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Rick86

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  1. Riguardo al tuo secondo link, la proposta è stata ritirata
  2. Di vero c'è solo che quelli della Loockhed hanno acquistato i progetti del motore a decollo verticale del Freestyle negli anni '90 e, probabilmente, si saranno ispirati a qualche soluzione dello Yak. FINE, tutto qui, al massimo qualche ispirazione dal vecchio progetto russo, ma non di certo un lavoro fianco a fianco con i progettisti della Yakovlev.
  3. Tento una traduzione, l'articolo in effetti è interessante. Il problema riscontrato sulla CdG sono forti vibrazioni nel compartimento di propulsione (immagino si intenda sala macchine). Ci vorranno dai 4 ai 6 mesi per riparare il danno. Poi l'articolo inizia a spiegare le differenze tra un apparato di propulsione civile ed uno militare, che deve rispondere a precisi requisiti il principale dei quali è essere quanto più silenzioso possibile a livello acustico. Si tratta in particolare di mettere l'apparato propulsivo su delle sospensioni che assorbano le vibrazioni, in particolare quelle a bassa frequenza che viaggiano molto lontano in acqua. Un problema sulle sospensioni potrebbe influenzare tutto il complesso meccanico. Un altro esempio è che sono necessarie ruote dentate speciali per diminuire il rumore; inoltre sono necessari speciali requisti di robustezza alle esplosioni, e va anche considerata la compatibilità elettromagnetica: gli apparati di una nave militare sono cosa completamente diversa da quelli di una nave civile ed è necessario che i motori non influenzino il loro comportamento. Va anche considerato il fatto che una nave militare non tiene un'andatura regolare, come una petroliera: accelera, rallenta ecc.. a seconda della necessità. Infine l'apparato propulsivo deve essere quanto di più compatto possibile, poichè lo spazio su una nave da guerra è merce molto preziosa. Il risultato è che certi punti sono difficilmente accessibili. Un sistema propulsivo è composto da un insieme di sistemi complessi, che trasmettono l'energia dalla fonte all'elica. Tutte le navi da guerra, tranne i sottomarini, sono bimotori cioè hanno due linee d'alberi e quindi due eliche (non è esatto, p.e. la Cavour di eliche ne ha 4 mentre la CdG 2 ma lasciamo stare...) . L'equazione è semplice: una turbina a gas gira a 3/5000 rpm, un diesel a 1500 rpm, ma un'elica va a 0/200 rpm. Per passare da una velocità di rotazione elevata ad una bassa è necessario un riduttore: trattasi di un pezzo meccanico molto complesso, sopratutto su una nave militare che usa generalmente due tipi di motori con rotazioni diverse (uno tra vapore, cioè nucleare e turbina a gas associato al diesel), e poi ci sono anche i motori elettrici, quindi ci vogliono tutta una serie di riduttori interconnessi. Il riduttore si inserisce sull'albero motore, che è un lungo tubo di acciaio forgiato (dozzine di metri): è lui che fa girare l'elica. E' necessario che sia perfettamente allineato. Picpus, traduci questa frase per favore che non l'ho capita: Elle est portée par des "bagues" en bronze, des "paliers" et des "chaises". Arriviamo infine all'elica, che deve essere anche lei perfettamente allineata: quelle della CdG pesano 20t ciascuna (made by UK). Infine tutto questo sistema deve essere allineato ai pezzi d'accoppiamento. Conclusioni: 1) La meccanica di una nave da guerra obbedisce a principi costrittivi molto particolari 2) L'apparato propulsivo è molto complesso e ciascuna parte interferisce con le altre. Trovare la causa del guasto non è cosa facile, sopratutto in un modello unico come quello di una PA, da qui la lunghezza dei lavori.
  4. Rick86

    N.M.S. MARIA GORETTI

    Intruder, su una cosa puoi essere certo: quel libro è tutto tranne che clericale. Ci sono pesanti ironie sulle missioni """di pace""" e l'ingerenza del vaticano nella società italiana che, anche se riferite al 2196, stanno benone anche per oggi. Poi fai te...
  5. Ora lo metteranno in croce quel ragazzo (il morto è una ragazzina di 13 anni) ma con un'auto lanciata contro la tua colonna a tutta velocità, e sapendo che il tuo avversario fa ampio uso di autobombe kamikaze (tra l'altro di quel particolare modello), voi che avreste fatto?
  6. E' una buona notizia in ogni caso. A parte le ovvie conseguenze di competitività del sistema Italia, anche la sicurezza del posto di lavoro ci guadagnerà. Perchè? Perchè se la FIAT resta in mani italiane (è quindi necessario raggiungere quei 5,5 milioni di macchine all'anno profetizzate da Marchionne se si vuole sopravvivere) il governo italiano, nel caso ci sia da ridurre il personale, dovrà trattare con industriali italiani (e avrà a disposizione strumenti di pressione e di aiuto notevoli) senza dover andare a parlare con un signor nessuno venuto dal Giappone, dalla Cina ecc... che ovviamente preferisce tagliare posti di lavoro in Italia che nel suo paese. Guardate il caso Volvo. Il governo svedese è veramente inguaiato perchè GM vuole (deve) ridurre il personale ed ovviamente, prima ancora che in America, ha cercato di farlo in Svezia. Il governo svedese, che non ha il minimo strumento di pressione su un gruppo americano, non potrà che fare due cose, entrambe molto pesanti. O nazionalizza Volvo, riacquistandola da GM (per fare cosa poi, venderla a qualcun altro e siamo daccapo? Da sola non soppravvive), o si adegua.
  7. Lasciamo perdere quella della menapace. Aveva seriamente proposto, in commissione difesa, di abolire le frecce tricolori perchè inquinano, spaventano i bambini e non si capisce perchè un paese deve essere orgoglioso di loro. Che muoia EDIT: ops, non avevo letto l'ultimo post di Maverick13
  8. Rick86

    N.M.S. MARIA GORETTI

    Volevo fare i miei complimenti all'autore, ho letto il libro ed è bello e ben scritto secondo me. Consiglio a tutti di leggerlo
  9. La resistenza della corazzatura fu sperimentata nel maggio 1935 al balipedio Cottrau di La Spezia. Essa si dimostrò capace di resistere all'impatto di proietti perforanti da 406 mm sparati da una distanza di m 24.000 e a quello di bombe d'aereo da kg 1.280, di non eccessiva capacità perforante ma di grande potenza esplosiva, nonché capace di resistere a bombe perforanti da 835 kg, ambedue i tipi di bomba con una velocità d'urto di 250 m/sec, cioè la massima velocità naturale di caduta (non esistevano, allora, bombe con propellente a razzo). Dalle informazioni che ho io infatti esisteva un motore a razzo che non aveva funzione di accelerarle la bomba dallo sgancio all'impatto (troppo il carburante necessario e quindi lo spazio rubato all'esplosivo). La bomba accellerava fino a che le alette posteriori non avevano abbastanza portanza per poter guidare la bomba e solo allora cadeva a caduta libera. Il risultato fu una velocità di caduta di 100 m/s superiore a quella naturale, unita al fatto che la bomba era perforante. Era oggettivamente impossibile prevedere nel 1935 una bomba radioguidata di grandi dimensioni e che per di più impattava ad una velocità superiore a quella naturale. In questa foto si vede benissimo la scia del motore a razzo negli istanti immediatamente successivi allo sgancio: Mente questo è lo schema tecnico dell'arma EDIT: mi sono fatto un giretto in rete. Wikipedia conferma quello che ho scritto, altri siti no. In ogni caso tutte le fonti che ho avuto modo di vedere parlano di una velocità terminale dell'ordigno di circa 350 m/s, che non sarebbe quella di una normale bomba a caduta libera. EDIT 2: se si parla di Regia Marina, segnalo quest'eccellente sito: http://www.regiamarina.net/index_it.htm Il sito della corazzata Roma: http://www.regianaveroma.org/ e infine questo sito da cui potete scaricare numerosi documenti interessanti: http://www.saturatore.it/StoriaNAV.htm
  10. Non ho dubbi su questo..... Rispondevo solo a F/A Fede
  11. Beh insomma il requisito per un aereo MPA/ASW non è di 6 - 8 macchine ma di 12 - 16, ed è un numero di esemplari che mi pare giustifichino i costi necessari per integrare la suite di missione. CAEW e SIGINT, indipendentemente dai costi, sono già pronti
  12. LA GRANDE TRAGEDIA DELLA CORAZZATA ROMA Abbandonai di corsa la poppa per raggiungere il mio "posto di combattimento". La corazzata Roma, in quel momento ancora in coda alle altre due corazzate, il Vittorio Veneto e l'Italia, stava ultimando la sua accostata verso nord. Non erano ancora suonate le quattro del pomeriggio di quel 9 settembre 1943, quell’ora in cui avrei dovuto sostituire un collega nel servizio di guardia di navigazione nel grande torrione corazzato di prora. Controllai l'ora del mio cronometro che segnava, lo ricordo benissimo, 11 minuti alle 16.00. Decisi di recarmi al mio "posto di combattimento" anziché in plancia per montare di guardia. Il mio "posto di combattimento" era alla "direzione del tiro autonomo" della torre trinata di medio calibro da 152 mm: la n.4, che si trovava a sinistra e a poppavia della nave. Furono poi proprio quegli unici 11 minuti a salvarmi la vita. Entrato che fui nella torre n. 4, mi sistemai sul seggiolino del direttore del tiro, dopo aver accuratamente chiuso tutti i portelli corazzai i laterali, ch'erano rimasti inconsuetamente aperti. Lasciai aperto solo quello davanti a me, pur sempre rimanendo protetto dal suo vetro di grosso spessore. Brandeggiai subito la torretta della direzione del tiro verso il mare. Vedevo la corazzata Italia troppo ravvicinata a noi, ma in rotta di allontanamento. I suoi due fumaioli eruttavano dense fumate nerastre che creavano un forte contrasto con la prora, che aprendo un profondo solco nel mare sollevava due grandi bianchissime e spumeggianti onde. In quel momento uno strano brivido mi corse lungo tutta la schiena. Mormoravo tra me: "Credo che ci siamo!". Avevo ragione perché la corazzata Italia era stata ad un pelo dall'essere colpita in pieno da una bomba tedesca. Per fortuna il tutto si era risolto con un'esplosione in mare a poppavia della nave, con il conseguente momentaneo bloccaggio dei timoni, che avevano causato quell'irragionevole dirottamento verso di noi. Ero conscio di non aver nulla da temere racchiuso, come stavo, nella mia piccola torre protetta da una corazza dello spessore di 150 mm d'acciaio. Questa era una mia, in quel momento, quanto mai ottimistica conclusione. Chiesi, attraverso il microfono che mi stava di fronte, al mio sottufficiale capo impianto, maresciallo Macchia, se il nostro personale fosse tutto presente ai propri posti di combattimento. "Mancano tutti i marinai artificieri del deposito munizioni!", fu la sua laconica e preoccupata risposta. Capo Macchia aveva pienamente ragione d'essere allarmato, perché in questa situazione non eravamo certo in grado di aprire il fuoco contro il nemico. I proiettili erano rimasti bloccati sulle norie ed i cannoni erano scarichi. Chissà mai dove si erano andati a rifugiare i miei artificieri del deposito munizioni n.4! Certo l'annunzio dell'armistizio doveva aver già profondamente devastato ogni concetto di responsabilità e di disciplina a bordo per arrivare a tal punto da rendere inutilizzabile l'intero mio impianto trinato! Non so quanti minuti fossero passati prima che un aereo isolato ci sorvolasse venendo nuovamente da poppa. L'aereo, lento nel suo volo, mi lasciò tutto il tempo per inquadrarlo con il mio binocolo e seguire la sua manovra. Ecco nuovamente un puntino rosso che si accendeva: pareva immobile nello spazio; poi la stessa scia di fumo che avevo visto prima, lunga e sottile, che screziava di bianco l'azzurro del cielo. Gridai a diverse riprese nel microfono, che mi univa alla "centrale di tiro", d'aver sulla testa un aereo che aveva sganciato una bomba. Nessuno mi rispose! Ero pienamente cosciente che in quel momento i tedeschi stavano attaccando proprio dal nostro zenit, e che, in questo particolare caso, i miei cannoni da 152 mm non servivano a niente. Il mio impianto di tre cannoni, con un alzo di massima elevazione fino a 45°, non potevano intervenire contro dei bersagli che prevedevano un alzo compreso tra gli 80° ed i 90°. Questo compito era riservato invece ai nostri impianti antiaerei da 90 mm. Comunque la mia torre non poteva e non doveva aprire il fuoco, a meno che non si fosse verificato il caso di un contemporaneo attacco a pelo d'acqua di aerosiluranti. In realtà in quel momento ero tormentato solo da un altro pensiero: erano i tedeschi ad attaccarci, i camerati che per tre lunghi anni avevano combattuto al nostro fianco contro gli inglesi! Vidi solo il guidone di accostata che salì fino a riva sul pennone di sinistra dell'albero di maestra, ma la nave proseguì nella sua rotta. Eterno mi sembrò il tempo che la bomba impiegò nella caduta. Speravo di schivarla. A un tratto la scorsi nel campo millimetrato del mio binocolo; mi sembrò lunghissima. Scomparve alla mia visuale a dritta, dietro gli impianti antiaerei da 90 mm, quelli verso prora. Improvvisamente una violentissima scossa fece sobbalzare tutta la nave, fino a scaraventarmi già dal mio sgabello, sbattendomi più volte contro le pareti d'acciaio della mia torretta. "Maledetti!", esclamai, mentre mi tastavo con le mani le costole. Trascorsero altri secondi; un forte vociare, ovattato dal vetro della mia torretta, mi giunse alle orecchie confondendosi con le voci che uscivano dall'altoparlante collegato con la "centrale di tiro". Passò ancora del tempo, poi sentii cadere dall'alto un qualche cosa che precipitò in coperta con un suono secco: mi sembrò che fosse l'intero gabbione dell'impianto del "Gufo", ch'era stato sistemato in testa al torrione un mese prima a Genova. Uno sconosciuto dall'altoparlante mi informava frettolosamente che le frigorifere 5 e 6 erano in fiamme. Lo sconosciuto chiuse prima che gli potessi chiedere maggiori delucidazioni: non capii perché tale comunicazione fosse stata fatta proprio a me, anziché agli organi competenti. Molta era la confusione che faceva crescere l'agitazione in quella fila di marinai che si andava sempre più sconclusionatamente accalcando davanti allo stretto ingresso della porta corazzata del torrione. La nave aveva iniziato a sbandare sul lato dritto. In un primo momento ritenni che l'inclinazione che aveva assunto lo scafo fosse dovuto all'accostata, ma poi mi resi conto che la nave proseguiva la sua rotta diminuendo rapidamente di velocità. Certamente avevamo ricevuto un colpo a bordo. Il nostro fuoco antiaereo era già cessato. Le altre navi invece continuavano a sparare, i batuffoli neri degli scoppi costellavano il cielo. Si stava combattendo contro i nostri alleati tedeschi, non contro gli angloamericani. Com'eravamo potuti precipitare fino a questo punto? Eppure dovevamo comunque difenderci! Erano questi i pensieri che in quei minuti mi stavano tormentando. Poi rimisi nuovamente la bocca sul megafono per chiedere: "Capo Macchia, tutto bene?". "Bene", mi rispose vivacemente, ma con voce ancora tranquilla, il mio capo-impianto. Girai lo sguardo verso il mare e vidi unicamente nave Italia che ad alta velocità si stava allontanando sempre più da noi. Brandeggiai allora la mia torretta della "direzione del tiro" verso prora per rendermi conto di dove la bomba ci avesse colpiti. Riuscii solo a vedere che i sei cannoni antiaerei di sinistra tacevano. A poppa, in coperta regnava il panico, con marinai impauriti che correvano disordinatamente e precipitosamente per cercare rifugio sotto lo scudo protettivo del grande impianto trinato di grosso calibro di poppa. Tra questi riconobbi, pallidissimo, mentre si stringeva al petto il rosso salvagente, il guardiamarina di complemento De Crescenzio. In alto, verso le ali della plancia comando, dal torrione un "pennoncino" s'era spezzato in due e pendeva oscillando tristemente nel vuoto. Non vedendo neanche un filo di fumo non riuscivo a capire dove fosse andata a scoppiare la bomba tedesca. La bomba in realtà aveva colpito la nave in un punto abbastanza lontano dalla mia posizione, precisamente oltre la metà della nave, sul lato dritto, infilandosi a poco più di un metro dalla murata di dritta della nave, all'altezza dei pezzi antiaerei da 90 mm n.9 e n. 11. Il contraccolpo dello schianto sullo scafo aveva abbattuto il gabbione del radiotelemetro ed il telemetro della "centrale del tiro" contraereo. In pratica la bomba era passata da una parte all'altra dello scafo, per esplodere infine sotto la carena sfondandola ed allagando di conseguenza le quattro caldaie poppiere e le stesse macchine di poppa. L'esplosione sotto lo scafo aveva anche bloccato due delle quattro eliche sistemate a poppa. Si era verificata un'immediata caduta di velocità della nave sotto i 16 nodi. Contemporaneamente c'era stata anche una caduta di tensione elettrica per tutto il settore poppiero. Senza sufficiente corrente i timoni non rispondevano più regolarmente ai comandi del timoniere. L'allagamento delle caldaie e delle macchine di poppa aveva provocato il progressivo e rapido sbandamento della nave sul lato di dritta. Indubbiamente le vie d'acqua erano state favorite da una portelleria stagna non regolarmente chiusa. Per controbilanciare lo sbandamento della nave si tentò di allagare, o forse accadde automaticamente, alcune celle di compensazione sul lato sinistro dello scafo. Il risultato fu positivo perché l'inclinazione parve quasi fermarsi. Ero tornato a scrutare il cielo in alto con il binocolo alla ricerca delle sagome degli aerei tedeschi. Non vedevo nulla, il cielo sembrava sgombro, forse l'attacco tedesco era finito. Nave Roma aveva incassato per la quinta volta una bomba senza esser colpita a morte. Sentivo ugualmente dentro di me quel senso di pericolo, fattosi ancor più assillante ed incombente di prima. Questo genere di sensazione trovava forse la sua ragione d'essere nel constatare un boato che si andava progressivamente espandendo dal centro nave. Ora d'improvviso nuove dense nubi bianche avevano iniziato ad uscire dal fumaiolo di poppa, come generate da un'immensa perdita di vapore dalle caldaie. Mi sembrò quindi palese che la nave fosse stata colpita piuttosto seriamente e la grande quantità d'acqua imbarcata stava mettendo in crisi il normale assetto di tutta l'unità. Il guidone d'accostata era rimasto inerte in alto sul pennone di sinistra, l'unico ancora sano. Intanto nave Roma, sempre inclinata su di un lato, quello di destra, aveva preso ad accostare lentamente anche verso dritta. Mi preoccupavo per la velocità sempre più ridotta. D'improvviso, ad interrompere le mie affrettate osservazioni sulla situazione della mia nave furono i sei pezzi antiaerei da 90 mm di dritta. I cannoni antiaerei avevano aperto all'unisono un fuoco infernale, accompagnati dal crepitio delle grosse mitragliere sistemate sulla torre di grosso calibro n. 3 di poppa. Tutti intorno a me sparavano all'impazzata mentre andavo cercando affannosamente con il mio binocolo, in alto nel cielo, i bersagli di tanto accanimento della nostra artiglieria. Dentro di me si stava intanto ingigantendo la netta e violenta sensazione di pericolo, di un pericolo sempre più imminente. Inconsciamente mi raccomandai a Dio, perché mi sembrava di avere la morte alle spalle. Era una sensazione assai strana, quasi palpabile. D'un tratto, come per incanto, inquadrai finalmente nella retina graduata del mio binocolo un aereo bombardiere tedesco ed ancora una volta quel puntino rosso e quella lunga striscia nebulosa. Seguendo con il mio binocolo la striscia di fumo mi accorsi che sul davanti c'era un lungo cuneo metallico, di colore grigio scuro, adornato lateralmente da due alette. L'ordigno stava scendendo giù dal cielo verso di me! Era una cosa velocissima, preceduta questa volta da un sibilo ancor più lacerante che si impadroniva dei miei timpani. Tutto continuava inesorabilmente a venire contro di me. La pelle mi si accapponò lungo tutta la schiena mentre seguivo la traiettoria della bomba con il fiato sospeso e con il cuore che batteva sempre più veloce, sempre più veloce. Ormai era vicinissima, ma la sua traiettoria sembrava ora meno diretta su di me. Sembrava destinata ad infilarsi più avanti, esattamente tra il torrione corazzato, vicinissimo al fumaiolo di prora, poco a ridosso dell'impianto gemello al mio, quello della torre n. 2 di medio calibro. L'ordigno arrivò finalmente alla sua meta con un tonfo leggero, quasi impercettibile. Passò un'eternità o forse una manciata di secondi, avevo già perso ogni nozione del tempo: ci fu una violenta folata di aria bollente, non esplosione. Da essa nacque improvvisa, altissima e larghissima una fiammata gialla, poi quasi violacea, che s'involò verso il cielo, avvolgendo come in una gigantesca morsa il torrione ed il fumaiolo di prora. In quello stesso istante provai un dolore acuto ai timpani ed una sensazione di caldo torrido. L’aria sapeva di zolfo ardente ed entrandomi nei polmoni mi bruciava il respiro costringendomi a tossire nervosamente. Tra il violento bagliore delle esplosioni vedevo il torrione corazzato che si accartocciava su se stesso. Il fumaiolo di prora andava scomparendo nel nulla tra un denso fumo ora bianco, ora nero, ora grigio, che sembrava uscisse ululando dalle viscere della nave. Una gigantesca ondata di vapore spingeva verso l'alto un’infinità di frammenti di ferro, di pezzi della nave, di pezzi di ogni cosa. Poi una seconda ondata di calore violentissimo mi raggiunse e mi avvolse all'improvviso mentre con gli occhi sbarrati continuavo a seguire quell'apocalittico inferno di fuoco e di vapore. Ora quell'inferno andava avanzando verso di me. "Incendio! Incendio!", si udiva confusamente gridare: la luce si spense. La sensazione di essere incolume mi diede una gioia spontanea, istintiva. La seconda bomba aveva perforato la coperta dello scafo, come la prima, ma questa volta era esplosa nel deposito munizioni della torre n.2 di medio calibro di prora. L'esplosione aveva sfondato le attigue caldaie generando una gigantesca ondata di vapore che aveva facilmente innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della torre n. 2 di grosso calibro. La violenza della deflagrazione era stata così forte da proiettare di colpo a mare tutto l'intero complesso trinato n. 2 da 381 mm. Altre esplosioni erano seguite per i depositi munizioni della torre n. 2 di medio calibro sul lato sinistro della nave. Le conseguenze erano state gravissime perché in pochi istanti si erano allagate tutte le rimanenti macchine di prora. Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione ed il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave aveva ripreso in modo tanto rapido che ormai mi era difficile il mantenermi in equilibrio sul mio sgabello. Non riuscivo ancora a staccare gli occhi da quello spettacolo della grande torre corazzata diventata una immane torcia di fuoco, che mano a mano eruttava pezzi di lamiere tra nubi sempre più nere. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all'altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove, con le vesti in preda alle fiamme agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta. Su tutto sovrastava un rombo sordo ed assillante, che riusciva quasi a fracassarti i timpani. Una miriade di piccole esplosioni si univa al sibilare degli spezzoni di lamiere, che volavano per ogni dove. Sciami di proiettili di mitragliere, provenienti dalle riservette degli impianti di prora raggiunti dall'onda di fuoco, vagavano in coperta con improvvisate traiettorie. Tutto questo andava falciando ed uccidendo impietosamente gli uomini che cercando un rifugio attraversavano la loro strada. Ebbi allora la prima netta sensazione che il Roma stesse morendo e che per i miei marinai e per me si stesse preparando solo una morte da topi, racchiusi com'eravamo nella torre d'acciaio dei nostri cannoni. Presi immediatamente la mia decisione afferrando con le due mani un megafono. Con voce alta e ferma dissi: "Tutto il personale della torre esca, ripeto esca e si metta in salvo, ripeto tutti devono uscire e mettersi in salvo!". Poi lentamente, come per dar tempo a tutti i miei marinai di uscire dal grande portellone della torre prima di me, mi feci strada anch'io verso l'aria aperta. Fui costretto ad affrontare delle vere acrobazie per mantenermi in equilibrio tra gli sgabelli e le varie attrezzature arrovesciate ed accatastate lungo il mio tragitto. Fortunatamente riuscii finalmente a guadagnare l'uscita e mi ritrovai in coperta a poppa. La mia torre, la n.4, era vuota, tutti i miei sedici marinai erano fuori e stavano indossando il salvagente. Lo spettacolo che mi si presentò davanti mi lasciò come impietrito. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l'alto come un fungo immane gravitante su tutti noi, quasi fosse una nube di tempesta, tanto da oscurare completamente il nostro cielo. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivoli di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta. Altri, feriti e bruciati, stentavano a mantenersi in posizione eretta perché il piano di coperta sotto di loro si andava inclinando sempre di più. In ogni dove vedevo esseri umani urlanti, bruciati ed insanguinati, che vagavano disperatamente verso l'estrema poppa in cerca di scampo dall'onda di fuoco e di fumo che avanzava implacabile dietro le loro spalle. Molti tentavano di rifugiarsi sotto la catapulta dell'aereo a poppa estrema. L'inclinazione che aveva assunto la catapulta poteva, da un momento all'altro, scaricare sul piano di coperta l'idrovolante di dotazione alla nave, che vi troneggiava sopra. Sull'impianto n. 3 di grosso calibro, quello di poppa, il sottotenente di vascello Franco Mattoli cercava, con l'aiuto di alcuni volenterosi, di gettare in mare i grossi zatteroni sistemati sulla torre. L'impresa non riusciva perché le grandi zattere di salvataggio erano saldamente ed imprevedibilmente legate e rizzate. Né Mattoli né alcuno dei suoi marinai possedeva un coltello per tagliare le funi, bisognava slegarle. Il primo zatterone venne finalmente sganciato e nella sua caduta finì di sfasciarsi sette metri più sotto in coperta tra le grida di un marinaio rimasto impigliato tra le rizze. Il secondo raggiunse la superficie del mare. Una turba di naufraghi terrorizzati prese d'assalto lo zatterone. Il grosso galleggiante si allontanò lentamente dalla nave verso poppa, reso quasi invisibile sotto il cumulo di corpi che lo gremiva. "Devo saltare in mare! Devo buttarmi!". Questo era il mio pensiero dominante. Che altro potevo fare? Ero privo del mio salvagente, l'avevo lasciato nel locale del corpo di guardia di poppa. Ebbi l'immediato impulso di andarlo a ricuperare, nonostante lamiere e proiettili continuassero pericolosamente a vagare nell'aria intorno a me. Si trattava di fare una corsa, che richiedeva al massimo una trentina di secondi. Dovevo farcela, perché un salvagente mi era indispensabile se finivo a mare. Vi riuscii ed illeso tornai in coperta con indosso il salvagente. Una vera fiumana di marinai continuava ad ammassarsi a poppa, l'unica zona della nave non ancora invasa dalle fiamme e dal fumo. I marinai continuavano tutti a gesticolare e ad urlare in preda ad un panico indescrivibile. Uno di essi venne verso di me, aveva il volto straziato dal fuoco e gli occhi immersi in uno strato di sangue. Chiedeva aiuto con una voce vagamente familiare. Lo riconobbi: era il guardiamarina Meneghini. Una scheggia di ferro l'aveva quasi scotennato. Vidi la nuca in parte privata della cute, che gli pendeva appesa ad una sottile striscia di pelle, ed una parte della scatola cranica messa a nudo, sporca di rosso coagulo. Provai a detergergli con il mio fazzoletto il sangue che gli copriva gli occhi, rincuorandolo e ripetendogli: "Buttati! Buttati in mare!". Poi un altro ancora venne verso di me trascinandosi dietro un marinaio con un braccio quasi staccato dal corpo. Dal taglio della ferita usciva un fiotto di sangue così copioso da inondare di rosso la coperta sotto di lui. "Signore, signore vuole voi, vuole solo voi!", andava gridandomi l'accompagnatore. Lo riconobbi: era il furiere della mia segreteria, il marinaio Del Vecchio! Con il mio fazzoletto, ancora intriso del sangue di Meneghini, gli legai il braccio fracassato tentando alla meglio di impedire che il sangue continuasse a fuoriuscire. Con i residui pezzi della sua camicia cercai di coprire quelle carni straziate da cui s'intravedeva il biancore delle ossa. Il mio segretario, preso da un impulso di riconoscenza, tentò di abbracciarmi inondandomi di sangue. Per un istante mi parve di perdere il controllo dei nervi perché il suo liquido rosso mi era entrato dal colletto della camicia e mi scendeva caldo lungo il petto. Poi, lentamente, con fatica gli indossai il mio salvagente. "Non muoverti senza di me, tieniti attaccato a me, capito? Non mi mollare mai!". Fu questa l'unica raccomandazione che gli diedi. Tra tutta quella umanità impaurita che correva davanti a me cominciai ad individuare qualche volto noto. Riconobbi il tenente di vascello Megna, che mi stava passando vicino senza fermarsi e senza riconoscermi e che andava verso poppa proprio nel momento in cui l'idrovolante si andava schiantando in coperta per scivolare lentamente in mare. Il tenente di vascello Caputi era seduto immobile nei pressi della sua torre e scuoteva solo il capo come chi volesse riprendersi da uno stordimento: vidi solo il bianco dei suoi occhi che risaltavano nella fuliggine che gli copriva tutto il viso. Più lontano Franco Mattoli stava aiutando a scivolare a mare il sottotenente di vascello Vanni Vannicelli ed un guardiamarina dal volto straziato dal fuoco, forse Marcello Vacca Torelli, che mostravano le mani: povere mani con la pelle bruciata pendente a brandelli. La situazione stava decisamente precipitando. Il rimanere in equilibrio in coperta era ormai quasi impossibile. Un numero sempre più grande di feriti e di ustionati si raccoglieva a gruppi, raggomitolati disordinatamente sul legno sdrucciolevole della coperta in attesa di chissà quali aiuti e di chissà quali soccorsi! All'improvviso dalla cortina di fumo nero, che andava coprendo il tutto, apparve un nero fantasma. L'ombra nera aveva una divisa blu con tre galloni d'oro sulle maniche: era il tenente di vascello Agostino Incisa della Rocchetta. La pelle delle sue mani pendeva giù come se fossero lunghi guanti, il volto era tumefatto, i capelli, le ciglia, le orecchie, tutto era stato dilaniato dal calore dell'esplosione e dal vapore bollente. Incisa era però vivo e capace ugualmente di gridare: "Buttatevi a mare! Buttatevi a mare! La nave sta per capovolgersi, buttatevi!". Era un ordine, ma sembrava un rantolo. Incisa aveva ragione perché il trincarino a poppa sul lato dritto sciabordava già sotto l'acqua di mare. Strano, ma in quel momento mi venne in mente la frase che un giorno mi disse mio padre: "Quando il trincarino di una nave va sott'acqua la nave è spacciata!". Anch’io unii la mia voce a quella di Incisa e ripetei gridando più volte: "Buttatevi a mare!". Il maggiore medico D'Antonio, fermo sul trincarino di poppa con i piedi nell'acqua, sembrava del tutto incolume: con lo sguardo fisso nel vuoto, teneva stretto al petto il suo rosso salvagente come per tema che glielo strappassero via. Chiamai a raccolta intorno a me i marinai della mia torre ed ordinai loro: "Buttatevi a poppa estrema! Buttatevi a poppa estrema!". Sedici, tutti, mi seguirono ordinatamente lì mio furiere si era agguantato alla mia vita con l'unico braccio sano. Scivolai lentamente con lui in mare proprio all'estremità della poppa, che già si trovava a pelo d'acqua. Quanta gente in mare! Quanta gente senza salvagente! Quanta gente s'intravedeva nelle acque limpide, che andavano affondando nell'abisso blu racchiusi in quelle divise bianche da marinaio, che mano a mano diventavano solo puntini bianchi sempre più piccoli! Il mio segretario, tenuto a galla dal mio salvagente, si agguantava alla mia spalla, mentre nuotavo vigorosamente sul dorso per allontanarmi il più possibile dallo scafo della corazzata. L'acqua era tiepida ed il mare quasi calmo. Ero completamente vestito ed i miei abiti stavano impregnandosi d'acqua tanto da rendermi sempre più difficile il muovermi ed il mantenermi a galla. Mi fermai ed approfittando del precario sostegno del salvagente di Del Vecchio, mi tolsi prima le scarpe, poi i pantaloni, il maglione, la camicia ed i calzini. Rimasi in mutande, con la sola cintura alla vita che serviva a trattenere il portafoglio infilato dentro. Ripresi così a nuotare vigorosamente, mentre il mio segretario faceva del suo meglio per aiutarmi vogando con le sue grosse gambe. Eravamo riusciti a staccarci quasi un centinaio di metri dalla carcassa di nave Roma, anche grazie al suo abbrivo. Guardai il mio cronometro al polso sinistro: le lancette si erano fermate e segnavano le ore 16, 9 minuti e 22 secondi. Mi venne da pensare che, se prima avessi tralasciato quella manciata di minuti che mancavano alle ore 16, sarei stato di guardia in plancia: trovandomi nel torrione, a quell'ora avrei dovuto essere già morto, bruciato vivo. Intorno a me il mare era cosparso di superstiti che cercavano di galleggiare. Lontano vedevo delle zattere di salvataggio semiaffondate, gremite fino all'inverosimile di uomini vocianti e gesticolanti. Mi sembrò che degli uomini, per sopravvivere, lottassero tra di loro nel tentativo di trovare posto stille zattere. I sopravvenuti venivano allontanati dai primi arrivati che, per non affondare, li colpivano alla cieca con le pagaie sulle teste, sulle braccia e sulle mani. Intorno alle zattere di salvataggio molti corpi continuavano a scomparire sott'acqua. Più vicino c'era invece una branda chiusa ed ancora arrotolata che fungeva da salvagente a due vecchi tenenti, Orefice e Fidone. Alla mia destra, non molto lontano, nuotava lentamente il tenente di vascello Incisa della Rocchetta; nonostante fosse coperto di piaghe sul volto e con le mani arse dal fuoco e senza più la pelle, si destreggiava ancora bene nel mantenersi a galla senza salvagente. Fu in quell'istante che ebbi la visione chiara dello sfacelo ch'era sulla mia nave, il Roma. Il torrione, il corazzato torrione, era penosamente inclinato sulla dritta, ovunque un ammasso di rottami e ferraglie. Dai resti del fumaiolo prodiero, spezzato a metà, si elevava ancora un'oziosa voluta di fumo denso e nero. Sul castello di prora non c'era più nessuno. In coperta a poppa, invece, si scorgevano ancora macchie bianche o rosse muoversi o ristare: improvvisi piccoli ciuffi d'acqua sotto bordo indicavano che v'era ancora chi si tuffava dallo scafo in mare. Poi un'onda più alta delle altre mi occultò la visione della nave. Quando l'onda mi abbandonò vidi che si stava compiendo l'ultimo atto della tragedia di nave Roma. All'improvviso lo scafo ruotò completamente su se stesso, mentre un centinaio di esseri umani, cercando disperatamente di risalire sulla chiglia emersa dal mare, ricadevano all'indietro scivolando sott'acqua. Vidi, in tutta la sua lunghezza, la lignea coperta di poppa ormai sgombra di puntini bianchi e rossi. Poi, con un potente schiaffo sull'acqua, le eliche, quattro, immobili brillarono al sole pomeridiano. I timoni si profilarono neri tra le eliche contro il cielo. Una gigantesca spaccatura divise in quel momento la nave in due, come se fosse intervenuta una gigantesca scure a decapitarla proprio al centro. Passarono pochi attimi prima che la nave finisse per capovolgersi completamente spezzandosi definitivamente in due grandi tronconi. La poppa sprofondò lenta, scivolando avanti, con un gorgoglio sommesso. La prora invece si erse verso il cielo, quasi a sfidare ancora il nemico. Vidi la prora per qualche istante, immobile, tanto che ebbi modo di vederne distintamente il bulbo, il "clump". Poi verticalmente, come se fosse stata attratta da una forza titanica, la prora della nostra nave tentò di innalzarsi ancora più imponente verso il cielo. Cercava di darci così il suo estremo saluto prima di scomparire per sempre negli abissi del mare. La massa d'acciaio fu infine inghiottita dalle acque risucchiando negli abissi quel centinaio di uomini che ancora si dibattevano tra le eliche ed i timoni. Un grido mi uscì dal petto: "Viva il Roma! Viva il Roma!". Era un grande grido, che trovò nella voce di tanti altri superstiti come un'eco, che si andava ripetendo dieci, cento volte ancora. Dalla prora, che era scomparsa, nacque una grande ondata che ci venne incontro alta e spumeggiante, sommergendoci tutti al suo passaggio. Del Vecchio ed io finimmo per una decina di secondi sott'acqua, da cui a fatica riemergemmo poi tossendo. L'orizzonte era sgombro, il mare era tornato calmo. La regia corazzata Roma era scomparsa portando con sé nella sua tomba tanti e tanti dei nostri marinai!
  13. Rispondo con una domanda a Sangria, o a chi per lui se il comandante ha la qualifica di pubblico ufficiale i suoi poteri in mare non equivalgono a quelli di un comune cittadino ma a quelli di un pubblico ufficiale su terra
  14. Ehm... ci sta un piccolo dettaglio. Quell'esemplare non è in grado di fare una cosuccia semplice semplice... volare
  15. No guardate può essere che io stia prendendo una grossa cantonata ma l'IRIS-T dovrebbe essere guidabile dal caschetto esattamente come lo è l'AIM-9X. Gli EFA T-1 non erano (sono) in grado di sfruttare questa caratteristica, ma i T2 (alcuni esemplari già consegnati) si. Quindi a livello di capacità i due missili pari sono. Poi sull'agilità (cmq straordinaria nell'Iris-t) e sulle prestazioni del sensore IR non mi avventuro ma, per lo meno, direi che pari sono
  16. "L’ultima missione della Corazzata Roma" Di Agostino Incisa della Rocchetta La tragedia vista dall’autore E adesso vorrei raccontare come ho visto io le cose. Perché adesso, non prima e non dopo? Perché ho cercato di seguire un certo filo logico nella successione delle narrazioni: prima tutti quelli che erano addetti alle stazioni di direzione del tiro o alle armi; che erano allo scoperto, che hanno visto in faccia il nemico e fra questi mi ci sono messo anch'io, perché ero DT dei 90 di sinistra e anch'io ho visto chi ci colpiva. Mi sono messo penultimo, non ultimo, come forse la modestia avrebbe consigliato, perché desidero che l'ultimo racconto di coloro che erano allo scoperto sia quello di un marinaio che ha vissuto l'avventura più incredibile e straordinaria. Dopo farò seguire le narrazioni di coloro che erano addetti ai servizi di sicurezza, alle centrali elettriche, che erano a ridosso nella torre n. 3 g.c., perché non hanno visto ma solo sentito gli effetti delle bombe (non per questo hanno sofferto meno, intendiamoci). Ho fatto una sola eccezione: nel primo gruppo ho messo il marò Piccardo, perché egli era legato alle armi, nel senso che era rifornitore nel deposito munizioni da 90 mm, non solo, ma perché si è trovato proprio nel deposito dei complessi n. 9 e n. 11, attraverso il quale è passata la prima bomba e si è salvato per non so quale miracolo. Dalle 12 alle 16 io ero franco, cioè non ero di guardia: al mio posto nella torretta di direzione del tiro c.a. di sinistra c'era il T.V. Natale Contestabile. Io ero insieme al 1° DT, C.C. Luigi Giugni, nella "segreteria tecnica artiglieria", un locale semicircolare, addossato al torrione, subito sotto la plancia comando. Vi si conservavano tutti i disegni particolareggiati delle armi e serviva a coloro che avevano in cura l'efficienza dell'armamento della nave: in primo luogo gli ufficiali delle Armi Navali e poi i direttori del tiro. C'erano tavoli da disegno, sgabelli e sedie; si poteva riposare abbastanza bene, riparati dal sole, dalla pioggia e dal vento, ma si era anche vicinissimi al proprio posto di combattimento. Ad un tratto udii una voce: "Aereo a dritta!". Mi diressi immediatamente verso l'uscita del locale e vidi, su un sito di almeno 80°, un bimotore tedesco. Subito dopo dalla carlinga si staccò una luce rossa e la voce di prima gridò: "Ha fatto il segnale di riconoscimento". Apparentemente chi aveva detto ciò aveva ragione perché sembrava si trattasse proprio di uno di quei bengala che usavano gli aerei tedeschi per farsi riconoscere dalle navi: generalmente si dividevano in 3 o 4 stelle di diversi colori, secondo una sequenza concordata tra i comandi aerei tedeschi e i comandi navali italiani. Ma questa volta il bengala non si divise, venne giù dritto filato, lasciando una scia azzurrognola. Pochi istanti dopo vidi una colonna d'acqua a un centinaio di metri dalla Roma. Solo dopo una manifestazione di ostilità così palese da parte dei tedeschi, sulla Roma fu dato il segnale di "allarme aereo" e cosi Medanich, il DT dei 90 di dritta, poté aprire il fuoco contro il secondo aereo che si avvicinava (attaccavano uno per volta). Egli bolliva da un pezzo per l'impazienza, perché aveva gli aerei in punteria da molto tempo. Io, intanto, ero salito in plancia e, invece di passare dietro il torrione (la plancia circondava il torrione; nella parte posteriore era scoperta, nella parte anteriore era protetta da una serie di finestrini) passai dalla parte anteriore; probabilmente volevo vedere qualcuno del comando per avere qualche direttiva. Vidi nella plancia coperta il comandante Del Cima che scrutava il cielo col binocolo e notai che la porta corazzata anteriore del torrione era aperta. Egli non mi disse nulla ed io corsi alla mia torretta, da cui usci Contestabile ed io mi misi al suo posto. Fare ciò era agevole, perché il cielo della torretta era a livello del paragambe della plancia; bastava scavalcare questo e si era sulla torretta. Il posto del DT era, appunto, in una apertura del cielo di questa. Si sporgeva a mezzo busto dal piano superiore ma si aveva davanti una sorta di parabrezza con due finestre protette da cristalli; davanti al parabrezza, un mirino circolare con croce inserita, tipo mitragliera e, protetto dal parabrezza, un binocolo a forte ingrandimento. Questo si puntava in elevazione mediante una maniglia, mentre in brandeggio il DT doveva puntarlo comandando con una manopola il motore che brandeggiava tutta la torretta. In tal modo si portava in punteria l'A.P.G. ed il telemetro. Il posto di osservazione del DT si poteva chiudere, in caso di maltempo, con un piccolo mantice di tela. Nella torretta, c'erano 2 puntatori dell'A.P.G., un telemetrista, un addetto alla centralina che elaborava i dati, per trasformarli in "alzo" e "cursore" e graduazione per il tempo di scoppio della spoletta, un addetto a tre incarichi: alle correzioni ordinate dal DT per allungare od accorciare il tiro, al quadro dei lampadini che davano il "pronti" dei pezzi, nonché al pulsante che provocava il fuoco simultaneo dei 6 cannoni. Io con i miei pezzi di sinistra sparavo solo agli aerei in allontanamento; magra soddisfazione, perché era un tiro punitivo, non preventivo, che è quello essenziale per la sicurezza della nave. L'impatto della prima bomba non fu rilevato che scarsamente da me, perché non avvertii le oscillazioni della nave, preso come ero dal tiro dei miei cannoni. Però mancò la corrente per qualche istante e vidi con viva preoccupazione il gabbione del radiotelemetro che, staccatosi dal suo supporto in conseguenza della concussione della bomba, era andato ad infilarsi sulla canna del mio complesso n. 1, immobilizzandolo; mentre stavo per dare ordine all'armamento del complesso di uscire dalla torretta e gettare a mare il gabbione fui avvertito di un altro aereo che veniva da dritta. Lo scorsi esattamente allo zenit, sulle nostre teste. Brandeggiai la torretta ma non potei mettere l'aereo nel campo del binocolo solidale con essa, perché la sua massima elevazione non arrivava allo zenit. Perciò seguivo l'aereo col mio binocolo a mano: non veniva mai in campo del binocolo solidale alla torretta perché mentre volava da dritta a sinistra, la nave, che era sotto forte accostata a sinistra, aveva un moto di rotazione che rendeva pari a zero il moto relativo nave-aereo, cioè questo rimaneva sempre sulla nostra verticale e fuori campo dell'A.P.G. e dei cannoni. Era un incubo, come in certi sogni in cui qualcuno ci assale per ucciderci e noi ci sentiamo come paralizzati, incapaci a muoverci. Passò qualche secondo; non so se vidi il fuoco rosso staccarsi dall'aereo, ma ricordo, come fosse ora, un enorme barile nero che piombò giù passando a non più di un metro dalla torretta. Si udì un tonfo sordo e la corrente in torretta andò via. Io diedi ordine di passare nella SDT di poppa, cioè quella notturna che si trovava subito a poppavia della torretta, ma un po' più in basso e saltai dalla torretta sul piano della plancia. Qui trovai Contestabile che mi chiese: "Che sta succedendo?", risposi: "È semplice, è caduta una bomba e adesso da qua sotto sta uscendo vapore e fumo nero". Una densa nuvola di vapore misto a fumo usciva da un punto situato tra il torrione e la torre di prora a sinistra da 152. Avevo appena finito di parlare, quando dalle viscere della nave si sprigionò un soffio di potenza spaventosa, l'atmosfera divenne tutta di un giallo intenso e una vampa di irresistibile calore mi avvolse. Penso che la nave si sia sollevata improvvisamente e poi sia ricaduta di schianto, perché mi trovai disteso sul piano della plancia, con le braccia protese in avanti. Vedevo la pelle delle mani contrarsi, aggricciare e prendere quel colore bruno della carne arrostita; sentivo tutta la pelle della faccia contrarsi dagli zigomi, dalla fronte, dalle guance, dal mento, come se una grande mano di fuoco la volesse raccogliere nel pugno, in corrispondenza della bocca. Esiste a Roma un museo etnologico, il museo Pigorini, derivato dal museo kircheriano, fondato dal padre gesuita Kircher, nel quale sono conservati degli strani trofei degli indios Mundrukos (Brasile), Jivaros e Ochuali (Ecuador). Sono teste di nemici di queste tribù, disossate e ridotte alla grandezza di un pugno; hanno la bocca cucita con una lunga frangia di fili colorati, perché non possano profferire maledizioni all'indirizzo di chi le ha ridotte in tal modo. Mi sembrava che la mia testa fosse diventata come quelle del museo: una sensazione terribile. Bisogna notare che non sono stato investito direttamente dalle fiamme ma cotto dal riverbero: ero a 3 o 4 metri dalla vampa. Fu questione di 4 o 5 secondi ma mi ha procurato un'impressione così profonda che non si è più cancellata dalla mia memoria. Sono passati più di trent'anni da quella vampata, ho lasciato la Marina, la vita civile con le sue esigenze mi ha assorbito completamente ed io ho gettato dietro le spalle il passato, mi sono interessato del presente e, soprattutto dell'avvenire. Raramente mi veniva di tornare col pensiero alla tragedia della Roma; per anni ci siamo rivisti, rincontrati con Megna, Scotto, Vannicelli Casoni, Vacca Torelli e altri amici che avevano vissuto le stesse vicissitudini, ma mai abbiamo commentato insieme quei tragici momenti: era acqua passata, volevamo guardare avanti a noi non alle nostre spalle. Eppure mi capitò di rivivere come in sogno il terribile rogo. Fu al cinema: davano un film nel complesso abbastanza irritante e sciocco chiamato La scala al paradiso. Si vedevano nell'immensa cavea di un fantastico teatro greco (il paradiso) arrivare continuamente uomini e donne in divisa, che andavano ordinatamente ad occupare il posto loro assegnato. Era un paradiso esclusivista perché vi erano ammessi solo inglesi e americani (o forse c'erano anche i russi? Non ricordo). Italiani, tedeschi o giapponesi non se ne vedevano, forse erano tutti all'inferno... Ma oltre a questa rappresentazione piuttosto oleografica del paradiso, c'era la visione di un bombardiere britannico in fiamme e questa era una scena di un verismo cosi profondo, con gli uomini che si contorcevano nella carlinga, divenuta un forno ardente, che mi è sembrato di rivivere in pieno quel lontano 9 settembre del 1943. Proprio di riviverlo io di persona: qualcosa di sconvolgente. Non ho mai più provato nulla di simile e solo ora, consultando i documenti sulla tragedia della Roma, sono riandato con la mente a mille particolari dimenticati. La vampata durò pochi secondi e in quel brevissimo tempo condannò a morte la nostra più moderna nave da battaglia, ma nel dramma vi fu una fortuna: si trattò di una deflagrazione e non di una esplosione e questo fu dovuto ad una qualità del nostro munizionamento "di lancio": la progressività. Si chiamano cariche di lancio quelle munizioni che si introducono nel cannone per lanciare fuori il proietto. Esse debbono avere una combustione piuttosto lenta e graduale. L'esplosivo usato era la cordite, un derivato della nitroglicerina, confezionato in bacchette cave simili a maccheroni di colore bruno. All'aria aperta bruciavano poco più rapidamente di un bastone di ceralacca. Una volta ne vidi bruciare un certo quantitativo in un prato a Buffoluto, presso Taranto, ove erano sistemate le polveriere della Marina. La cordite è stabile e sicura per un certo numero di anni, dopo diventa instabile e pericolosa. Per questo, periodicamente, il munizionamento di bordo andava rinnovato e quello sbarcato veniva distrutto col fuoco. Ricordo che in quel prato avevano fatto una lunga striscia di bacchette di cordite, alta all'incirca un palmo e poi avevano dato fuoco ad una estremità della striscia: la cordite bruciò con una fiamma intensamente gialla ma per distruggere tutta la striscia, lunga una quindicina di metri, ci vollero un paio di minuti. Dunque il nostro munizionamento di lancio era stabile, contrariamente a quello britannico. Le cariche di lancio di 2 torri da 152 e di 1, forse 2 torri da 381, presero fuoco tutte insieme; diverse tonnellate di cordite, si badi, che produssero un soffio potentissimo, un'immensa fiammata, però non detonarono. L'esplosivo contenuto nei proietti non fu coinvolto, perché allora la nave sarebbe stata polverizzata. Nei proietti si usava il tritolo (trinitrotoluene: toluolo, idrocarburo aromatico al quale vengono sostituiti 3 atomi di idrogeno con gruppi nitrici), che può essere fuso e quando si solidifica può essere impunemente preso a martellate, segato, fresato, maltrattato in tutti i modi. Ma se nella sua massa si introduce un cilindretto di tritolo compresso e questo lo si innesca, poniamo, con una pastiglia di tetrazoturo d'argento che, colpita da un qualsiasi percussore a spillo, prende subito fuoco, il cilindretto di tritolo detona e fa detonare tutta la massa di tritolo fuso: si ha, cioè, una combustione istantanea con enorme aumento di volume e sviluppo di calore. Insomma il tritolo detona, la cordite deflagra, almeno quella nostra. Per quella britannica era un altro affare e non da ieri. Già alla battaglia dello Jutland nella Prima guerra mondiale, 2 incrociatori da battaglia britannici furono letteralmente polverizzati dalle salve nemiche; uno di essi sparì tanto rapidamente, che quello che lo seguiva in formazione passò nelle sue acque senza urtare relitti e di tutto l'equipaggio si salvò solo un guardiamarina. Nella Seconda guerra mondiale, l'incrociatore da battaglia britannico Hood si disintegrò alla terza salva della corazzata tedesca Bismarck, mentre nel Mediterraneo la corazzata britannica Barham esplose per una coppiola di siluri di un sommergibile tedesco e sparì in una grande nuvola nera. I depositi della Roma dunque deflagrarono e permisero che 1/3 dell'equipaggio si salvasse. Però il trauma, per me, era stato cosi forte ed ero cosi certo che le ustioni contratte non permettessero in alcun modo la mia sopravvivenza (ero, in altre parole, cosi sicuro di dover morire) che, essendo allora come adesso cattolico convinto, feci un'ottima preparazione alla morte e mi misi ad aspettare con calma e con straordinaria serenità il momento del trapasso. Anzi ero molto curioso di vedere cosa c'era al di là, ma senza timore, con fiducia. Da allora ho sempre rimpianto quella ottima preparazione alla morte, nel timore che essa possa non ripetersi, che io non ne abbia il tempo o la disposizione spirituale. Sinceramente la considero un 'occasione d'oro perduta. I minuti passavano e non succedeva niente. Allora mi guardai intorno: non c'era anima viva. Contestabile era sparito, dal torrione non usciva nessuno. La porta corazzata era chiusa con un motorino elettrico. C'era, è vero, la possibilità della apertura a mano con una leva a cricco ma io non avevo certo la forza di manovrarla e poi credo che si trovasse solo all'interno del torrione. Mi alzai in piedi e mi venne la curiosità di affacciarmi sulla sinistra, dove era caduta la bomba e appoggiai le mani al paragambe: era rovente; la vernice delle sovrastrutture si sollevava in bolle e bruciava crepitando con un fumo acre. Cosi mi ustionai le mani anche di sotto e la pelle si staccò dalle palme e rimase pendente come un paio di guanti (analogamente accadde a Vacca Torelli). Il gran fumo mi impedì di vedere alcunché e non mi accorsi che la parte girevole della torre n. 2 g.c. non c'era più. Pensando ancora di dover morire, procurai di cercare un posto dove morire respirando meglio e salii la scaletta posteriore al torrione fino alla plancia ammiraglio; istruito dalla bruciatura delle palme contro il paragambe, mi sostenevo ai passamano della scaletta con le braccia flesse, cosi che i passamano scorressero a contatto dell'interno delle braccia, protette dalle maniche della giacca di panno. In plancia ammiraglio l'atmosfera era respirabile, ma i minuti passavano ed io non morivo: dovetti ammettere che il trapasso era rimandato ad un'altra volta. Non vidi nessuno neppure li; il torrione era chiuso e c'era un gran silenzio. Sapevo che oltre a diversi ufficiali che stimavo e conoscevo bene, doveva trovarsi all'interno l'ammiraglio Bergamini, uomo carico di umanità e amato da tutti, e con lui il contrammiraglio Stanislao Caraciotti, figura morale che non trovava riscontro, amico da molti anni della mia famiglia. Purtroppo mi mancavano le forze per tentare qualcosa per soccorrerli. Ridiscesi tutte le scalette e sotto la stazione segnali vidi, impigliato nei gradini, a testa in giù, il corpo carbonizzato di un segnalatore. Arrivato sul castello a dritta, un gruppo di persone, che mi sembra fossero un sottufficiale e 2 graduati, mi indicarono il foro della prima bomba; proseguii verso poppa, passando carponi sotto il motoscafo che era caduto di traverso sul castello, sbalzato dalle sue selle sistemate sulla tuga; scesi le scale che davano accesso alla poppa e mi trovai in mezzo ad un gruppo di persone, tutte munite di salvagenti e indenni, che vagavano senza una meta precisa. Dissi a chi mi poteva sentire e in particolare agli ufficiali, di non gettarsi a mare, di attendere perché la nave, sebbene fortemente sbandata, sembrava ancora capace di galleggiare. Poi risalii la scala di sinistra che portava sul castello, cercando un salvagente. Alla porta posteriore della torre da 152 li vicino, si affacciò un marinaio e mi diede un salvagente. A Mahòn feci ricerche per sapere chi fosse stato, ma non riuscii ad appurare nulla. Io penso proprio che sia stato un angelo... lo penso veramente, perché senza quel salvagente non sarei stato in condizione di tenermi a galla. Forse è stato quell'unico componente della torre che non si è mai più ritrovato. Vidi il G.M. Scotto, privo di sensi, disteso a pochi metri dalla torre. Dissi al G.M. Meneghini, che passava di lì, di raccoglierlo e prenderne cura, cosa che egli fece. Ritornato a poppa, vidi che ormai la nave sbandava sempre più e che l'acqua lambiva il trincarino. Diedi l'ordine di abbandonare la nave essendomi reso conto che ero l'ufficiale di vascello più anziano rimasto in vita. Però molti non mi riconoscevano perché avevo la faccia nera e i baffi bruciati; mi riconobbe il Ten. del C.R.E.M. Negrozzi che mi legò il salvagente, dopo che io mi ero tolto la giacca, il binocolo e la pistola, avevo posato il tutto con cura su un fungo di ventilazione e avevo disposto le scarpe ben allineate alla base del fungo stesso. Casi analoghi di strana pignoleria in tragiche circostanze si trovano nel comportamento del S.T.V. Vannicelli Casoni e del Ten. G.N. Staccoli Castracane. Mi dispiaceva lasciare la pistola, perché non era d'ordinanza: era una Smith & Wesson a tamburo, cromata, che portavo in una fondina appesa alla spalla sinistra, sotto la giacca, all'altezza del gomito, come i gangsters e i poliziotti americani. Rimasi con indosso, oltre ai calzoni, il maglione dell'Accademia Navale, quello bleu con le ancore rosse incrociate, sormontate dalla corona reale, sul braccio sinistro. Intanto qualche ufficiale, diversi sottufficiali e marinai provvedevano a gettare in mare i salvagente Carley che stavano sul cielo delle torri di poppa; penso che quelli della torre n. 3 g.c. si danneggiarono perché furono gettati giù senza troppi riguardi e rimbalzarono in coperta. A questo punto scavalcai la battagliola e mi gettai a mare "a papera"; un tuffo di stile sarebbe stato inutile, anzi impossibile, dato che ci trovavamo già con i piedi a livello dell'acqua. Mi allontanai dalla nave nuotando come potevo e raggiunsi un gruppo di 3 persone aggrappate ad una branda. Erano i tenenti del C.R.E.M. Orefice e Fidone con un marinaio, che credo fosse il furiere Del Vecchio, che aveva la parte superiore del bicipite resecata. Gli ufficiali mi pregarono di non aggrapparmi anch'io alla branda, altrimenti saremmo andati tutti a fondo. Cosi mi tenni a qualche metro di distanza. Intanto la nave andava sbandando sempre più ed il personale che si trovava ancora a poppa, incerto se gettarsi a mare dalla dritta, temendo che la nave capovolgendosi lo sommergesse, o se gettarsi dalla sinistra dove sarebbe stato necessario un tuffo da notevole altezza, cominciò a rotolare giù dal ponte, ormai quasi verticale. Erano almeno una ventina di persone chiaramente visibili a causa del salvagente rosso che indossavano. Poi la nave si capovolse ed alcuni uomini riuscirono ad inerpicarsi sulla carena. Ma appena capovolta si spezzò in due: il troncone di poppa si immerse con un'inclinazione di 45° circa e un paio di uomini che sparivano sott'acqua aggrappati ad una delle grandi eliche di bronzo che brillavano al sole, fu l'ultima visione che ne ebbi. La parte di prua rimase più a lungo fuori dell'acqua in posizione verticale, tanto che da dove eravamo scorgemmo perfettamente lo stemma rosso e oro di Roma con la scritta +SPQR; poi verticalmente si immerse: gli ufficiali del C.R.E.M. gridarono "Viva il Re!" ed io con loro. Non mi abbandonai alla disperazione, non temetti neppure per un istante di non essere salvato, trovai naturale la vista della motobarca del Mitragliere che veniva nella mia direzione. Gli uomini della motobarca gridavano: "Prima i feriti!"; mostrai le mani e mi tirarono subito su. Evidentemente ogni mia azione da dopo la deflagrazione dei depositi era stata fatta come in trance, eppure avevo agito secondo logica, avevo preso delle iniziative e dato disposizioni razionali. In altre parole ero, io penso, come trasognato, eppure la mia mente era lucida. Appena a bordo del Mitragliere mi tagliarono il maglione per non dovermelo sfilare dalle mani bruciate e dalla testa. Qualcuno mi fece bere un liquore; l'infermiere di bordo mi spennellò le mani di tannino e mi mise qualche pomata in faccia e sulle gambe, anch'esse parzialmente ustionate. Il maglione, amorevolmente ricucito dalle donne di casa, devo averlo ancora in un baule... Il comandante Laj, Assistente di squadriglia, cioè collaboratore diretto del C.V. Marini, comandante la XII squadriglia, mi cedette il suo alloggio e mi fece distendere sulla sua cuccetta. Il S.T.V. Mattoli, incolume, ebbe la pazienza di passare tutta la notte con me. Fu una notte movimentata. Certo noi feriti non potevamo neppure sospettare le incertezze che tormentarono il comandante Marini per decidere quale porto fosse sufficientemente sicuro per accoglierci, per soccorrerci, non per prenderci a cannonate. Il suo tormento è magistralmente espresso nel rapporto che egli scrisse a Mahòn il 30 settembre 1943 e che è riportato integralmente in questo libro. Noi, però ci accorgemmo dell'agitazione che regnava a bordo: per tutta la notte fu un susseguirsi di colpi di clacson che davano l'allarme aereo, un risuonare di passi sulle lamiere del ponte; gente che correva al posto di combattimento. Nel tormento delle ustioni e nell'avvampare della febbre che si era impadronita del mio corpo, pensavo: una volta ce l'ho fatta a cavarmela, ma questa sarà la morte del topo, perché chi mi muove di qui? Seppi in seguito che quel tramestio dipendeva da un ricognitore britannico che ci segui tutta la notte, illuminandoci di tanto in tanto con bengala. Niente di più, ma dopo quello che avevamo passato, anche un semplice ricognitore bastava a farci saltare i nervi. Come Dio volle, all'alba ci trovammo davanti al porto di Mahòn e alle 8.30 ci sbarcarono dalle navi e ci avviarono all'ospedale militare. Dei primissimi giorni ricordo solo le medicazioni mattutine. Gli infermieri spagnoli mi avevano fasciato le mani e per togliermi le bende, nell'intento di farmi soffrire di meno, davano uno strappone per staccarle dalla carne viva. Dalla mia bocca uscivano parolacce che allora venivano considerate irripetibili, ma che adesso costituiscono l'intercalare che infiora i discorsi delle minorenni. L'infermeria era a piano terra e davanti alla finestra, aperta, passavano curiosando soldati spagnoli e i nostri feriti più leggeri: costituire per loro uno spettacolo mi imbestialiva. In seguito le mie condizioni peggiorarono, ebbi un principio di broncopolmonite traumatica e mi si disse, poi, che mi avevano anche preso le misure per la cassa da morto, invece guarii mediante un solo cataplasma appena tiepido. Poi, per nostra fortuna, il comandante Marini mandò come rinforzo all'ospedale l'aspirante medico Franco Sala. Era solo aspirante, non era ancora ufficiale, però era un medico capace ed efficiente e cosi simpatico che tutte le suore (Hijas de la Caridad della congregazione fondata dall'americana Seaton) lo adoravano. Curò tutti con amore ed abnegazione e a me salvò certo le mani che, altrimenti, sarebbero state amputate. Me le mise, libere da ogni bendaggio, in due bacinelle contenenti del "liquido di Dakin" (soluzione neutralizzata di ipoclorito, battericida). Avevo i tendini estensori delle dita allo scoperto ma l'infezione passò. Mi strappò le unghie sotto cui si annidava l'infezione e ne crebbero di nuove, non troppo belle, ma che più o meno fanno la loro funzione. Per evitare che la bruciatura degli estensori provocasse l'inconveniente delle mani ad artiglio (le dita rattrappite perché richiamate solo dai flessori che si trovano sotto le dita e nel palmo) mi applicò ai polsi degli archetti di fili di ferro ai quali attaccò degli elastici che tenevano in trazione le dita. Per far rimarginare più presto le cicatrici mi fece due trapianti di pelle, lavorando in équipe col nuovo direttore spagnolo dell'ospedale, anche lui, a dir il vero, efficiente e capace. Ho raccontato tutto questo per portare un esempio delle cure che dedicava ai feriti, non per parlare di me. Egli poneva lo stesso impegno nei riguardi di tutti e di ciascuno. E poi era allegro, scherzava, era amico di tutti... Mi portò a bordo del Fuciliere per Capodanno e la celebrazione fini in una sbronza generale, di cui ricordo, come ultimo episodio, un'arancia che ricevetti in piena faccia, dopo di che caddi in un sonno profondo. Ormai che stavo un po' meglio, mi rendevo conto dell'ambiente in cui mi trovavo. Dopo i primi giorni mi portarono in barella per i reparti per visitare gli altri feriti. Mi fecero fare una breve sosta presso il letto di Medanich, parlava a fatica; con voce strozzata mi chiese: "A te chi ti ha beccato?" gli risposi: "Lo stesso aereo che ha beccato te". Non lo rividi più, mori dopo pochi giorni. Finché ero immobilizzato a letto, vedevo dalla finestra un po' di cielo ed una scarpata erbosa e sentivo squillare nell'aria limpida di settembre i segnali di tromba di un reparto spagnolo che non sapevo dove fosse. Mi ero immaginato un mondo a modo mio. Poi cominciai ad uscire all'aperto con i miei mezzi, sempre accompagnato dall'inseparabile Giannoccaro. Cosi vidi che ci trovavamo su un'isoletta al centro della bella baia di Mahén. L'ospedale si componeva di 2 fabbricati distinti, uno dei quali era stato costruito alla fine del '700 dagli inglesi. Aveva una certa sua dignità architettonica: un corpo centrale con 2 avancorpi laterali, 2 piani, con un porticato in quello inferiore. Aveva delle corsie molto ampie, ma un po' fatiscenti e veniva usato solo parzialmente quando l'altro fabbricato non poteva accogliere più ricoverati. Questo secondo corpo di fabbrica, posto di fronte all'altro, un po' più in basso, era di costruzione recente, fatta dagli spagnoli. Si trattava di un agglomerato di baracche, senza alcuna pretesa architettonica e ad un solo piano. Il 29 gennaio 1944, dopo quasi 5 mesi di degenza, lasciai l'ospedale di Mahòn per essere sottoposto a operazioni di plastica a Madrid insieme ad altri 3 che avevano anche loro postumi di ustioni gravi e con Giannoccaro affetto da pleurite. Scotto, che aveva avuto le ustioni più gravi al volto, aveva dovuto subire a Mahòn l'asportazione di un occhio, ormai irrimediabilmente perso, per evitare danni irreparabili all'altro, anch'esso parzialmente leso. Egli rimase un certo tempo a Barcellona in cura da un medico di fama mondiale che gli salvò l'occhio. Ci raggiunse all'ospedale di Carabanchél Bajo a Madrid e per lunghi mesi divise la camera con me. Io venni dimesso dall'ospedale di Carabanchél il 23 dicembre 1944, dopo aver subito ben 9 operazioni di plastica. Adesso basta parlare di me: voglio aggiungere solo 2 cose ancora: una notizia che avevo tralasciato e una considerazione. La notizia è la seguente: nella tarda mattinata del 9 settembre 1943, mentre navigavamo diretti a La Maddalena, scese dalla plancia ammiraglio il T.V. Uncini, addetto al Comando FF.non.B. e fece un giro per informarsi se c'era qualcuno che conoscesse bene l'inglese. Questa inchiesta mi diede da pensare e la conclusione che ne trassi fu che l'ammiraglio prevedeva contatti verbali con i britannici a breve scadenza e ne provai un profondo malessere. La considerazione è la seguente: secondo i dati conclusivi dell'inchiesta, sono periti nel naufragio della Roma 1.227 persone e se ne sono salvate 622. Meritavano di morire i 1.227 e meritavano di vivere i 622? Non c'erano fra quelli morti, uomini di grande ascendente morale, di profonda cultura, di alta spiritualità, di indiscusso valore nel campo scientifico e tecnico? Non c'erano fra gli scampati uomini mediocri se non proprio delle nullità? Se la missione dell'uomo è di produrre qualcosa di spirituale o di materiale che sia a beneficio della società, perché e da chi è stata fatta questa incomprensibile discriminazione? Chi crede in Dio afferma che ogni evento dal più insignificante al più grande fa parte dell'imperscrutabile disegno divino e dato che Dio è infinitamente buono e infinitamente giusto, ogni Sua decisione risponde a fini di bontà e di giustizia. Chi è ateo afferma che ogni evento non provocato dall'uomo o da leggi naturali è dovuto al Caso. Tralasciamo le infinite tesi delle religioni non cristiane. Io confesso che mi chiedo continuamente: perché sono scampato alla catastrofe della Roma? In questi trent'anni e più che sono trascorsi dal 9 settembre del 1943, cosa ho fatto a beneficio della società? Non ho forse obbedito soltanto al mio gretto egoismo, non ho compiuto azioni a danno del prossimo? Si, ho lavorato con buona volontà, mi sono sposato e, mia moglie ed io, abbiamo cercato di educare i nostri due figli secondo principi che credevamo i migliori ed ora ognuno di loro sta conquistandosi l'indipendenza e creandosi una vita che risponde ai suoi principi e alle sue esigenze. Ma, ho fatto fruttare la moneta che mi era stata affidata dal mio Signore? (mi riferisco alla nota parabola del Vangelo). In che maniera e in che misura? Non so darmi una risposta e mi ci arrovello, ma forse pretendo di valutare cose più grandi di me.
  17. ALLELUIA QUALCUNO CHE E' D'ACCORDO CON ME Sposo in pieno quest'idea, se il P-8 è troppo costoso e se (su questo non ci piove) l'Atr-72 per limiti strutturali di macchina non è in grado di pare da MPA/ASW, allora quello che a noi serve è la soluzione intermedia. Montiamo la suite MPA/ASW sviluppata da Galileo (così l'industria nazionale è contenta) sul G550, e creiamo uno stormo interforze con G-550 SIGINT e CAEW
  18. Pap puoi dire quello che vuoi ma, se fossi pilota, non avrei dubbi sul seggiolino che sceglierei e a giudicare da come è andata tra gli F-15 (aereo ben più prestante di una qualsiasi versione di F-16) e i SU-30 indiani i miei dubbi sulle superiori capacità del Falcon rimangono. Sarà poi che io penso agilità, maneggevolezza e motore contino ancora molto nel combattimento aereo.... Sull'Iris-T posso sbagliarmi ma questa capacità: ce l'ha anche l'Iris-T, oltre ad una agilità che ha dello straordinario da quello che ho potuto leggere. Come minimo, in assenza di prove in combattimento, li definirei equivalenti, l'eccellenza americana ed europea nel campo dei missili IR
  19. Hai idea di quanti Mig-29, Flanker, Hind, Antonov ecc.. volano ancora oggi, sono ancora oggi prodotti e aggiornati??????
  20. Rick86

    Sukhoi 35 esplode

    Tra l'altro i motori sono nuovi, a spinta vettoriale e più potenti del modello base. Un incidente in un prototipo (uno poi, che gli altri due volavano, volano e voleranno) non è indice di un aereo inaffidabile e nato male.
  21. Rick86

    Influenza suina

    Vale lo stesso per il mantovano (Lender, lo conosci il salame mantovano, molto morbido e indietro di stagionatura?). Resto dell'idea: cerchiamo di evitare inutili allarmismi. Per com'è ora l'influenza, è mortale in zone dove ci sono scarse condizioni igieniche, povertà, ecc... In Occidente ha fatto la bellezza di un dicasi un morto, un bambino di 23 mesi tra l'altro.
  22. Rick86

    Breitling Emergency

    Io ho un Sector (molto bello secondo me, in metallo e con cronometro al decimo di secondo, funzione che uso spesso) che però, dopo due anni d'uso, mi ha dato un problema davvero curioso. In pratica dall'oggi al domani si è messo a perdere mediamente 5 minuti al mese che non sono ne troppi (meccanismo rotto) ne pochi (che puoi ignorare). Ovviamente non è la batteria (prima cosa che ho sostituito ma il problema è rimasto). Ora è dall'orologiaio da più di due settimane, vedremo come va a finire.
  23. Rick86

    Influenza suina

    Mah io sono tendenzialmente scettico su ogni allarme catastrofista lanciato dai mass media. Per esempio, quando si parlava di mucca pazza, in famiglia da me non abbiamo mai smesso di mangiare carne bovina, anzi ogni volta che qualche macellaio amico riusciva a procurarcela, ci facevamo anche delle gran belle fiorentine. Per ora l'influenza se ne sta ben al di la dell'Atlantico, tranne qualche sparuto caso in Europa, un po com'è stato per l'aviaria anni fa (morti, sopratutto nel sud est asiatico ce ne sono stati, ma nulla di serio qua da noi). Vedremo
  24. M dai Dominus è ovvio che De Magistris non ha commesso alcun reato.
  25. La differenza fondamentale tra l'ordinamento italiano e quello americano (per esempio) è che da noi la legittima difesa è consentita solo nel caso sia in pericolo la propria o l'altrui incolumità mentre negli USA è estesa anche al patrimonio (quindi io posso sparare ad un ladro per il semplice fatto che questo è entrato in casa mia mentre in Italia, col medesimo comportamento, sarei passabile di omicidio volontario. In mare quindi la differenza di comportamento tra una nave battente bandiera italiana e una battente bandiera americana è quando esse possono agire per legittima difesa con le armi di bordo (che, in riguardo alla legislazione americana, possono anche essere da guerra e a tiro automatico). La nave italiana dovrà aspettare di trovarsi sotto il fuoco dei pirati, la nave americana potrà sparare anche se questi costituiscono semplicemente una minaccia al patrimonio (quindi p.e. si avvicinano ad alta velocità e con intenti ostili alla nave americana anche senza sparare). Addirittura, per assurdo, se dei pirati abbordassero una nave senza far uso di armi da fuoco, il capitano americano potrebbe senza problemi dar ordine di aprire il fuoco, mentre quello italiano sarebbe obbligato a rispondere in maniera proporzionale alla minaccia (e quindi di fatto non può sparare)
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