hall grazie a una bassa apertura, forse utilizzata per i carrelli delle vivande. Per passarci bisognava chinarsi. Era attraverso questa apertura che i terroristi e gli ugandesi avevano spinto gli ebrei e l’equipaggio francese nella piccola hall. Sul piazzale a sud, un muretto decorato alto meno di un metro separava lo spazio immediatamente antistante le due halls e la saletta VIP dal piazzale vero e proprio dell’aeroporto. In questo muretto si aprivano tante aperture quante erano le entrate delle halls e della saletta VIP. Il Mossad diceva che c’erano fino a 10 terroristi alloggiati nella saletta VIP. In genere essi sorvegliavano da fuori gli ostaggi, entrando nelle due hall solo per fare dei giri di pattuglia, altrimenti stavano fuori sul piazzale sotto gli ombrelloni: dentro doveva fare troppo caldo per loro e oramai doveva esserci anche una notevole puzza, perché i bagni per gli ostaggi non funzionavano. Sopra, al primo piano, c’era l’equivalente di una compagnia ugandese, cento uomini, alloggiata nell’ ex ristorante. Gli ugandesi servivano come anello esterno di sorveglianza. La mattina stavano appostati in un raggio di una cinquantina di metri dall’old terminal, un uomo ogni 10 metri circa. Delle sentinelle erano appostate a coppie un po’ più lontano. Due di esse controllavano il raccordo d’accesso per gli aerei a ovest, che dalla pista obliqua, portava all’old terminal, lungo poco meno di 200 metri. Altri uomini stavano di sicuro nella vicina torre di controllo e sul tetto del ristorante e della dogana (coperto da pensiline). Erano soldati ugandesi regolari, armati di Kalashnikov, pistola e bombe a mano. I terroristi avevano un armamento simile. Gli ugandesi collaboravano con i terroristi. Nel vicino aeroporto militare, si stimava la presenza di circa 500-1000 uomini delle forze regolari ugandesi. I 47 passeggeri liberati da Idi Amin avevano parlato anche di sacche di esplosivo disposte tutto attorno alle due hall a pian terreno, ma avevano detto che le sacche sembravano finte! Avi Livneh era propenso a crederci: gli ugandesi alloggiati al primo piano infatti difficilmente avrebbero permesso il minamento dell’edificio sotto di loro, quindi nell’intento dei terroristi quelle sacche avrebbero dovuto servire solo come spauracchio per gli ostaggi. Gli ostaggi risultavano ammassati in entrambe le due hall. C’erano 257 persone il primo giorno, 47 erano state liberate il 30 giugno, per cui avrebbero dovuto rimanere 210 passeggeri, di cui 95 ebrei e 11 componenti dell’equipaggio francese detenuti nella piccola hall, mentre i rimanenti 104 risultavano ancora nella grande hall.
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La Mercedes A guardarla da vicino, la Mercedes scovata dal Mossad era un disastro. Nelle prime ore di venerdì mattina due uomini che non si erano presentati avevano consegnato l’auto al cancello della base. Lo specialista alle armi ed equipaggiamenti speciali dell’Unità, Amitzur Kafri la guardava ora con occhio critico, scuotendo il capo insieme con il suo collega, lo specialista in veicoli semoventi Danny Dagan. Ai due uomini era bastato sollevare il cofano e metterci il naso sotto per farsi una pessima opinione del precedente proprietario dell’automobile. Chiunque fosse stato infatti non doveva aver avuto gran cura della sua macchina che, a detta dei Servizi, era stata un taxi. Tipico del Mossad pensò Kafri: tu gli chiedi una Mercedes nera loro te ne portano una bianca! Almeno avevano azzeccato il modello. L’auto, che per l’Unità rappresentava un fattore di cruciale importanza, era un Mercedes serie 200 diesel con cambio automatico, modello long-wheelbase limousine. Il motore, tanto per cominciare, non partiva più. Non ci voleva un genio per capire che nelle alte sfere non dovevano prendere molto sul serio l’operazione se avevano mandato un catorcio come quello. Kafri e Dagan presero la Mercedes e la rimorchiarono in uno degli hangar della base dell’Unità, regno incontrastato dello specialista meccanico di battaglione, Avi Razal. Razal, Kafri e Dagan avrebbero lavorato più di 24 ore filate su quella macchina. Per prima cosa, riportarono in vita il diesel dell’automobile: cosa non da poco perché il motore era un incubo di tubazioni spezzate e fili penzolanti. Stuccarono e ripassarono tutta l’auto con carta a vetro e la ridipinsero completamente nella livrea diplomatica nera a finitura lucida richiesta da Netanyahu. Il capo meccanico scoprì che lo chassis dell’auto era vecchio e provato e si deformava facilmente, il serbatoio del gasolio aveva una crepa e perdeva, la batteria era debole e l’alternatore e il motorino d’avviamento funzionavano a singhiozzo. Si dovette svuotare e asciugare il serbatoio, aprirlo e poi risaldarlo di nuovo. Avi Razal vide che l’albero dell’alternatore si era storto rispetto alla cinghia di attuazione perché la base dell’alternatore si muoveva, di conseguenza la cinghia slittava e sul più bello si poteva spezzare. Questo non era accettabile in una missione speciale. Siccome non c’era tempo di mettersi al tornio per rifare un nuovo albero, Danny Dagan si limitò a raddrizzare la base dell’alternatore, fissandola con viti nuove e più grandi in modo che la puleggia della cinghia risultasse dritta. Infine, Roden, un ragazzo dell’Unità del Kibbutz Ma’agan Michael, fornì delle perfette repliche di due targhe diplomatiche ugandesi fatte di cartone, nonchè le bandierine ugandesi da mettere a sventolare sui due lati del muso della Mercedes, appese a due asticelle che Dagan e Kafri saldarono sul muso dell'auto. Le ruote erano lisce e malandate: in qualche punto mostravano addirittura la carcassa metallica. Kafri e Danny Dagan si recarono all’una di notte di venerdì da un amico a Tel Aviv, lo svegliarono e gli dissero che gli servivano quattro ruote nuove senza domande. I due scrissero poi un pagherò a una settimana su un tovagliolo di carta. Firmò Dagan, secondo il quale i soldi quel tizio purtroppo li deve ancora vedere.
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Maggiore delle Forze Speciali Moshe Betser Ci pensò Muki Betser al Kyria a risolvere definitivamente il problema dell’avvicinamento all’old terminal. Betser, del Sayeret Matkal, era stato in Uganda ai vecchi tempi, con la missione militare israeliana di Burkah Bar Lev e conosceva gli ugandesi, alcuni dei quali aveva personalmente addestrato (pochi, per fortuna). Betser fece un preciso rapporto sugli ugandesi, basato sulla sua personale esperienza. Nel rapporto tra l’altro Betser diceva che: “Il soldato ugandese è un buon combattente. Il suo addestramento è però di basso livello, specie per quanto riguarda il tiro di precisione. Egli cerca di compensare la scarsa precisione con un aumento del volume di fuoco. Il che lo porta a un eccessivo consumo di munizioni con solo pochi vantaggi riguardo all’aumento dei centri ottenuti. Non ama il combattimento notturno. Non è addestrato a non perdere la testa sotto il fuoco pesante e può andare in confusione sotto il fuoco concentrato dell’artiglieria o dei mortai. Gli ugandesi non hanno una grande motivazione al combattimento. Al contrario, essi combattono solo in vista di una ricompensa o perché direttamente minacciati dai loro superiori, ma quando combattono lo fanno senza remore o inibizioni di sorta. Sparano a chiunque senza pensarci due volte, anche a donne o bambini, ma questo non perché essi siano intrinsecamente insensibili, ma perché in realtà sono sotto la costante minaccia di terribili punizioni corporali che possono arrivare anche alla mutilazione, in caso di fallimento o disobbedienza. Motivo per cui preferiscono sparare piuttosto che riflettere, il che li rende pericolosi (ma anche prevedibili). Quando un soldato ugandese vi punta addosso la sua arma, significa che la sua prossima mossa sarà aprire immediatamente il fuoco su di voi se non fate subito quello che vi ordina senza fiatare. Io stesso, anche dopo diversi anni di permanenza in Uganda, mi avvicinavo agli ugandesi armati sempre con le mani ben alzate e le abbassavo solo dopo essermi accertato che mi avessero riconosciuto. I soldati ugandesi hanno il terrore dei bianchi: ogni volta che ne vedono uno, non importa di chi si tratti, scattano spontaneamente sul presentatarm. Tutti gli uomini ugandesi che rivestono un qualche ruolo di potere amano esibire la cosa in molti modi: una grande auto europea di lusso è il più diffuso di questi modi, uno status-symbol che costituisce costantemente e ovunque un infallibile lasciapassare ... …”. Non a caso, in quasi tutti i filmati in possesso degli israeliani, Idi Amin e i suoi massimi dignitari comparivano costantemente a bordo di grandi automobili di lusso, quasi sempre nere e lucidate a specchio. Ecco come avrebbero fatto ad avvicinarsi il più possibile indisturbati: avrebbero indossato armi ed equipaggiamento ugandesi, avrebbero portato i Kalashnikov invece dei Galil e degli Uzi e si sarebbero fatti avanti su un’auto di lusso seguita da un piccolo corteo di scorta. Il Mossad venne sguinzagliato giovedì notte alla ricerca di una grossa berlina di lusso. “Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan. “Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.
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Il soldato “Se avessi tutte le risposte sarebbe più facile e non mi tormenterei. … Mi viene in mente il grido triste e pazzo di una commedia che vidi tempo fa: - Fermate il mondo: voglio scendere! - Ma non si può impedire al nostro pazzo mondo di continuare a girare. La forza di gravità non ci lascia liberi. Che ci piaccia o no, vivi o morti (certo sarebbe meglio vivi!) noi ci siamo dentro”. Yonathan Netanyahu in una lettera alla ragazza Il tenente colonnello delle Forze Speciali Yonathan “Yoni” Netanyahu (fratello trentunenne di Benjamin) era stato costretto lontano dal Kyria e dalla base del Sayeret Matkal, di cui era il comandante, a causa di un’importante esercitazione nel deserto del Sinai. Per tutto il tempo si era tenuto in collegamento con la sua base e con il Kyria, ma alla riunione preliminare con Ehud Barak, che conosceva bene e con cui aveva già lavorato, non era potuto andare e si era fatto rappresentare da Muki Betser. Mercoledì sera aveva chiesto telefonicamente a Betser: “Vale la pena che io venga?”. Betser gli aveva risposto: “No, è più importante quello che stai facendo là. Qui non si muove ancora niente, se succede qualcosa ti chiamo”. Netanyahu non era contento di non essere a Tel Aviv. Da quello che gli aveva detto Muki Betser l’opzione militare non era ancora considerata prioritaria, ma Netanyahu pensava giustamente che, qualora lo fosse diventata, tutti avrebbero premuto per vedersi assegnare il compito di liberare gli ostaggi e lui non voleva certo che il Sayeret Matkal si vedesse soffiare questa occasione da qualcun altro e lui voleva esserci. La notte su giovedì ci fu l’esercitazione con gli Zodiac, che andò male, ma un’altra prova, effettuata la mattina dopo, aveva dato risultati più incoraggianti. Nelle alte sfere qualcosa aveva cominciato a muoversi, perché i telefoni cominciarono a squillare alla base del Sayeret Matkal. Avi Livneh, ufficiale alle Informazioni dell’Unità, che si trovava con Netanyahu, racconta: “A un certo punto nella tarda serata di mercoledì qualcosa iniziò a muoversi. Nella notte giunsero molte telefonate. Sembrava che fosse stata emessa una direttiva secondo cui all’Unità avremmo dovuto iniziare a fare dei piani. Sapendo come vanno queste cose, io percepii subito dal tono che quelli che chiamavano ancora non credevano molto in quello che dicevano, ma le telefonate erano davvero tante”. Poi, nelle prime ore di giovedì, alla base dell’Unità arrivò una telefonata del comandante. Netanyahu disse: “Tenetevi pronti, la cosa si sta muovendo”. Poi ordinò di tenere tutto pronto per l’alba, anche se ancora al Sayeret Matkal le informazioni, anche le più basilari, erano praticamente nulle e neanche il ruolo dell’Unità era stato definito. Netanyahu arrivò al Kyria giovedì pomeriggio con ancora addosso l’uniforme da combattimento indossata all’esercitazione. Come ricorda Embar, Netanyahu pareva stanco ed era ancora coperto dalla polvere del Sinai. Netanyahu andò subito alle Operazioni, dove Ehud Barak e Muki Betser lo aggiornarono, incontrò anche Dan Shomron. Subito dopo, lasciò Muki Betser al Kyria come collegamento e si recò alla base dell’Unità, dove fece richiamate tutti gli ufficiali che non erano di turno e annullò le licenze e le esercitazioni. Alle 20:00 Netanyahu prese con se i suoi due luogotenenti, Yohai Brenner, capo di stato maggiore dell’Unità e l’ufficiale alle operazioni Rami Sherman e con loro si recò alla riunione dei comandati di unità, indetta da Shomron al vicino club dei parà. Shomron informò tutti su Thunderbolt e disse che la mattina successiva (venerdì 2 luglio) alle 07:00 avrebbe emanato gli ordini formali d’operazione. Yonathan Netanyahu tornò alla base dell’Unità alle 22:00, ora in cui, insieme con Tamir, Brenner, Sherman e Avi Livneh, l’ufficiale alle informazioni dell’Unità, iniziò la pianificazione dettagliata della missione del Sayeret Matkal a Entebbe. Tutti al Sayeret Matkal sapevano che non c’era tempo e avevano una montagna di lavoro da fare. Il maggiore Betser venne richiamato dal Kyria: portava gli ultimi rapporti di Levine sui racconti dei 47 ostaggi liberati. Comparve anche Ehud Barak. Avi Livneh, come ufficiale alle informazioni dell’Unità, aprì la riunione, mettendo al corrente gli altri di quello che aveva saputo da Biran e dai bollettini che continuavano ad arrivare dagli agenti operativi del Mossad a Kampala. Livneh e Betser, che era stato in Uganda, fecero due importanti rapporti su quello che conoscevano. Nonostante molte informazioni fossero ancora nebulose, durante quella riunione serale venne gettato il seme del piano d’assalto delle Forze Speciali all’old terminal di Entebbe e vennero prese decisioni vitali. A mezzanotte ci fu una pausa. Netanyahu fece convocare gli ufficiali subalterni da lui selezionati per una prima presentazione di Thunderbolt, poi si recò al deposito veicoli tattici del Sayeret Matkal, dove ordinò al responsabile, Yisrael Sales, di preparare le Land Rovers che avrebbero usato a Entebbe. All’una del mattino, cominciò la riunione con tutti gli ufficiali subalterni che ancora non ne sapevano nulla e anzi si chiedevano perché li si fosse trattenuti alla base fino a quell’ora. La vasta sala cerimonie della Forza Speciale era gremita. Arrivò il comandante, con il suo stato maggiore. Avi Livneh appese una grande mappa dell’Africa al muro in fondo, poi posò una bacchetta al centro di quell’immenso continente, indicò Kampala, a più di 3.500 chilometri da loro e disse semplicemente: “Qui”, poi cominciò a parlare. Mentre il suo ufficiale alle informazioni parlava, Netanyahu osservava le facce dei suoi uomini: passarono dall’eccitazione allo stupore e poi all’incredulità davanti a quello che sentivano. I giovani ufficiali restavano in silenzio, ma la loro espressione diceva tutto: non potevano credere a quello che sentivano! Il tenente Danny Arditi ricorda che appena sentì quello che Livneh diceva si arrabbiò: lo avevano costretto alla base fino all’una di notte invece di andarsi a divertire a Tel Aviv per raccontargli quella marea di sciocchezze! Quella missione era una pazzia, pensavano tutti. Nessun ministro della difesa, nessun capo di stato maggiore l’avrebbe mai autorizzata. Tuttavia nessuno disse nulla. Le facce in sala passarono alla rassegnazione e infine alla noia. Tutti sorrisero con sufficienza, quando sentirono che se gli Hercules fossero stati danneggiati dal nemico, si sarebbero potuti usare i veicoli di terra per fuggire in Kenya. Il Kenya distava più di 200 chilometri in linea d'aria (almeno il doppio su strada) e le jeep già in partenza avrebbero dovuto portare 12 uomini. Quanto personale poteva mai stare aggrappato a una macchina sulle sconnesse strade africane per più di 200 chilometri? Venti persone? Trenta? E gli ostaggi? Era pazzesco: avrebbero dovuto tirare a sorte tra chi sarebbe fuggito sulle jeep e chi sarebbe rimasto a farsi uccidere a Entebbe! Danny Arditi ricorda che solo l’elevatissimo grado di addestramento ricevuto nel Sayeret Matkal, nonché una buona dose di autodisciplina, avevano impedito a lui e agli altri suoi giovani colleghi di alzarsi e protestare. Al contrario, essi iniziarono a fare domande ben precise su quello che avevano appena sentito, per cercare di far intendere al comandante la non fattibilità di quel piano folle. Il comandante sapeva quello che pensavano gli uomini, lo immaginava: erano professionisti. Il giorno dopo con l’esempio e con le parole avrebbe capovolto la situazione. Danny Arditi ricorda: “La sera prima ero convinto che nessuno avrebbe mai autorizzato quella missione, il giorno dopo ero nell’ufficio di Netanyahu e fare pressioni affinchè tutti i miei uomini fossero inclusi nel team. Lo spazio sui veicoli era limitato: tra coloro con esperienza di combattimento c’era una lotta feroce per essere ammessi.”. Finita la riunione con i subalterni, Muki Betser suggerì di mandare a dormire gli uomini non direttamente impegnati in qualche lavoro, così quasi tutti approfittarono per dormire almeno qualche ora. Avi Livneh ritornò al Kyria per conoscere le ultime novità. Netanyahu non dormiva già da 24 ore, ma rimase sveglio da solo nel suo studio per approfondire il piano: sapeva che il giorno dopo, nel turbine di esercitazioni e riunioni non ne avrebbe avuto il tempo. Nel profondo della notte andò anche a fare visita alla vicina base dei parà, dove i cadetti dell’Aeronautica Militare stavano costruendo sotto la direzione di Dotan il simulacro dei due terminal di Entebbe, poi Netanyahu si recò al deposito veicoli tattici delle Forze Speciali, dove Yisrael Sales stava approntando otto Land Rovers a passo lungo come gli aveva detto il comandante. Non si sapeva infatti quanti veicoli ci sarebbe stato bisogno e se i blindati sarebbero arrivati in tempo. Insieme con Sales e i suoi, Netanyahu girò attorno ai veicoli in allestimento, verificò che le protezioni supplementari e le tasche per le granate degli RPG che aveva richiesto fossero al giusto posto. Salì sulle pedane esterne che aveva fatto mettere per i soldati, così sarebbero scesi più veloci. Poi utti salirono a bordo di una delle Land Rover e partirono a tutta velocità nel piazzale antistante gli hangars, per vedere come si comportava il mezzo. Inchiodarono diverse volte, per verificare i freni e provare gli spazi di frenata. Poco prima dell’alba, arrivarono anche gli specialisti dell’Unità Danny Dagan e Amitzur Kafri. Dissero che i blindati Re’Em erano arrivati e bisognava andare a prenderli in carico e partirono insieme con Sales. Netanyahu li guardò partire davanti all’hamgar, poi tornò a studiare il piano d’operazioni. Sapeva che l’assalto all’old terminal sarebbe durato non più di 60-90 secondi. In quel brevissimo lasso di tempo, sarebbero accadute un’infinità di cose. I terroristi sarebbero morti, anche alcuni ostaggi sarebbero morti e forse anche i suoi uomini sarebbero morti. Lui, Ehud Barak e il generale Adam erano esperti in antiterrorismo e avevano condotto diverse di queste azioni sul campo: sapevano che i morti si sarebbero potuti calcolare in dozzine, anche tra gli ostaggi. La tragedia di Ma’Alot era nella mente di tutti. Bisognava scongiurare il più possibile il ripetersi di quella tragedia. Bisognava avvicinarsi indisturbati per non dare il tempo ai terroristi di uccidere gli ostaggi. Bisognava riuscire ad arrivargli praticamente addosso prima di sparargli a bruciapelo. Se i terroristi avessero fiutato qualcosa, avrebbero ammazzato tutti i passeggeri. Ogni uomo che sarebbe entrato nell’Old terminal doveva poi sapere chi c’era sulla sua destra e sulla sua sinistra e che cosa stava facendo. Tutti dovevano essere messi in condizioni di agire automaticamente. Solo così si sarebbero sentiti più tranquilli e non mandati allo sbaraglio e 3.500 chilometri da casa. Bisognava stabilire inequivocabilmente chi avrebbe fatto cosa in ogni possibile eventualità. Quale squadra avrebbe soccorso un'altra e in che modo. Netanyahu sapeva per esperienza che in un assalto del genere, il rumore, il fumo e il caos sono tali per cui nessuno sente più nulla. Ecco perché tutto doveva avvenire in automatico e tutti dovevano essere informati dettagliatamente su cosa dovevano fare e quando dovevano farla; su cosa avrebbero fatto i colleghi vicini e su cosa avrebbero fatto il comandante e la squadra di copertura all’esterno. Per ridurre il più possibile il caos, Netanyahu prese la rischiosissima decisione di comandare personalmente il fuoco di copertura contro gli ugandesi sul tetto del terminal e nella torre di controllo. In questo modo, non ci sarebbero state inutili sovrapposizioni di fuoco su uno stesso punto, mentre magari un altro settore veniva lasciato scoperto. Lui e la sua squadra comando sarebbero rimasti fuori e davanti al terminal, insieme con una squadra di copertura ravvicinata. Da quella posizione, Netanyahu avrebbe potuto vedere se una squadra era in difficoltà e decidere chi mandare a soccorrerla. Queste e molte altre cose vennero affrontate durante le ore di quella notte, in cui la luce nello studio di Netanyahu non si spense mai finchè non fu giorno e non fu di nuovo tempo di riunioni e esercitazioni. Il maggiore Betser ricorda: “Il piano che venerdì mattina Netanyahu presentò a noi e alle alte sfere del ministero della difesa era completo di ogni dettaglio”. La mattina presto, Netanyahu chiamò Reicher e Betser e stabilì l’orario per l’istruzione dell’intera forza in tarda mattinata, poi alle 07:00 si recò alla vicina base dei paracadutisti dove era indetta la riunione con il generale Shomron per l’emissione degli ordini formali d’operazione. Shomron disse ai comandanti d’unità, Netanyahu, Vilna’i dei parà e Saguy della Golani, che voleva i piani operativi dettagliati entro la mattinata. Netanyahu e Avi Livneh tornarono alla base del Sayeret Matkal. Il colonnello Biran, addetto alle informazioni di Shomron, li seguì con diversi filmati amatoriali in 8 mm presi al tempo della missione militare in Uganda. Erano quasi tutti filmati di Idi Amin all’aeroporto, di cui si vedeva la struttura. Uno dei filmati invece era girato dalla vecchia torre di controllo e riguardava la visita di Papa Paolo VI in Uganda nel ‘69. Gli israeliani rimasero sfavorevolmente impressionati dall’ampiezza dei campi di tiro che si potevano avere dal tetto del terminal e dalla cima della vecchia torre di controllo. Da lassù si dominava tutta l’area, a partire dalla pista obliqua e dal raccordo lungo 200 metri che da essa portava fino all’old terminal. Come si poteva fare ad avvicinarsi indisturbati? “Entebbe. The most daring raid of Israel’s Special Forces”. Simon Dunstan. “Entebbe. L’ultima battaglia di Yoni. Iddo Netanyahu”.
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Aviotrasportati Essendo lui il Comandante di Esercito e Paracadutisti, il brigadier generale Dan Shomron assunse il comando di tutte le truppe di terra nell’operazione. Dato il timore degli ugandesi, molti, tra cui lo stesso ministro della difesa Peres gli avevano chiesto di pianificare una cosa in grande stile, con un poderoso aviosbarco di paracadutisti su Entebbe, composto da un’intera brigata su tre battaglioni aviotrasportati al completo. Inizialmente Shomron era stato favorevole a quest’idea, ma poi si vide che essa era inattuabile: infatti prima ancora che il primo paracadutista avesse preso terra, tutti gli ostaggi sarebbero morti per mano dei terroristi. Peres alla fine gli aveva dato ragione. Ci si orientò quindi su un contingente enormemente più limitato. Quelli delle forze speciali, come Adam, furono d’accordo: una forza più compatta avrebbe infatti garantito le migliori possibilità di “controllo tattico” sul posto. Senza saperlo quindi, quelli dell’Esercito erano arrivati per altre vie alle stesse conclusioni di quelli dell’Aeronautica: basarsi su un contingente limitato. Questo contingente tuttavia avrebbe dovuto essere pesantemente armato e dotato di veicoli per muoversi veloce sul grande aeroporto. I veicoli poi avrebbero potuto servire anche nella malaugurata ipotesi della distruzione a terra dei C-130: in quella eventualità, tutto il contingente avrebbe usato le jeep armate nel disperato tentativo di aprirsi la strada combattendo verso il confine keniota; le possibilità di soccorrerli da Israele sarebbero state nulle: una volta a Entebbe infatti si sarebbe stati a più di 2.000 miglia da casa e completamente circondati dal nemico. Innanzi tutto, ci sarebbe stata una forza speciale d’assalto, composta da uomini del Sayeret Matkal (“The Unit”). Questa forza d’assalto sarebbe atterrata ad Entebbe per prima, avrebbe raggiunto l’old terminal, ucciso i terroristi e liberato gli ostaggi, iniziando a proteggerli se necessario dalle prime reazioni ugandesi. Nel momento esatto in cui sarebbe iniziato l’assalto all’old terminal, sarebbero sbarcate a Entebbe anche una forza d’attacco e una forza di difesa periferica. La forza d’attacco si sarebbe impossessata del new terminal e della torre di controllo dell’aeroporto (costruiti dagli israeliani). La conquista di queste strutture si era resa necessaria per almeno due motivi: primo, esse si trovano su una piccola scarpata da cui si dominava tutto l’aeroporto e, secondo, da esse si controllava il piazzale APRON antistante il new terminal, dove tre dei quattro Hercules avrebbero dovuto andare a rifornirsi di carburante dai serbatoi civili ugandesi, servendosi della pompa trasportata da Israele. Il quarto Karnaf invece avrebbe subito preso a bordo gli ostaggi liberati, decollando immediatamente per Nairobi, dove avrebbe preso terra in emergenza con o senza l’autorizzazione keniota. (Oppure, come si pensa, era stata allestita una stazione di rifornimento clandestina in territorio keniota). La forza di difesa periferica invece si sarebbe schierata tra i due terminal e attorno alla squadra d’assalto e a quella d’attacco al new terminal, appoggiandole nella difesa per resistere al contrattacco ugandese e difendere i rimanenti tre Hercules. Per aumentare le capacità di appoggio della forza periferica, si giunse alla conclusione di usare le nuove jeep blindate “Re’Em” dell’Esercito: jeep statunitensi M-38A1C, dotate di armamento pesante e mitragliatrici calibro .50 (12,7 mm), che per l’occasione avrebbero portato a bordo anche dei missili anticarro Dragon, con relativo lanciatore. Evacuati gli ostaggi, per primo si sarebbe ritirato il Sayeret Matkal, raggiungendo con i suoi mezzi il new terminal, dove si sarebbero già trovati gli uomini della forza d’attacco. Per ultimi si sarebbero ritirati quelli della difesa periferica. Infine, appena riforniti gli aerei, tutti avrebbero dovuto lasciare immediatamente Entebbe. Dan Shomron pensò ai suoi paracadutisti del Sayeret Tzanhanim, un’unità speciale da ricognizione (con elementi selezionati dalla 55ª e dalla 35ª brigata paracadutisti), per l’attacco al new terminal a alla torre di controllo; mentre per la difesa ravvicinata degli ostaggi e dei Karnaf in rifornimento Shomron ricorse ai fanti della brigata di Fanteria “Golani” (Sayeret Golani), un’unità altamente qualificata dell’Esercito. Il comandante dei paracadutisti sarebbe stato Matan Vilna’i, mentre il distaccamento della Golani sarebbe stato diretto dal colonnello Uri Saguy. L’intera operazione era basata sull’effetto sorpresa: se i terroristi avessero avuto il seppur minimo sentore della cosa, avrebbero ucciso gli ostaggi. Tutto il piano non venne mai ritenuto qualcosa di definitivo, ma fino all’ultimo venne gestito come un argomento aperto, cui di volta in volta si apportavano cambiamenti o miglioramenti a seconda delle nuove informazioni che continuamente giungevano a Tel Aviv. La pianificazione dettagliata di Thunderbolt proseguì per tutta la notte di giovedì, mentre alla base dei paracadutisti vicino a quella del Sayeret Matkal, il generale Adam aveva ordinato la costruzione rapida di una replica in scala reale dell’old terminal di Entebbe, realizzata con assi, tela di juta, tiranti in acciaio e diversi autobus, a simulare i fabbricati dell’aeroporto ugandese. Siccome la maggior parte degli uomini era a pianificare la missione o in addestramento, il tenente colonnello Rami Dotan, della Logistica dell’Esercito, chiese ed ottenne l’autorizzazione ad usare i cadetti diciottenni dell’Accademia Aeronautica per costruire il simulacro di Entebbe. Anche i cadetti rimasero poi graditi “ospiti” del Sayeret Matkal, fino a nuovo ordine. All’una di mattina di venerdì 2 luglio, Dan Shomron, Ehud Barak e Iddo Embar dell’Aeronautica avevano lasciato la sala delle Operazioni Speciali al Kyria per recarsi dal primo ministro Rabin e presentarli il piano dettagliato. Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Gur li incontrò fuori dall’ufficio del primo ministro e volle vedere che cosa avevano preparato. Shomron e gli altri aprirono la mappa e mostrarono a Gur le varie tappe dell’operazione: a poco a poco videro che Gur si stava rendendo conto che, date le circostanze, poteva essere una cosa fattibile. Alla fine, Gur prese tutto e disse: “Va bene, presenterò io al primo ministro questa operazione, voi tornate al lavoro”. E si recò da Rabin. Iddo Embar ricorda: “Quando uscimmo all’aperto, a oriente il cielo si stava già schiarendo mentre il Kyria era ancora avvolto dall’oscurità. La sola auto nel parcheggio era la nostra. E pensare che per ogni operazione in Libano, anche la più limitata, tutte le luci erano accese e tutti gli addetti erano al lavoro. Qui invece c’era solo un gruppetto di persone curve sotto il loro fardello. Logico che lo Stato Maggiore ancora non ci prendeva seriamente”. Fonti: "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
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Si, ma non parlavo di metodi, ma di motivi, che erano sempre "politici" (e imperscrutabili). Comunque è tutto strano (ovviamente). Tiro a indovinare: il metodo ceco di pressurizzazione era migliore di quello sovietico ... 4.000 metri non sono molti, ma io già a 3.200 l'ho sentita la mancanza dell'ossigeno e poi in manovra il fabbisogno di O2 del cervello e del cuore dovrebbe ulteriormente aumentare. Un'altra stranezza è: perchè non si sono eiettati (e mi pare che neanche ci abbiano provato), dato che ci sono stati quei 60 secondi di vuoto alla radio? E in 60 sec. il tempo ci sarebbe stato. Tiro ancora a indovinare. Lo volete sapere che "motivo tutto sovietico" mi viene in mente per uccidere Gagarin? Gagarin, da professionista qual'era, forse aveva scoperto che il programma spaziale sovietico non sarebbe arrivato sulla Luna. Non prima degli USA per lo meno. Ecco qua.
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Heyl Ha’Avir – terza parte E qui c’era un problema: la pista di Ofira è parallela alla spiaggia del Mar Rosso, quella di Entebbe invece è perpendicolare rispetto alla spiaggia sul lago Vittoria. Questo significa che la pista di Ofira al buio sarebbe stata più difficile da trovare, sia con l’AWADS, sia visivamente, rispetto a quella di Entebbe. Paradossalmente quindi Shiki Shani era più fiducioso di riuscire a Entebbe, aeroporto a lui sconosciuto, piuttosto che a Ofira, che invece conosceva. Ora, Shani non voleva certo correre il rischio di mandare all’aria tutta l’operazione non trovando al buio la pista di Ofira sotto gli occhi attenti di Gur, per cui giocò d’anticipo (e barò): prese con sé il maggiore Avi Einstein come suo copilota e in meno d’un’ora andarono con un C-130 ad esercitarsi da soli a Ofira, prima di tornare a Lod a riprendere Peled e Gur venerdì sera. Quella sera attesero il calar del sole, decollarono e Gur ordinò che a Ofira spegnessero tutte le luci. Volarono per qualche decina di minuti nel buio, per adattarsi al volo strumentale, poi si disposero per la discesa a luci spente e Shani accese l’AWADS. L’unica fonte di luce era la Luna, non ancora al primo quarto. Einstein non aveva creduto mai neanche per un attimo che quell’operazione ridicola sarebbe stata autorizzata sul serio, ma voleva comunque impressionare per bene Gur. Il C-130 venne giù al buio, con i fari d’atterraggio spenti e le luci sulla pista spente. In cabina c’erano Shani sul sedile sinistro, Einstein a destra e Gur. Nessuno dei due piloti aveva mai fatto un atterraggio di quel tipo. Allungarono tutti e due il collo per guardare fuori: non si vedeva niente! L’AWADS li abbandonò. Il radar rilevò il recinto metallico a lato della pista di rullaggio parallela alla main runway: Shani si era quindi allineato per atterrare non sulla main runway, ma sulla pista di rullaggio! Poco prima di toccare, Shani accese i fari d’atterraggio e con orrore comprese di essersi sbagliato, ma ebbe la prontezza di spirito di non farsi vedere sorpreso da Gur. Lì accanto, Einstein e Peled, che stava seduto dietro Einstein, erano due statue di marmo. Shani corresse bruscamente la discesa sulla sinistra e fu direttamente sulla main runway, ma non insistè nell’atterraggio e non posò le ruote a terra. Al contrario, Shani riattaccò subito, perché atterrare non era necessario e non voleva che gli uomini a Ofira e soprattutto i beduini locali si facessero strane domande su quell’attività insolita, specie alla vigilia del sabato ebraico. Per cui risalì e si rimise in circuito per un secondo avvicinamento. Questa volta la procedura fu quasi perfetta, con solo un minimo disallineamento, facilmente corretto da Shani. Seduto dietro di lui, Motta Gur anche se non era un pilota aveva capito che qualcosa non era andato bene al primo tentativo, ma alla fine si congratulò con i due piloti. Shani riprese quota nella notte, virò a nord e si rimise in rotta per Tel Aviv. Gur sembrava soddisfatto. Shani e i piloti sapevano anche che la notte successiva, a Entebbe, all’ora in cui avrebbero preso terra, la luna sarebbe già tramontata, per cui l’oscurità sarebbe stata davvero totale, ma non dissero nulla perché non volevano fornire argomenti contro l’operazione. Se ci fossero stati problemi nel trovare la pista al primo colpo, Shani era determinato ad atterrare lo stesso e disse a Peled: “Racconteremo alla torre di controllo una cosa tipo che siamo il volo 70 dell’East African Airlines e che abbiamo un’emergenza a causa di un’avaria elettrica e gli ordinerò subito di accendere le luci della pista. Non credo che ci siano controllori di volo in grado di rifiutarsi davanti a una richiesta del genere. Quando capiranno quello che succede, per loro sarà troppo tardi e noi saremo già a terra”. Un’altra cruciale questione era il supporto ai feriti. Quelli della forza di terra richiesero un’unità medica d’emergenza al completo a bordo dell’ultimo C-130, il Karnaf-Quattro e in più Peled tirò fuori dal suo cilindro una cosa mai vista: un Boeing 707 della El Al riconvertito in versione ospedale volante, dotato tra l’altro di un’intera unità di rianimazione e di una sala operatoria al suo interno. Questo aereo impressionante era già pronto, sarebbe atterrato sull’aeroporto di Jomo Kenyatta di Nairobi come volo della El Al e lì avrebbe atteso gli sviluppi della situazione, pronto per i feriti più gravi. Un secondo 707, versione comando e controllo, avrebbe invece trasportato a bordo i responsabili di tutta l’operazione (Adam e Peled), circuitando in alto da qualche parte [non hanno detto dove], al di sopra di ogni minaccia e sopra il teatro d’operazioni. Pare che ci siano stati anche altri aerei in gioco: Phantoms di scorta, cisterne, AWACS, AEW e quant’altro, ma non conosco informazioni certe in proposito, né credo che ce ne siano molte perché è possibile, anche se assolutamente non provato, che gli israeliani siano stati costretti a violare (anche se pacificamente) gli spazi aerei di alcuni paesi, per cui la cosa rimane segreto militare. Pare infatti, per esempio, che i due KC-130 da rifornimento in volo dello squadrone abbiano seguito l’armata aerea, atterrando però clandestinamente sulla superficie di un vasto lago salato nel deserto di Chalbi, nella parte occidentale del Marsabit, nel Kenya settentrionale. Quel lago salato è a meno di 60 minuti di volo da Entebbe e sarebbe ricaduto quindi entro il raggio d’azione (90 minuti di volo) dei quattro Hercules appena ripartiti a corto di carburante dall’aeroporto ugandese. Il Karnaf-Quattro, quello che avrebbe avuto a bordo gli ostaggi, avrebbe preso tutto il carburante di cui aveva bisogno dai KC-130 sul lago di Chalbi e sarebbe ridecollato subito diretto in Israele, a più di otto ore di volo. A quel punto, il carburante rimanente, bastante per un solo Karnaf, avrebbe rifornito uno solo dei tre C-130 restanti, che avrebbe preso a bordo tutti e sarebbe ritornato anche lui in Israele insieme con i due KC-130. Gli ultimi due C-130 della formazione d’attacco e tutti i veicoli terrestri sarebbero stati fatti saltare sul lago salato. In realtà però, alcuni dicono che i C-130 sul lago di Chalbi sarebbero stati cinque, per cui non si sa: è molto probabile che comunque da qualche parte, in territorio non ostile, fosse stata allestita una vera centrale di rifornimento clandestina per C-130.
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Veramente da quello che ho capito era su un Mig-15 proprio per riprendere l'abilitazione militare dopo sette anni passati nel programma spaziale. Nel 1968 il Mig-15 era visto come un ottimo addestratore avanzato operativo, come un MB-339 oggi, o un Hawk e poi dicono che subito dopo avrebbe dovuto effettuare un volo da solista con un Mig-17, quindi perchè ammazzarlo quando era con Serjogin e non quando era da solo sul Mig-17? Volevano far fuori Serjogin? O tutte e due? In URSS c'erano molti contorti motivi per essere uccisi.
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E hai ragione hanno usato un Backfire nella grafica per ricostruire l'ipotesi dell'incidente. Io non c'ero, ma credo impossibile che ci fosse un Backfire quel giorno da quelle parti, per motivi anagrafici del Backfire soprattutto... Se si riferiscono a un "caccia Sukhoi" credo proprio che dato il periodo avrebbero dovuto usare un Su-15 Flagon. Non so nulla del perchè sia morto Gagarin, ma per un pilota come lui che aveva contribuito a certificare il Mig-15 e lo conosceva bene, commettere l'errore di entrarci in vite e a bassa quota mi sembra una cosa apparentemente inspiegabile. Il Mig-15 non doveva essere messo in condizione di entrare in vite perchè non ne usciva. Su diversi aerei, sul cruscotto, nel mezzo, c'era dipinta una linea bianca con scritto testualmente: Se si entra in vite, spingere la barra fino a toccare qui: se al terzo giro non si è ancora usciti, eiettarsi". Un'altra cosa: la pressurizzazione del Mig-15 era rudimentale e inaffidabile. Bastava niente a metterla fuori uso. Volete uccidere un pilota facendolo sembrare "un incidente"? Depressurizzategli l'abitacolo, toglietegli l'ossigeno e metteteci che no so, gas esilarante (potente anestetico) al suo posto. Questo potrebbe spiegare l'entrata in vite e l'assenza di comunicazioni: avevano perso i sensi, o erano già morti! E per essere sicuri, poi rendetegli inutilizzabile l'espulsione. In questo modo, ammesso che sopravviva alle prime due cosette, di sicuro non si può neanche eiettare.
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Così: http://img339.imageshack.us/img339/4599/chinookcarryingmi24.jpg E così: http://img848.imageshack.us/img848/8715/milmi24d.jpg Il resto li distruggevano al suolo con armi guidate. Gli elicotteri semplicemente erano troppo lenti per sfuggire agli E-8. Semplicemente in genere non facevano in tempo a decollare. Io penso che in combattimento un elicottero in hovering a 6000 piedi non ci può stare per una serie di motivi. L'hovering non è il più facile dei voli e non ultimo è che se poi l'elicottero lo beccano viene giù come un sasso perchè in autorotazione ci va assai male o per niente perchè non ha velocità orizzontale già in partenza (essendo in hovering). Il Mi-24 è un elicottero veramente forte, MA la sua filosofia d'impiego era quella dell'appoggio alla sfondamento operato da poderosi corpi corazzati, i quali avrebbero spazzato via ogni minaccia a terra per gli Hind, mentre loro (gli Hind) si sarebbero occupati dei punti più "ostinati" di resistenza anticarro al suolo e della ricognizione armata (depositare uomini e mezzi dietro le linee nemiche). Da quel che so io l'Hind quindi è più uno spaccatutto fatto per operare con fortissime forze di terra, piuttosto che un elicottero d'assalto puro, come invece l'Apache che può operare in piccoli gruppi di elicotteri da ricognizione e da attacco indipendenti dalle forze di terra. La mentalità sovietica era a compartimenti stagni: uno doveva occuparsi di "A", uno di "B", uno di "C" e così via. Chi si occupava di "A" poteva diventare un vero mostro nel campo "A", ma non doveva mai succedere che gli chiedessero di occuparsi anche di "B", o di "C", perchè sennò erano guai. Così l'Hind: è fatto per cooperare con l'artiglieria e i carri armati, ma non per andarsene da solo a casa del diavolo a giocare a rimpiattino con il nemico, come invece fanno l'Apache e l'OH-58, i quali però cooperano benissimo anche con fanteria e carri armati e anzi fanno parte di un "modulo" d'assalto ben organizzato, insieme anche con gli A-10 e l'Aeronautica (AWACS) e quindi formano un "tuttuno" con le altre forze. L'Hind è semplicemente troppo pesante per combattere da solo contro uomini a terra armati di qualcosa di più di Kalashinkov e RPG. Se dal '67 non si cambiato di molto il modo do combattere con gli elicotteri, secondo me è perchè il modo è rimasto sempre lo stesso, così come il C-130 è ancora il cargo più diffuso al mondo e il B-52H vola ancora. Gli elicotteri armati come l'Hind dovrebbero essere un grosso problema solo per chi non ha SAM. In futuro credo che il supporto alla fanteria sarà sempre più appannaggio degli UAV.
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Heyl HaAvir - seconda parte Riguardo allinserimento, in sostanza Peled e Shani avevano calcolato (giustamente, come poi si vide), che latterraggio notturno a Entebbe con le luci di navigazione e i fari datterraggio dellaereo spenti era possibile. Conoscendo la routine aeroportuale, quelli dellAviazione israeliana erano giunti alla conclusione che ben pochi a Entebbe avrebbero fatto caso a un aereo in atterraggio al buio e a luci spente (perché sarebbe risultato invisibile da terra) e che ancora meno persone avrebbero capito di che tipo di aereo si trattava una volta atterrato. Latterraggio avrebbe dovuto avvenire di notte; si sperava con le luci dellaeroporto accese, ma era ragionevole aspettarsi che, non appena avessero cominciato a sospettare qualcosa, gli ugandesi le avrebbero spente. Atterrare a fari spenti di notte, su una pista non illuminata, in un aeroporto non familiare e con un aereo stracarico è in pratica un suicidio. Gli israeliani decisero che si sarebbero aiutati con lAWADS dellHercules, il sistema per il lancio alla cieca del carico (Adverse Weather Aerial Delivery System). Gli equipaggi pienamente operativi, i cui uomini erano ritenuti in grado di potere riuscire in una simile impresa si contavano sulle dita di una mano. Esaminati piloti e navigatori dei C-130 e i riservisti della El Al con esperienza di guerra, Peled e i suoi erano riusciti a mettere insieme non più di otto equipaggi di Hercules giudicati allaltezza della situazione. Erano tutti professionisti di altissima esperienza e quasi tutti erano già stati a Entebbe ai tempi della missione militare israeliana in Uganda. La scarsezza di equipaggi adatti significava quindi solo quattro aerei, non di più: due equipaggi per ogni aereo, di cui uno dei due di riserva. Anche se un numero massimo di quattro Karnaf poneva seri limiti alla dimensione del contingente trasportabile, la cosa non era giudicata un male perché comunque una flotta aerea più numerosa avrebbe sicuramente attirato lattenzione e insospettito anzitempo il nemico: era infatti umanamente impossibile far atterrare come se niente fosse unarmata dassalto aereo di 6, 8 o 10 Karnaf senza che il nemico capisse subito tutto. Per cui il numero massimo venne fissato in quattro aerei, con gli ultimi tre ben distanziati dal primo, per permettere alla forza dassalto a bordo del primo C-130 di atterrare come un tranquillo volo civile di linea e di avere il tempo di iniziare lattacco. Solo a inizio attacco, gli altri tre Hercules sarebbero atterrati. Riguardo allatterraggio notturno su una pista a luci spente, Peled e Shani sapevano che era possibile, anche se pericolosissimo. Tuttavia, il Capo di Stato Maggiore dellIDF, Motta Gur, ne volle avere una dimostrazione pratica o non avrebbe autorizzato loperazione e ordinò unesercitazione notturna sulla pista di Ofira, vicino Sharm el Sheikh. Motta Gur, a parte tutto, aveva ragione: il primo aereo era quello che avrebbe dovuto trasportare la forza dassalto per uccidere i terroristi e liberare gli ostaggi, ma questo non avrebbe mai potuto essere fatto se prima non si riusciva ad atterrare. Gur infatti aveva detto a Peled: Il Sayeret Matkal può combattere a Entebbe come a Tel Aviv: per loro il luogo non fa nessuna differenza. Il problema invece è vostro: se riuscite o non riuscite ad atterrare senza problemi! Voglio una dimostrazione notturna!. Fonti: "Entebbe. The most daring raid of Israel's Special Forces". Simon Dunstan "Entebbe 1976. L'ultima battaglia di Yoni". Iddo Netanyahu.
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Heyl Ha Avir - prima parte Il 707 El Al avanzò lentamente fino a quando laddetto a terra non gli segnalò di fermarsi davanti al terminal. Il grande aereo si arrestò con un inchino appena il suo pilota premette sui freni. Amnon Halivni, riservista e pilota El Al, aveva appena bloccato il suo aereo e iniziato la procedura di spegnimento dei motori, quando, ancora seduto al suo posto in carlinga, notò un ufficiale in divisa dellAeronautica che gli faceva cenno di sbrigarsi e di scendere. Appena sceso, lo fecero salire subito su unauto con targa militare. Anche Rami Levi era appena atterrato a Lod con il suo 707 proveniente da Londra, quando aveva trovato ad attenderlo uno sbrigativo tecnico di volo del 131° Squadron dellAeronautica: non gli dettero nemmeno il tempo di togliersi di dosso la divisa civile della El Al. Tzvika Har Nevo era un riservista navigatore veterano. Quel giorno era a casa sua per preparare un esame universitario della sessione estiva. Squillò il telefono: ordine di presentarsi subito alla base. Uscì subito di casa e mentre si recava alla base si fermò solo il tempo necessario per acquistare il giornale. Alledicola, incontrò la sorella di uno degli ostaggi: la ragazza era disperata: disse che dovevano fare subito quello che dicevano i terroristi e liberare i criminali detenuti, così suo fratello avrebbe potuto ritornare. Har Nevo non sapeva che dire e quella scoppiò in lacrime. Giunto alla base, Tzvika rimase allibito: era pieno di gente che correva da tutte le parti. Ogni stanza, ogni corridoio, erano letteralmente pieni di materiale sanitario, ce nerano delle pile enormi. Gli dissero che stavano allestendo un ospedale volante. Poco dopo, Har Nevo capì perché. La Heyl HaAvir aveva richiamato in servizio attivo tutti gli uomini indicati da Peled e da Shani: uomini con grande esperienza di volo ed esperti nellutilizzo del C-130H. Molti di essi erano anche stati diverse volte ad Entebbe e si ricordavano comera fatto laeroporto. Vennero tutti riuniti alla base del 131° Squadron Yellow Bird e si formarono subito delle unità di studio: piloti, navigatori, ingegneri di volo, equipaggi di terra. Ognuno preparò un piano dal suo punto di vista, per poi integrarlo con gli altri. Data la grande distanza da coprire, si vide che lunico aereo dellarsenale israeliano che fosse capace di raggiungere Entebbe con un carico significativo, atterrarci e ritornare erano i C-130H dellAviazione, che in Israele sono conosciuti come Karnaf (Rinoceronte). Si convocarono tutti gli uomini che avevano servito nella missione militare israeliana in Uganda, affinchè ognuno di loro stilasse un proprio rapporto su ciò che ricordava dellaeroporto internazionale di Entebbe. Poi vennero tutti invitati a rimanere graditi ospiti dellAeronautica Militare fino a nuovo ordine: nessuno protestò. Latterraggio sullaeroporto nemico avrebbe dovuto essere morbido, cioè senza la copertura di aerei da combattimento. Se infatti i terroristi avessero subodorato qualcosa, avrebbero ucciso gli ostaggi, quindi qualunque azione militare preparatoria classica, tipo far entrare dei caccia nello spazio aereo ugandese, o bombardare la vicina base militare, avrebbe significato morte certa per i passeggeri del volo 139. Di conseguenza larmata aerea avrebbe dovuto atterrare a Entebbe in modo furtivo e, per quanto possibile, senza attirare su di sé attenzioni di nessun tipo fino allinizio dellattacco. Il tenente colonnello Joshua Shiki Shani ricorda: Iniziammo a fare una miriade di calcoli e venne fuori che i Karnaf erano gli unici aerei in grado di raggiungere Entebbe portando un contingente di uomini e materiali significativo. Mi riunii con i miei due vice: il comandante degli ingegneri di volo e il comandante dei navigatori e iniziammo a valutare le diverse autonomie con carichi differenti. Parlammo a lungo di navigazione, meteo, carburante, autonomia, carico pagante … Tutte cose che richiedono tempo per essere studiate. Venne fuori che gli unici aerei in grado di arrivare fino a Entebbe (2.200 miglia, 3.541 km) e tornare erano i due KC-130 da rifornimento in volo dello squadrone e, anche così, i due velivoli avrebbero dovuto imbarcare nella loro stiva il grande serbatoio interno da 3.000 imperial gallons, cosa che avrebbe limitato di molto il numero di uomini che si potevano trasportare e avrebbe impedito del tutto il trasporto dei veicoli, di cui la truppa aveva bisogno per spostarsi a terra e per il supporto di fuoco. Di conseguenza, i due KC-130 vennero scartati, anche se si fecero diverse prove per vedere quanto personale poteva essere imbarcato nella stiva che già conteneva il grande serbatoio da rifornimento in volo. Un C-130H normale invece aveva tutti i requisiti di carico, ma non di autonomia: una volta ripartito da Entebbe infatti avrebbe avuto carburante per soli altri 90 minuti di volo, poi avrebbe dovuto o atterrare da qualche parte, o rifornirsi in volo. Le soluzioni a questo problema esistevano; come per esempio il rifornimento in volo dai KC-130 e dai KC-135, ma questo si vide che non avrebbe potuto avvenire senza violare lo spazio aereo di alcuni paesi africani che non stavano collaborando con Israele, come Kenya ed Etiopia, in quanto lunica zona di spazio aereo internazionale dove sarebbe stato realmente possibile rifornirsi legalmente e in tranquillità era la sottile striscia sopra le acque internazionali al centro del Mar Rosso, che per i C-130 ripartiti da Entebbe sarebbe risultata più lontana della Luna, dato che a quel punto essi non avrebbero avuto più abbastanza carburante per arrivarci. Rischiare le aerocisterne israeliane sopra paesi africani ostili o comunque non collaboranti era francamente un azzardo potenzialmente suicida per la missione, per cui si accantonò la possibilità del rifornimento in volo e si prese in reale considerazione o la possibilità di atterrare in Kenya in emergenza e anche senza il permesso delle autorità keniote, oppure leventualità di usare i serbatoi civili dellaeroporto internazionale di Entebbe. Venne consultato il comandante degli specialisti rifornitori di terra e si vide che sarebbe stato possibile rifornirsi direttamente a Entebbe con il carburante ugandese dellaeroporto internazionale, a patto di trasportare laggiù il veicolo con la pompa del carburante e almeno 10 specialisti rifornitori dellAeronautica Militare. Si scelse questultima, rischiosissima, opzione perché era lunica possibile. Rischiosissima perché rifare il pieno di carburante a tutti i C-130 della spedizione con una pompa portatile avrebbe richiesto un certo lasso di tempo [non dicono quanto, ma credo che si calcoli in ore]. Tempo durante il quale ci si aspettava che il contingente sarebbe rimasto a terra e circondato, a difendere dalla reazione ugandese gli ostaggi liberati e gli aerei in rifornimento, senza i quali aerei nessuno di loro avrebbe mai potuto lasciare vivo lUganda!
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Dov'è la "confusione tra un sukhoi e un tu26" ? Tu-26 mi sa è difficile. Gagarin mi pare che morì per un incidente su un Mig-15 biposto da ddestramento.