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"Sic' Em" "Lonesome Polecat II" "Hot To Go"
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Curtiss P-40 Warhawk :asd: :asd: :asd:
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Eppure si vede benissimo si tratta di un F-14 realizzato in modo superbo
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Come al solito Dave, Topic interessantissimi!!!
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Foto bellissime!!! :adorazione: Grazie del tuo supporto!
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Sono d'accordo con te Green, inoltre ho trovato altri dettagli! Non male davvero! :o
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Spero sia come questo Cri94 :drool:
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mmmmmm........ Ottima Info Pap.
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Piaggio Pegna P7 “Pinocchio” Un' altro aereo poco conosciuto destinato alla specialità "Idrocorsa" era il Piaggio P7 “Pinocchio”, costruito con l'intenzione di farlo concorrere allo Schneider Trophy ed ai primati mondiali di velocità; una sua breve descrizione ed alcune illustrazioni si trovano nel Volume “MC. 72 & Coppa Schneider” di Igino Coggi per la collana Monografie Aeronautiche Italiane di Claudio Tatangelo Editore . Il P7 (o Pc. 7), era un originale progetto dell’ing. Giovanni Pegna che provava ad aggirare il problema della resistenza aerodinamica dei tradizionali “scarponi” ricorrendo ad alette immerse del tipo di quelle degli attuali aliscafi. Il galleggiamento da fermo era garantito da una cellula interamente stagna, mentre la propulsione in mare avveniva mediante un’elica marina tripala; quando l’aeroplano era totalmente emerso, in flottattaggio sulle alette, il pilota, tramite un sistema di frizioni, disconnetteva l’elica marina ed innestava quella bipala anteriore aeronautica. Nell’ottobre 1929 il mar.llo Tommaso Dal Molin iniziò i collaudi a Desenzano del Garda (Brescia), con risultati del tutto negativi: il P7 non riuscì nep pure a decollare. Ne furono costruiti solo due prototipi, uno dei quali fu demolito quasi subito mentre l’altro sopravvisse fino al 1944-45. Altre Info in merito Quì
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Infatti, bisognerebbe fare i complimenti al costruttore che ha creato il piccolo gioiello!!!
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SR 71 Blackbird!
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Wow Dave, una foto veramente eloquente!!! (Penso che in quei frangenti nelle officine Reggiane si respirasse aria di lavoro artigianale più che industriale )
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Pensavamo che il tuo U-2 avesse fatto la stessa fine di quello di Francis Gary Powers :okok:
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Failure Is Not an Option: Mission Control from Mercury to Apollo 13 and Beyond
Blue Sky ha risposto a F-14 nella discussione Libri & Riviste Aeronautiche
Ok mi hai convinto, cercherò di prenderlo anche io!!! -
Ehm... Aspettiamo impazienti il varo!!! :asd:
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AEREI TRE, UOMINI QUARANTADUE Negli ultimi giorni di marzo del 1941 l’I-NOVI, l’I-ARCO e l’I-VADO, tre vecchi e malridotti trimotori S.73 del comando trasporti, stavano attendendo la loro fine ai margini del campo di Addis Abeba, ormai in procinto di essere occupato dagli inglesi, quando una schiera di specialisti li prese d’assalto e, in cinque giorni e cinque notti di lavoro, li rimise in efficienza. Era avvenuto che i tenenti Max Peroli e Giulio Cazzaniga, due piloti di linea mobilitati, ai quali l’idea di finire prigionieri degli inglesi non andava a genio, avevano pregato il capitano Aldo Tait, aiutante di volo di Amedeo d’Aosta, di sottoporre al viceré il loro piano: se, attraverso la «cannibalizzazione» di tutti gli aerei fuori uso esistenti sul campo, si fosse riusciti a rimettere in efficienza tre S.73, erano disposti a tentare di raggiungere l’Italia, portando a bordo il maggior numero possibile di aviatori bene addestrati, in modo da sottrarli alla prigionia e da consentire loro di continuare a combattere. Al Duca d'Aosta una promessa del genere non poteva non piacere; la sua esperienza di aviatore e il suo senso di responsabilità lo portarono a chiedere prima quale rotta i proponenti intendessero seguire, poiché gli S.73 non avevano l’autonomia sufficiente per raggiungere con un volo diretto i campi libici della Sirte che in quel periodo erano i più vicini tra quelli in nostro possesso. Quando seppe che Peroli e Cazzaniga avevano previsto di risolvere il problema facendo tappa nell’Arabia Saudita, che era formalmente neutrale, diede il suo consenso al tentativo e impartì gli ordini necessari perché questo potesse venire effettuato. Mentre gli specialisti del servizio trasporti provvedevano a rimettere in efficienza gli aeroplani che, provenendo dall’Ala Littoria, avevano ancora la loro immatricolazione civile, il comando aeronautico dell’Africa Orientale disponeva una scelta del personale militare che, per anzianità coloniale, attività svolta e grado di addestramento era opportuno inviare in Italia. Furono designati undici piloti e undici specialisti che, per evitare differenze e complicazioni, vennero tutti dotati di documenti civili, come il personale del servizio trasporti, che era formato da tre equipaggi di quattro elementi ciascuno e da altri Otto uomini. Nel complesso furono quindi quarantadue gli aviatori che, suddivisi su tre apparecchi, partirono da Addis Abeba alle ore 16,15 del 3 aprile 1941. Per poter valutare in giusta misura lo spirito che li animava, occorre ricordare che molti di loro lasciavano la famiglia in Africa Orientale. Dato che le dimensioni del campo di Addis Abeba e la rarefazione atmosferica derivante dalla sua altezza non avrebbero consentito una partenza con forte sovraccarico, era stato previsto che gli apparecchi, prima di puntare su Gedda, effettuassero un atterraggio e un rifornimento su un campo di fortuna approntato da poco nei pressi di Sifani. Il viaggio si doveva però dimostrare avventuroso fin dalla prima tappa: infatti, un violento temporale incontrato lungo la rotta, le cattive condizioni degli strumenti di bordo e il sopraggiungere dell’oscurità fecero sì che nessuno degli aerei riuscisse a raggiungere la pista di Sifani. L’I-VADO atterrò a Dessiè; l’I-ARCO, dopo aver tentato invano di arrivarvi, effettuò un atterraggio di fortuna a pochi chilometri dal campo di Assab e l’I-NOVI fu costretto a prendere terra nel deserto dancalo. Grazie all’abilità dei piloti, malgrado l’oscurità, il maltempo e il terreno accidentato, gli atterraggi vennero compiuti con tanta maestria che il giorno dopo i tre aerei poterono ripartire: due raggiunsero Gedda a poche ore di distanza uno dall’altro, mentre il terzo, che era rimasto senza carburante, dovette limitarsi ad arrivare ad Assab. Di qui, essendo risultati vani tutti i tentativi di impiegare benzina non etilizzata, poté partire soltanto nella notte del 9 aprile, dopo aver ricevuto il carburante adatto.Quando anche l’I-ARCO raggiunse Gedda, il suo equipaggio ebbe la sgradita sorpresa di essere inviato a tener compagnia al personale degli altri due aerei che era stato rinchiuso in un edificio nei pressi del campo. Le sue alte mura e la disposizione dei locali facevano pensare che si trattasse di un vecchio harem; solo che, al posto di inoffensivi eunuchi, nei corridoi giravano sentinelle armate. Inutile dire che i nostri aviatori non avevano accettato quel trattamento e avevano cercato di dimostrare alle autorità locali che gli atterraggi erano tutti avvenuti per causa di forza maggiore, gli aeroplani erano comuni aerei da trasporto civili e il personale presente a bordo dipendeva tutto da una società privata di navigazione aerea; quindi l’internamento non aveva senso e doveva anzi essere considerato un arbitrio. Il governatore della città, per quanto lo riguardava, sembrava disposto a credere ogni cosa, ma il rappresentante inglese, che ingenuo non era, gli si era piazzato alle costole e usava tutta la sua influenza per convincerlo che quei quarantadue italiani piovuti a Gedda avevano un portamento e una disciplina che ricordavano un po’ troppo l’educazione militare. L’impero britannico non aveva nulla da temere da quel pugno di uomini, ma era suo dovere avvertire che il loro mancato internamento sarebbe stato considerato come un gesto scortese nei confronti del governo di Sua Maestà e avrebbe potuto avere spiacevoli conseguenze. Classico sistema inglese: forma irreprensibile, ma in sostanza un’intimidazione bella e buona. Per fortuna anche il rappresentante dell’Italia a Gedda, il ministro Silliti, sapeva il fatto suo. Superati i primi ostacoli e preso contatto con il tenente Peroli, iniziò a sua volta un’azione di convincimento presso il governo locale e la continuò con fermezza, in modo da controbilanciare l’azione avversaria. Saputo poi che, per lo scarso cibo, la mancanza di acqua potabile e il clima, quasi tutti gli aviatori erano stati colti da febbri malariche, inviò presso di loro il dottor Putzolu che, per quanto già impegnato nell’assistenza di diverse centinaia di marinai italiani e tedeschi internati nella stessa località e in gran parte malarici, si prodigò giorno e notte per provvedere a tutti. Per quanto le condizioni di vita nell’harem fossero tutt’altro che allegre, non tutti si lasciavano abbattere: c’era la distrazione dell’aereo inglese che, dimenticando la neutralità, ogni mattina veniva a controllare se i tre apparecchi italiani erano ancora lì; c’era il solito alternarsi di notizie, speranze e delusioni e c’era la cerimonia giornaliera per l’elezione di «mister febbre», ossia l’aviatore che raggiungeva nel corso della giornata la temperatura più elevata. La lotta a distanza tra il rappresentante italiano e quello inglese si protrasse per una quindicina di giorni e, in occasione dell’arrivo a Gedda del principe Feisal, ministro degli Esteri del governo saudita, si concluse a favore di Silliti che ottenne sia l’autorizzazione a prelevare benzina per gli aerei sia il permesso di partenza per tutto il nostro personale. Da Roma gli era stato comunicato che, data l’incertezza della situazione in Libia, era opportuno far dirigere gli apparecchi su Beirut. Ma proprio mentre il personale, nonostante la febbre, stava di nuovo lavorando intorno agli apparecchi per metterli in condizioni di proseguire il viaggio, arrivò la notizia dell’avvenuta rioccupazione di Bengasi. Perché, allora, non tentare di coprire con un solo volo diretto i 2.250 chilometri che separavano Gedda da quella città? Gli S.73 non avevano l’autonomia sufficiente; ma, se si fossero potuti sistemare a bordo di ciascun trimotore un paio di fusti di benzina travasandoli poi nei serbatoi man mano che questi si vuotavano, il problema dell’autonomia sarebbe stato risolto. La proposta fu accettata, al posto dei fusti furono portati a bordo sei vecchi serbatoi trovati sul posto e riparati alla meglio, il rifornimento venne completa- to e la partenza fu decisa per il 27 aprile, in piena notte, per evitare che gli inglesi, avvertiti in tempo, potessero fare qualche brutto scherzo tentando un’intercettazione lungo la rotta. Tutto sembrava ormai sistemato e la gente pregustava già la gioia del rimpatrio quando, la sera della partenza, uno dei motori dell’I-NOVI, portato al massimo di giri per la consueta prova, cominciò a tossire, a sputare, a vibrare e alla fine si fermò. I motoristi accertarono che i «prigionieri» di un cilindro avevano subìto un allungamento di quattro millimetri e che dovevano essere sostituiti. Cercare in Arabia, nella primavera del 1941, dei pezzi di ricambio per un motore italiano, era assurdo. E assurdo poteva anche sembrare che qualcuno si mettesse in testa di fabbricarseli sul posto con mezzi di fortuna, dato che un motore di aereo non è un rubinetto. Ma c’era di mezzo il miraggio del rimpatrio, il desiderio di non lasciarsi vincere dalle avversità e, soprattutto, quello di non darla vinta agli inglesi: quindi il pezzo fu fatto. Lo fabbricarono con attrezzi rudimentali i nostri impareggiabili specialisti, utilizzando l’acciaio del mozzo d’elica di un vecchio motore che, tra l’altro, aveva il sottile pregio di essere inglese. La fabbricazione manuale del pezzo richiese qualche giorno di tempo e la partenza dovette essere rinviata al 4 maggio per tutti, dato che gli equipaggi ci tenevano a partire insieme. Questo senso di solidarietà era bello e nobile; ma quando, la sera del 3, il campo fu investito da un ciclone di sabbia che strappò gli alettoni all’I-VADO e insabbiò i motori degli altri due apparecchi, fu giocoforza decidere che ognuno seguisse la sua sorte. Gli specialisti impiegarono quattro giorni per liberare dalla sabbia i motori dell’I-NOVI e del- l’I-ARCO ed è fin troppo chiaro che tirarono in lungo nella speranza che anche l’I-VADO potesse essere pronto. Ma, poiché la speranza non poté essere realizzata, nella notte tra il 7 e l’8 maggio, con il solo aiuto dei fari di un’automobile posta oltre i limiti del campo, i primi due apparecchi decollarono. Volarono per circa dieci ore su territori controllati dal nemico e l’indomani raggiunsero Bengasi. Dato che provenivano da una rotta insolita, la radio del campo non aveva in un primo momento risposto alla loro chiamata: allora uno dei marconisti cominciò a trasmettere improperi dialettali così vivi e pittoreschi che a Bengasi non ebbero più dubbi sulla nazionalità di chi trasmetteva e stabilirono il collegamento con gli aerei, guidandoli all’ atterraggio. Gran feste, gran manate sulle spalle e gran brutto tempo che, insieme alla necessità di riparazioni, comportò la perdita di qualche giorno tra Bengasi e Tripoli. Ma nel pomeriggio del 12 maggio l’I-NOVI e l’I-ARCO posavano le ruote al cospetto dei caratteristici pini che circondano l’aeroporto romano dell’Urbe, dove il giorno successivo furono raggiunti anche dall’I-VADO. Quel loro avventuroso rientro e le vicende che lo contrassegnarono attraverso i 6.270 chilometri percorsi su territori che erano in gran parte in mano nemica, meritavano di essere commentati e divulgati ampiamente, magari attraverso un film la cui trama, del resto, era già tutta nei fatti. Ma, a parte gli aspetti esteriori, quei fatti racchiudevano in sé anche un profondo significato morale perché dimostravano come allora noi disponessimo di molta gente che, dopo aver fatto il proprio dovere in condizioni molto difficili, era disposta a rischiare la pelle in un volo avventuroso, al solo scopo di poter ancora rendersi utile, di poter ancora combattere. Era per questo che il Duca d’Aosta aveva dato il suo consenso al tentativo ed era di questo che aveva parlato agli equipaggi prima della loro partenza da Addis Abeba. Quelle sue parole furono per i quarantadue aviatori come un viatico e un impegno al quale essi seppero tener fede continuando a prodigarsi, in molti casi fino al sacrificio. Degli undici ufficiali piloti prescelti tra il personale militare dell’Africa Orientale, cinque vollero essere destinati a reparti aerosiluranti, che comportavano maggiori rischi, due andarono alla caccia e gli altri al bombardamento e ai trasporti. Per chi era animato da senso di dedizione non vi poteva essere tregua e, prima dell’armistizio, già Annona, Bosi, Leonardi e Veronese erano caduti in azione. Ma anche dopo l’8 settembre i superstiti continuarono a combattere e altri si sacrificarono: il tenente pilota Vezio Terzi, dopo aver operato a lungo con reparti di aerosiluranti, cadde durante un’azione di aerotrasporto, mentre era in servizio con i reparti del Sud. Anche tra gli specialisti le perdite furono elevate perché, dopo il loro rientro, tutti erano destinati a reparti operativi duramente impegnati. Tra il personale del reparto trasporti che rimpatriò con quella spedizione,’ sette aviatori di grande esperienza furono prescelti per far parte degli equipaggi che, attraverso difficili voli, mantennero i collegamenti con l’Africa Orientale fino a quando, nel novembre del 1941, anche il presidio di Gondar, l’ultimo sui quale si levava ancora il tricolore, fu costretto a cedere. (Aviatori Italiani) Elenco degli aviatori che presero parte all’avventuroso volo. Equipaggi comando trasporti: tenente pilota Max Peroli, tenente pilota Alberto Agostineffi, 2° capo marconista Ernesto Buglioni, aviere scelto motorista Giuseppe Boero, tenente pilota Giulio Cazzaniga, sottotenente pilota Rinaldo Pretti, 2° capo marconista Nicola Bonadies, sottotenente pilota (motorista) Orazio Duti, tenente pilota Lodovico Riva Romanò, sergente pilota Guido Guazzetti, aviere scelto marconista Ugo Sist, aviere scelto motorista Giacomo Timolina. Personale comando trasporti: tenente pilota Giuseppe Bertolini, sottotenente pilota Mario Valente, sergente pilota Giuseppe Cavalletti, sergente motorista Angelo d’Avino, 2° capo marconista Giorgio Ballati, aviere scelto marconista Giuseppe Miata, aviere scelto marconista Giovanni Casnighi, aviere marconista Giuseppe Baroli. Personale dei vari reparti d’impiego: capitano pilota Bruno Tixi, tenente pilota Alberto Leonardi, tenente pilota Bruno Chiossi, tenente pilota Paolo Lombardi, tenente pilota Franco Edison, tenente pilota Vezio Terzi, tenente pilota Giuseppe Bosi, tenente pilota Salvatore Annona, sottotenente pilota Alberto Veronese, sottotenente pilota Osvaldo Bartolozzi, sottotenente pilota Valentino Nizzero, maresciallo motorista Virgffio Cugini, maresciallo marconista Antonino Ella, sergente maggiore marconista Aldo Spalla, sergente maggiore montatore Saverio Garritano, sergente maggiore motorista Giuseppe lesce, sergente motorista Ernesto Innocenti, sergente motori- sta Quirino Archetti, sergente montature Raimondo Labina, primo aviere marconista Pietro Giacomelli, primo aviere marconista Augusto Parenzo, primo aviere marconista Francesco Canessa.
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"Sucoshi Ni"
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"SnuggleBunny"
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In effetti su vari siti specializzati è reputato uno dei colori più attendibili !!!!
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"Interdizione a bassissima quota" :drool: P.S. Infatti anche il dogfight con una ragazza può costarti la vita!!! :asd:
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Prova Quì!!! Lockheed F117-A Nighthawk :drool:
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"Deal me in" "Miss Megook"
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ERNESTO TREVISI "Un'Altro Figlio" Nel 1940 Ernesto Trevisi era un sottotenentino di vent’anni che, appena uscito dall’Accademia Aeronautica, aveva ottenuto di essere destinato a un reparto da caccia. Lo aveva comunicato a casa con una lettera così entusiasta da apparire crudele: «Tu non pensi, mammina, che cosa vuoi dire? Uscire subito, sottotenente, andare in squadriglia... A vent’anni poter realizzare un sogno che facevo fin da quando ero bambino? Pericolo? Ogni momento, ogni attimo della vita è un continuo passo verso quello che può essere l’ultimo...». Evidentemente il ragazzo si era lasciato prendere la mano dall’entusiasmo e non aveva capito che frasi di quel genere non si scrivono a nessuno e tanto meno alla mamma. Il padre, maggiore di fanteria Nicola Trevisi, glielo fece forse rilevare, ma c’è da scommettere che, sotto sotto, quella frase gli piaceva. Non era stato facile per lui, costretto alla vita un po’ nomade dei militari di carriera, metter su famiglia e allevare i figli, educarli e farli studiare perché potessero a loro volta entrare in Accademia e farsi la loro strada. C’erano voluti dei sacrifici e si erano dovuti anche superare momenti difficili, perché le entrate erano quelle che erano e il grado imponeva dignità e decoro. Ma ora il primo era già a posto, già sottotenente pilota alla 363ma squadriglia del 53° stormo caccia, già pronto per la guerra, anzi già in guerra. Tino in guerra! Sembrava quasi incredibile. Eppure la lettera al fratello Luciano, che era entrato a sua volta in Accademia, non lasciava dubbi: «Da una settimana sono giunto al campo. Pensa che appena arrivato la nostra squadriglia ha fatto una scorta agli S.79 a Salonicco: lì ha trovato i PZL con cui ha impegnato combattimento e ne ha abbattuti quattro, più uno probabile. Qui ogni tanto vengono a trovarci i loro bombardieri, tirano abbastanza bene, ma non riescono a farci nulla». La lettera, datata da Koritza, teneva già conto delle raccomandazioni paterne: riferimento alle azioni del reparto, ma niente che riguardasse lui. E sì che Tino in quei giorni aveva lavorato sodo. Tre crociere di vigilanza nella zona di Presba, due sull’alto bacino della Vistrizza, una nella zona di Bilistri conclusa con un mitragliamento di truppe, tutto tra il 2 e il 12 novembre. Il 13 ottiene la prima vittoria: parte su allarme con altri due apparecchi per attaccare una pattuglietta di Potez che ha bombardato il campo, riesce a raggiungere uno degli avversari, gli si mette in coda e spara fino a quando l’altro non cade. Non sono ancora trascorse ventiquattr’ore che l’occasione gli si ripresenta ancora più allettante della prima: hanno segnalato che sei PZL si stanno avvicinando alle nostre linee. I piloti greci sono in condizioni di netta inferiorità, ma si battono con coraggio con le loro vecchie macchine e occorre intercettarli prima che effettuino l’attacco. In campo sono disponibili soltanto tre CR.42 che vengono subito messi in moto, ma uno non ce la fa a decollare e con Trevisi parte soltanto il sergente Pirchio: anche con macchine superiori, in due contro sei si giostra male; comunque bisogna raggiungere i greci prima che attacchino. Eccoli! Una virata per tagliar loro la strada e il combattimento già divampa. Non c’è quota sufficiente per lunghe affondate e inoltre gli altri virano stretto: bisogna guardare in ogni direzione e tenere a bada tre apparecchi per ciascuno. Maledizione! Hanno preso in mezzo Pirchio! Le traccianti convergono sull’apparecchio del gregario, questi manovra, riesce a svincolarsi, ma è stato ferito ed è costretto a rientrare prima che l’emorragia lo esaurisca. Tino Trevisi rimane solo a lottare contro sei avversari; per un po’ dalle nostre linee riescono a seguirlo, vedono che abbatte uno degli avversari, resiste all’assalto degli altri cinque, ne colpisce ripetutamente un secondo, poi il combattimento si sposta oltre le linee greche e non c’è più modo di vedere e di sapere nulla perché Trevisi non rientra. Al padre, allora in servizio a Torino col 91° reggimento fanteria, giunge prima la notizia che risulta disperso: è una formula che lascia aperto l’animo ad ogni speranza, ma che determina un’ansia incontenibile. Troppe famiglie hanno ricevuto comunicazioni del genere e troppe hanno conosciuto quest’ansia perché la vicenda possa apparire diversa dalle altre. Ma i suoi aspetti eccezionali si delineano a poco a poco, testimonianza per testimonianza, colpo per colpo. Appena ricevuta la prima comunicazione, il padre scrive a tutti i colleghi che ha in Albania, ai superiori, al ministero, alla Croce Rossa, ai comandi aeronautici, chiede di partire per il fronte e cerca in ogni modo di avere notizie. E queste a poco a poco arrivano, ma sono frammentarie, confuse e in qualche caso contraddittorie: scrivono i generali Ranza e Urbani, scrive il colonnello Graziani che ha visto parte del combattimento, scrivono il capitano Mariotti che comandava la 36V e il sottotenente Francinetti che era compagno di corso di Tino. Ognuno dà qualche particolare, ma nessuno è in grado di essere preciso sull’esito finale e lo stesso generale Pascolini non può concludere la sua lettera che così: «Non è stato più visto, non è rientrato. Ecco perché ti è stato segnalato come disperso. Avrà fatto uso del paracadute? Lo avranno costretto ad atterrare? Nessuno può dirlo. E l’angoscia dovrà torturarti ancora per un po’ e cioè fino a quando non si potrà accertare se risulta tra i prigionieri». Purtroppo tra i prigionieri Tino Trevisi non doveva risultare. A fine dicembre una comunicazione della Croce Rossa internazionale informava invece che il giovane aviatore era stato abbattuto oltre le linee greche e che la sua salma era stata ricuperata e sepolta in località Krustova accanto ai resti dell’apparecchio. Non accade spesso che, durante la guerra, sia consentito ai familiari di un caduto di raggiungere il settore del fronte dove egli si è sacrificato e cercare di indagare, di interrogare chi lo ha visto cadere, allo scopo di ritrovarne la salma. Ma il padre di Trevisi riuscì a farlo: aveva giurato a se stesso e alla signora Mariuccia di ritrovarlo quando gli era arrivata la no- tizia che suo figlio era stato proposto per la medaglia d’oro al valor militare con una motivazione bellissima, della quale lui si sentiva ad un tempo partecipe e responsabile. Era infatti stato lui a educare Tino alla scuola del coraggio e dell’onore, lui che gli aveva parlato della Prima guerra mondiale e delle gesta che i soldati avevano compiuto, lui che gli aveva citato le motivazioni delle loro medaglie. E ora quelle parole, che sembravano così lontane e solenni, erano dolorosamente vicine, erano entrate anche nella sua casa, erano in parte sue. Ma aveva bisogno di sapere di più, di convincersi che non vi fosse più nulla da fare o da sperare. Aveva bisogno di ritrovare suo figlio. Alla fine di marzo del 1941 ottenne di partire per l’Albania; raccolse a Tirana tutti i dati possibili e raggiunse il fronte; con l’avanzata dell’aprile poté portarsi sulle posizioni che i nostri occupavano il 14 novembre 1940 e di lì sulle linee greche. Ma i dati che aveva erano insufficienti: individuò il punto di caduta di altri aeroplani, trovò altre salme, ma non quella del figlio. Allora, dato che le ostilità erano cessate, raggiunse Atene, ottenne il permesso di consultare la documentazione ufficiale greca, ebbe i nomi degli ufficiali avversari che avevano assistito al combattimento del figlio e ne rintracciò due: sia il maggiore Chatse sia il capitano Sorotoy ricordavano con esattezza l’episodio e lo descrissero esprimendo la loro cavalleresca ammirazione per i nostri piloti: questi avevano iniziato in due contro sei, poi uno si era allontanato colpito e l’altro era rimasto solo a lottare. Combatté per circa mezz’ora riuscendo ad abbattere due greci, poi fu sopraffatto. Le loro dichiarazioni furono verbalizzate, ma pur- troppo nessuno dei due era in grado di precisare il punto esatto in cui era caduto il CR.42; fu però accertato che un altro ufficiale, il capitano Mallicourtis, per alcuni mesi aveva avuto un comando in quel- la zona e sapeva dove erano i resti dell’aeroplano e dove era stato sepolto il pilota. Mallicourtis fu a sua volta rintracciato e si offerse di accompagnare il maggiore Trevisi sul posto chiedendo per sé soltanto l’autorizzazione a indossare l’uniforme, il che fu concesso. Il viaggio da Atene al confine albanese fu complicato, le ricerche nella zona impervia e priva di strade furono difficili, ma la sera del 23 maggio 1941 il maggiore Trevisi poteva chinarsi sulla tomba di suo figlio. La salma fu ricuperata il giorno dopo, portata a spalla dai nostri soldati fino alla strada più vicina e quindi a Koritza, sullo stesso campo dal quale Tino era partito sei mesi prima per il suo ultimo volo. Dopo le solenni onoranze funebri svoltesi a Tirana, il maggiore Trevisi rientrò in Italia e ripartì subito in volo per l’Albania, accompagnato questa volta dalla moglie e dal figlio Luciano che condusse nei luoghi dove Tino aveva combattuto e dove ora riposava. Un pellegrinaggio triste e doloroso che però consentì a tutti di essere uniti per l’ultima volta. Poi gli anni trascorsero lenti e tragici e la famiglia Trevisi ebbe anche l’amarezza di apprendere che la proposta per la concessione della medaglia d’oro a Tino non era stata accettata e che alla sua memoria era stata concessa una medaglia d’argento «sul campo». Nel 1959, in seguito a nuove testimonianze sull’eroico comportamento del sottotenente Ernesto Trevisi, alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro. Ma questo era nulla in confronto al disorientamento morale che seguì l’armistizio e la guerra civile: sembrava quasi che chi aveva perduto un congiunto prima dell’8 settembre dovesse vergognarsene. Assurdo rivolgersi a qualcuno per sapere qualcosa delle salme, assurdo chiedere che qualcuno se ne interessasse: tutto quanto riguardava i Caduti dava fastidio e le famiglie dovevano chiudersi nel loro dolore e ricordare nell’ambito familiare i loro morti. Ma anche nell’abbandono generale non si deve mai disperare perché la forza dell’eroismo è tale da sopravvivere a tutto e da manifestarsi a volte nei modi più impensati. In casa Trevisi si manifestò all’improvviso nell’aprile del 1953 attraverso una lettera arrivata dalla Grecia. Chi poteva scrivere da laggiù? Come poteva qualcuno avere l’indirizzo esatto? Che cosa significavano quei caratteri difficili da interpretare ma che contenevano nella grafia il nome di Tino? Significavano tante cose, ma prima di ogni altra significavano che esistono ancora sentimenti nobili, senso cavalleresco e bontà. La lettera era stata scritta da Achille Cristacos, un ufficiale greco che tredici anni prima aveva assistito alla fase finale del combattimento di Trevisi e che, dopo l’abbattimento, ne aveva ricuperata la salma e l’aveva sepolta con gli onori militari accanto ai resti dell’apparecchio. Di tutto quanto aveva rinvenuto sul corpo del Caduto aveva conservato un tesserino dove era segnato un indirizzo: lo aveva fatto perché, a guerra finita, voleva scrivere alla famiglia dell’aviatore italiano che aveva visto battersi e cadere da prode. Poi aveva smarrito il documento e soltanto dopo molti anni lo aveva ritrovato per caso tra le pagine di un libro. Allora aveva scritto all’indirizzo segnato sulla tessera e la lettera era pervenuta alla famiglia Trevisi. Dopo aver ricevuto una prima, commossa risposta, aveva scritto ancora, fornendo tutti i particolari della fase finale del combattimento, quando Tino era rimasto ormai solo a lottare contro l’apparecchio greco che lo abbatté. La delicatezza e il calore umano delle lettere dell’ufficiale greco portarono i familiari di Trevisi a chiedergli di venire in Italia, dove essi sarebbero stati lieti di accoglierlo e di manifestargli tutta la loro gratitudine. E il tenente Cristacos, ormai smobiitato da tredici anni e divenuto nel frattempo funzionario di una banca di Atene, accettò l’invito, venne in Italia e si incontrò a Torino con il padre, la madre e il fratello di Tino Trevisi, l’aviatore nemico che aveva destato la sua ammirazione e che egli aveva visto morire. «Vi prego di considerarmi come un altro figlio», aveva scritto in una delle prime lettere al maggiore Trevisi. E aveva diritto ad essere considerato così perché, nel lontano novembre del 1940, mentre infuriava la lotta, egli aveva raccolto il corpo di Tino e lo aveva composto nella tomba amorevolmente, come se fosse stato un suo fratello. (Tratto da Aviatori Italiani)
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Colori acrilici, a smalto, Primer, trasparenti
Blue Sky ha risposto a thunderjet nella discussione Modellismo
:asd: Ma tu con la benedizione di noi utenti e in particolare di S.Legolas hai un lasciapassare per la "Volta Celeste" !!! -
Purtroppo no Iscandar! (Appena trovo qualcosa in merito ti faccio sapere) Ma citandomi quelli che hai, so solo (Se non erro) che appartengono a due raccolte diverse, infatti una appartiene al mondo degli elicotteri ed un'altra a quello degli aerei! Ne ho parecchi anche io tra l'altro molti non li ho montati per mancanza di spazio! P.S. Insieme al ME 262 trovai anche il Gloster Meteor!