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Questo manuale di volo descrive tutte le manovre richieste al candidato per l'ottenimento dei brevetti USA di pilota privato e pilota commerciale (opportuni richiami evidenziano le differenze con le esigenze italiane). E una guida di studio per la parte pratica dell'apprendimento del volo. Tutti i dati necessari, dall'ispezione pre-volo all sistemazione dell'aeroplano alla fine del volo, sono presentati da autori che conoscono in modo completo l'argomento. Questo libro è il prodotto della perizia e del lavoro di numerosi istruttori di volo, che hanno cumulativamente migliaia di ore di esperienza nel comunicare con successo agli allievi i concetti fondamentali dell'« imparare a volare ». Questo manuale porta l'allievo ad esaminare passo a passo ogni manovra, che è largamente spiegata con ampio supporto di illustrazioni. In più si sfatano le più comuni leggende, si discutono in dettaglio gli errori più frequenti, si indicano chiaramente i criteri di valutazione delle prestazioni accettabili. - assicura che allievo e istruttore siano sulla stessa «lunghezza d'onda» circa le tecniche e procedure esatte per ogni manovra. - assicura la comprensione accademica di ogni manovra prima che la si debba eseguire in volo. - serve da testo per il ripasso, nei momenti in cui fa più comodo, e cioè quando meglio si possono assimilare nuovi concetti e procedimenti. - rappresenta una fonte sempre disponibile di quelle illustrazioni che sono così necessarie per svolgere in modo efficace le discussioni pre-volo e post-volo.
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Il quindici maggio un acquazzone torrenziale ci obbligò a terra, ma il riposo fu di breve durata perchè all'indomani mattina prima dell'alba diversi B 25 si precipitarono sul campo a bassissima quota bombardando la pista e mitragliando la base. Anche quel giorno fummo obbligati a rimanere a terra, dato che occorrevano molte e molte ore per riempire le buche e spianare il campo. Eravamo seduti negli alloggi, mentre qualcuno dormiva, parlando del continuo succedersi degli attacchi nemici, quando un pilota del bombardamento venne a unirsi a noi. Aveva atterrato a Lae per rifornirsi di carburante ed era rimasto bloccato dall'attacco. Ascoltò con grande interesse le nostre descrizioni dei combattimenti con i bombardieri nemici, fissando intensamente gli Zero fermi oltre la pista. Ad un tratto disse: «Sapete, la mia più grande ambizione sarebbe quella di pilotare un caccia e non sempre questi barconi con i quali ci mandano in giro. Sarà stupido » aggiunse poi come parlando tra sè «ma siccome ogni volta che andiamo in volo molti di noi vengono abbattuti, quasi tutti riteniamo che non vedremo mai più la nostra patria; anch'io la penso così» «Tutto sommato », continuò « sarei soddisfatto se potessi fare una certa cosa ». Aspettammo in silenzio che continuasse. «Mi piacerebbe fare un looping con quel barcone sul quale volo. » Sorrise come per scusarsi, poi aggiunse: «Potete immaginarvi un affare simile che riesce a fare una gran volta completa? » Uno dei piloti della caccia gli disse lentamente: «Se fossi in te non ci proverei nemmeno; anche se ti riuscisse di farglielo fare, il velivolo si spaccherebbe nella fase di richiamata, all'uscita. e non potresti certo cavartela ». «Lo credo anch'io », rispose il pilota del bombardiere. Lo vedemmo poi traversare il campo e salire nell' abitacolo di un caccia, dove sedette per studiarne i comandi. In quel momento a nessuno di noi passò per la testa che il ricordo di lui sarebbe rimasto impresso nella nostra mente finchè fossimo stati vivi. Il giorno finì rapidamente e a sera Niscizawa, Ota e io andammo al centro radio per ascoltare le musiche trasmesse dalle stazioni australiane, oltre al nostro solito notiziario. Ad un tratto Niscizawa chiese: « Ascoltate questa musica, non è la Danza macabra, la danza della morte?» Annuimmo. Niscizawa era eccitato. «Mi suggerisce un'idea. Sapete che domattina dobbiamo attaccare Moresby. Perchè non vi facciamo sopra una 'Danza macabra' di nostra invenzione?» «Di che diavolo stai parlando?» chiese Ota «Mi sembri pazzo!» Niscizawa ribatte. «Tutt'altro! Voglio dire questa, dopo che avremo finito e ci saremo rimessi in rotta per rientrare, noi tre dovremmo tornare a Moresby per fare qualche looping esattamente sul campo nemico. Potremmo eseguirli addirittura a terra!» « Bisogna essere matti », disse Ota con cautela; «ma come ce la caviamo col comandante? Non ci lascerebbe mai fare una cosa simile. » «E con ciò?» fu la risposta. «Chi dice che debba essere messo al corrente », chiese Niscizawa ridendo allegramente. Uscimmo dagli alloggi e tutti e tre ci mettemmo a parlare sottovoce per organizzare il piano da eseguire all'indomani. Non avevamo alcun timore di presentarci su Moresby da soli perchè tra noi tre avevamo abbattuto un totale di sessantacinque apparecchi nemici; io ventisette, Niscizawa venti e Ota diciotto. Andammo su Moresby con tutta la nostra forza disponibile, che era di diciotto Zero, guidati personalmente dal comandante dello stormo, Tadasci Nakajima. Niscizawa e io eravamo suoi gregari. L'attacco fu un fallimento: tutti i bombardieri erano stati accuratamente mimetizzati e nascosti ai nostri sguardi, ma in aria le cose furono ben diverse. Tre formazioni nemiche ci piombarono addosso nel cielo del campo; virammo verso la prima e l'attaccammo di muso. Nel combattimento velocissimo che ne segui sei P 39 vennero abbattuti in fiamme, due dei quali per opera mia. Diversi Zero lasciarono la mischia per andare a mitragliare il campo, ma questa iniziativa si tradusse in una rovina per loro perchè due caccia, gravemente colpiti, non poterono rientrare a Lae e dovettero atterrare fuori campo, nelle gole degli Owen Stanley. Dopo il combattimento ci rimettemmo in formazione. Appena le pattuglie si furono ricostituite segnalai al comandante Nakajima che mi sarei abbassato per inseguire un velivolo nemico; ricevuta l'autorizzazione mi buttai giù con una larga virata in picchiata. Fui di ritorno su Moresby in pochi minuti, circuitando a tremilacinquecento metri; la contraerea non sparò e nessun velivolo apparve nel cielo. Vidi poi arrivare due Zero alla mia stessa quota e subito ci mettemmo in pattuglia; Niscizawa e Ota mi sorrisero e io ricambiai il saluto. Stringemmo la formazione fino a portarci con le ali a brevissima distanza le une dalle altre; aprii il tettuccio, tracciai un cerchio verticale, con un dito, sulla mia testa e alzai poi tre dita; ambedue i piloti risposero assentendo: avremmo fatto tre loopings di seguito, stretti insieme. Un ultimo sguardo in giro per vedere se ci fossero velivoli nemici: nessuno! Allora picchiai per prendere velocità, con Niscizawa e Ota stretti accanto. Tirai la leva e lo Zero rispose magnificamente, descrivendo una Curva perfetta e ricadendo poi all'indietro, mentre gli altri due mi seguivano esattamente Andammo su e giù altre due volte, picchiando e tirando poi il looping. Da terra non venne sparato nemmeno un colpo e il cielo rimaneva sempre sgombro di nemici. Quando ebbi finito le tre gran volte, Niscizawa ridendo felice mi fece segno di continuare ancora; mi voltai a sinistra e, visto che anche Ota rideva approvando col capo, non potei resistere alla tentazione. Picchiammo fino a meno di duemila metri sul campo nemico e ripetemmo i tre loopings in perfetta formazione. La contraerea anche questa volta non sparò. Avevamo quasi l'impressione di trovarci sul nostro stesso campo e forse destavamo ,a terra un grande interesse; pensai che molto probabilmente tutto il personale di Moresby si fosse messo a guardare e questo pensiero mi fece scoppiare in una grossa risata. Rientrammo a Lae venti minuti dopo che ghi altri erano già a terra e non raccontammo a nessuno quello che avevamo fatto. Appena però Potemmo riunirci, ci mettemmo a sfogare la nostra soddisfazione, tutti contenti, gridando e dandoci gran colpi nella schiena. Ma il nostro segreto non doveva rimanere tale per lungo tempo; quella sera stessa, subito dopo le nove, un piantone venne a cercarci negli alloggi, dicendoci che il capitano Sasai voleva vederci immediatamente. Ci guardammo l'un l'altro piuttosto preoccupati, perchè avremmo potuto ricevere una seria punizione per quel che avevamo fatto. Appena entrati nell'ufficio di Sasai, il capitano si alzò in piedi urlando: «Guardate qua, sciocchi bastardi che non siete altro! Guardate questo! » Aveva il viso rosso e riusciva a malapena a controllarsi mentre agitava davanti alle nostre facce una lettera scritta in inglese. «Sapete di dove mi arriva questa cosa? No? Ve lo dico io, stupidi che non siete altro; E’ stata lanciata pochi minuti fa sulla pista da un velivolo nemico!» La lettera diceva: "Al comandante di Lae: siamo rimasti molto impressionati dalla visita fattaci oggi da tre dei suoi piloti e ci sono molto piaciuti i loopings eseguiti sul nostro aeroporto. E’ stata un'ottima esibizione e saremmo molto grati ai tre piloti se volessero tornare ancora, portando ciascuno una sciarpa verde attorno al collo. Siamo dispiaciuti di non aver potuto dedicare loro soverchia attenzione, quest'oggi; ma cercheremo di preparare loro un'accoglienza migliore per la prossima volta ». Tutto quel che avevamo ottenuto era stato di farci prendere in giro; la lettera era firmata da un gruppo di piloti della caccia di Moresby. Il capitano ci tenne rigidamente sull'attenti e ci ammonì severamente per il nostro «comportamento idiota ». Ci ordinò poi di non fare mai più, nella maniera più assoluta, acrobazie sui campi nemici Tutto sommato, era stato però un bello scherzo e, ricordandolo, ci godevamo ogni minuto della nostra Danza macabra sulla base di Moresby. Non potevamo tuttavia ancora sapere che il giorno dopo, ci sarebbe stata una vera danza della morte eseguita senza scopi di esibizionismi aerei. Sette dei nostri Zero andarono a scortare otto bombardieri sulla base nemica; l'avevamo appena raggiunta che almeno diciotto caccia americani ci piovvero addosso da tutte le direzioni. Fu la prima battaglia difensiva in cui mi trovai, e lnoltre dovevamo anche difendere gli otto bombardieri dai velocissimi attacchi nemici. Ne allontanai diversi dalle loro spalle,ma non riuscii a farne cadere nemmeno uno; tre caccia alleati vennero però incendiati da altri piloti. I nostri bombardieri riuscirono a sganciare le loro bombe, anche se non troppo accuratamente, poi virarono alla meno peggio per tornare a casa. Vedemmo allora un P 39 picchiare a tutta velocità in mezzo alla loro formazione, senza che potessimo intervenire per stornare l'attacco: in un dato momento il cielo era libero e, un attimo dopo, l'Aircobra stava sputando fuoco da tutte le sue armi contro l'ultimo bombardiere della pattuglia, virando poi e picchiando per portarsi fuori tiro. Il velivolo colpito si era incendiato e, quando gli arrivai vicino, mi parve di riconoscerlo: era infatti quello stesso Mitsubisci che aveva atterrato a Lae , il suo pilota era quello col quale avevamo parlato nei nostri alloggi. Le fiamme aumentavano mentre il bombardiere picchiava e acquistava velocità: perdeva quota rapidamente e sembrava che precipitasse senza controllo; poco sotto i duemila metri le vampe lo avvolsero completamente. Di colpo, sempre ardendo terribilmente, il muso del velivolo si alzò per cominciare una cabrata; lo guardavo a bocca aperta e lo vidi tirare un looping, manovra quasi impossibile per un povero Betty. Il pilota, lo stesso che ci aveva detto che avrebbe voluto poter fare un looping con un caccia, lo stava facendo. Il bombardiere si rovesciò, rimase appeso a metà manovra, poi scomparve in una palla di fuoco che lo nascose completamente alla nostra vista. La massa incendiata cadde e, poco prima che toccasse terra, il cielo fu scosso dalla violenta esplosione dei serbatoi. Samurai Saburo Sakai
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Il terzo giorno di guerra dovrò ricordarlo sempre perchè fu proprio il dieci dicembre che abbattei il mio primo B 17; era anche la prima «Fortezza Volante» che gli americani perdevano in combattimento e, dopo la guerra, seppi che era pilotata dal capitano Colin P. Kelly, Junior, eroe dell'aeronautica statunitense. Partimmo da Tainan in ventisette e, sull'aeroporto di Clark, non trovammo alcun bersaglio; girammo per una mezz'ora nel cielo della base distrutta senza avvistare velivoli, ne in volo ne a terra. Il gruppo riprese la via del ritorno, puntando a nord, per coprire un convoglio giapponese che sbarcava truppe a Vigan. Un incrociatore leggero da quattromila tonnellate, del tipo Nagara e sei caccia scortavano i quattro trasporti. Un resoconto americano, basato su quanto riferito dai superstiti dell'equipaggio del capitano Kelly, esagerò enormemente il numero delle nostre navi in quanto parlava di una nave da battaglia, l'Haruna da ventinovemila tonnellate, sei incrociatori, dieci caccia e quindici o venti trasporti. Stavamo scortando il convoglio da venti o venticinque minuti, tenendoci a circa 5.500 metri di quota, quando vidi tre grandi anelli formarsi nell'acqua presso le navi; eravamo troppo alti per poter vedere le colonne d'acqua sollevate dalle bombe. Ma non c'era da sbagliare su quanto stava avvenendo. Nessun bersaglio venne colpito, benchè gli americani abbiano invece scritto che la nave da battaglia aveva ricevuto un colpo in pieno e due nelle vicinanze e che era stata lasciata avvolta nel fumo e con perdite di nafta. I miei compagni e io eravamo rimasti meravigliati dal fatto che nonostante la nostra scorta, il nemico avesse attaccato ugualmente il convoglio: non eravamo nemmeno riusciti a vedere il bombardiere! Pochi momenti dopo però, riuscii ad avvistare un solitario B 17, a circa duemila metri sotto di noi, diretto verso sud; Lo indicai agli altri e continuai a guardarmi in giro per vedere se ve ne fossero ancora: non avevamo mai sentito parlare di attacchi condotti da un solo bombardiere senza scorta, su zona difesa come lo era quella dove ci trovavamo. Incredibilmente vero però, il B 17 era solo e aveva bombardato proprio sotto i nostri, occhi: quel pilota aveva del fegato! Il nostro comandante ci ordinò con i segnali di andare ad attaccarlo e tutti, meno una pattuglia di tre che rimase dl scorta al convoglio, ci mettemmo a rincorrere il nemico. Il B 17 era veloce in modo sorprendente ,soltanto col motore in pieno ci fu possibile raggiungerlo, all’incirca a cento chilometri a nord della base di Clark. A un tratto però tre Zero fecero un'inaspettata comparsa e si lanciarono sulla « Fortezza Volante »: si trattava evidentemente di velivoli dello stormo di Kaohsiung, che proprio nelle prime ore delle stesso giorno avevano attaccato la base di Nichols. Noi non eravamo ancora arrivati a distanza di tiro quando i tre caccia di Kaohsiung,cominciarono a sparare, mentre il bombardiere continuava tranquillamente la sua strada come se gli Zero fossero stati innocue zanzare. Sette di noi riuscirono finalmente a raggiungere gli attaccanti e cominciarono a loro volta a sparare raffiche, con una serie di manovre che non era possibile coordinare e che si ridussero alla fine a una successione di puntate che ogni Zero dovette fare da solo seguito dagli altri, a distanze variabili. Questo fatto mi irritava perchè occorreva molto tempo prima di poter arrivare a sparare e, per di più, sembrava che il B-17 non avesse ricevuto nemmeno un colpo di tutti quelli che gli erano stati sparati. Questa era la nostra prima esperienza con il B 17; le cui dimensioni, molto fuori del normale, ci inducevano in grave errore nel giudicare le distanze. La sua notevole velocità ci allontanava inoltre sempre di più dalla base, facendo sorgere il problema dell'autonomia. Durante tutti i nostri attacchi i mitraglieri della « Fortezza Volante» ci tennero. continuamente sotto tiro, ma la loro mira era, evidente mente, degna della nostra…. Dopo un'altra puntata mi accorsi che stavamo passando su Clark e pensai che certamente il pilota nemico doveva aver chiesto l'aiuto dei suoi caccia. Bisognava perciò abbatterlo subito altrimenti saremmo caduti in una trappola; con il nostro sistema degli attacchi ripetuti non avremmo però ottenuto nulla e allora decisi di andare a sparare alla minima distanza, tanto più che quel B 17 era sprovvisto della torretta di coda altrimenti non avrei certo potuto pensare di scamparla. Mi precipitai a tutto motore sul bombardiere, seguito da altri due caccia che mi si misero in pattuglia accanto. Il pilota della «Fortezza» muoveva la coda del velivolo a sinistra e a destra per permettere ai suoi mitraglieri laterali di spararci ma, nonostante tutte le loro manovre, non fummo colpiti e io potei, a mia volta, aprire il fuoco. Vidi saltare via pezzi dall’ ala destra e quindi formarsi una sottile scia biancastra. Concentrai allora la mira nella zona già colpita per cercare di piazzare qualche colpo di cannoncino in un serbatoio. A un tratto la scia sottile divenne un vero getto, mentre i mitraglieri nemici .sospendevano il tiro e mi parve che si sviluppasse un incendio nella fusoliera. In quel momento esaurii le munizioni e dovetti interrompere l'attacco. Mi trassi di lato per permettere anche agli altri Zero di sparare, benchè ormai il massimo danno fosse già stato arrecato e il bombardiere stesse picchiando verso terra; pareva però che planasse regolarmente e il velivolo avrebbe forse potuto tentare un atterraggio di fortuna su Clark. Nel frattempo mi ero portato alla sua stessa quota e, da una certa distanza, mi misi a fare fotografie con la mia Leica. Riuscii a farne tre o quattro poi, a duemila metri, tre uomini si lanciarono e, mentre i loro paracadute si aprivano, il B 17 scompariva in un'esplosione. Seppi in seguito che gli americani avevano detto che noi avevamo mitragliato gli uomini appesi al paracadute, ma questa era tutta propaganda; io ero l'unico caccia vicino a loro e, completamente privo di munizioni, mi limitavo a fare fotografie. Nessun altro giapponese vide precipitare il B 17 e, sul momento, l'abbattimento non mi venne nemmeno riconosciuto. Il coraggio dimostrato dal pilota che, da solo, aveva osato effettuare il bombardamento, fu oggetto di molte discussioni nei nostri alloggi. Era la prima volta che un aeroplano isolato rischiava in tal modo la sicura distruzione, sfidando le forze da caccia nemiche pur di effettuare l'attacco, ne le esagerazioni da parte di coloro che si erano salvati intaccavano l'eroismo del comandante. Quando rientrammo a Formosa ci accorgemmo che le ali di due Zero erano crivellate di colpi di mitragliatrici, sparati dai difensori della «Fortezza Volante». Tredici anni dopo questo combattimento incontrai il colonnello Frank Kurt, dell'aviazione degli Stati Uniti, che aveva pilotato a Tokio il famoso Swoose e che mi disse: «Nel giorno in cui Colin fu abbattuto io ero nella torre di controllo della base di Clark; vidi avvicinarsi la 'Fortezza'; lei aveva ragione di pensare a un tentativo di atterraggio di fortuna da parte sua. Poi tre paracadute spuntarono dalle nuvole, che mi parve fossero a circa settecento metri di altezza, seguiti da altri cinque ombrelloni; per lo meno, dal posto ove mi trovavo, mi parve che fossero cinque. Colin, naturalmente, non si era lanciato». Samurai Saburo Sakai
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L' RF-84F era decollato dalla lunga pista di Villafranca in un brutto pomeriggio di ottobre, lasciandosi dietro una vorticosa scia di pioggia e il caratteristico sibilo cavernoso del J65-W-7. Ai comandi un giovane tenente della 3a Aerobrigata era impegnato negli ultimi controlli post-decollo per una missione di addestramento alla ricognizione armata. I Colli Euganei sfrecciarono veloci sotto le ali dell'aviogetto, poi fu la volta di Mestre e Latisana, al traverso di Cervignano il pilota iniziò l'ultimo tratto della rotta di avvicinamento all'obiettivo, che apparve pochi secondi dopo il sorvolo dell'lsonzo: i cantieri di Monfalcone. La missione simulava una ricognizione armata sulla direttrice Venezia-Trieste, con incarico finale di riprendere la zona industriale marittima per la preparazione di un attacco di F-84F delia 6" Aerobrigata. Il tenente riportò la sua posizione alla base, poi armeggiò a lungo con i selettori per predisporre lo scatto delle sei fotocamere; era molto teso in questo volo perchè intendeva portare a termine nel modo migliore la sua "prima" crociera operativa ritornando a Villafranca con riprese indiscutibili, era stanco della sufficienza con cui lo trattavano i colleghi più anziani al reparto. Cosi non si accorse del preoccupante valore indicato dai televel dei serbatoi alari. Descrisse un largo giro sull'obiettivo e tirò la barra a se per riprendere la quota di ritorno alla base, ma mentre sorvolava la costa, due vivide luci cominciarono a lampeggiare mandando sinistri riflessi sui quadranti del pannello carburante. Accidenti, sono partite le pompe delle Wings! ", pensò subito interrogando gli strumenti. Una rapida occhiata gli rivelò la verità: i serbatoi esterni non avevano travasato, erano ancora pieni di duemila litri di JP4, ma quel carburante ora non avrebbe più potuto riempire i serbatoi alari, doveva rientrare solo con quel poco che rimaneva nelle ali. Cosa era successo? Mentre l'aereo saliva a più di 5000 piedi/minuto si ricordò che non aveva eseguito il travaso nelle manovre post-decollo e ora, con le pompe inefficienti, le taniche, diventavano inutili pesi morti sospesi agli attacchi sotto le prese d'aria. Un rapido carteggio rivelò che poteva atterrare a Istrana, ma aveva appena impostato la prua per il ritorno che si accese anche la spia del "Forward", poi, al traverso di Palmanova, la luce dell'avvisatore di basso livello gli,ricordò, non senza qualche brivido, che gli rimaneva soltanto qualche minuto di volo. Interruppe la salita, mentre con la radio chiamava la torre di Rivolto per dichiarare emergenza: "Flash 12, basso livello ... dichiara emergenza e chiede diretto al campo._.", "Autorizzato, Flash 12, avete priorità assoluta ... le condizioni a Rivolto danno 5/8 di stratocumoli a 6.000 piedi, pioggia a tratti, temperatura 9 gradi, vento 40 gradi 10 nodi ... ". Ora l'RF-84F sorvolava le basse colline friulane puntando su Udine, il pilota si manteneva un po' alto, pronto a lanciarsi non- appena il J 65-W-7 avesse cominciato a scendere di giri, sapeva bene che dal Thunderflash a bassa quota si erano salvati in pochi ... Con lo sguardo ansioso il tenente seguiva il rapido alternarsi di campi e colline sotto le ali, fissando con inquietudine l'orizzonte in attesa di vedere apparire da un momento all'altro davanti al blindovetro la lunga striscia animata della statale Pontebbana: da quel punto la quota era sufficiente ad arrivare sull'aeroporto. Eccola! Sulla destra si profila il diritto nastro di asfalto che unisce Udine a Pordenone, era proprio la nazionale ... un'occhiata all'altimetro confermò che ce l'avrebbe fatta. Leggera virata a sinistra ed ecco la pista di Rivolto, apertura, giù i flaps, sottovento, base, finale ... tre miglia, due, uno, catenaria, testata pista, via i giri. Il pilota richiama dolcemente, tutto sommato era quasi un atterraggio normale e "papà-motore" non lo aveva tradito, aspetta il lieve contatto delle ruote, ma non ci fu alcun sussulto, doveva essere un po' "lungo". I provvisamente accadde tutto: vide la luce filante di un razzo rosso perdersi dietro la torre di controllo, un violento strattone lo proietta in avanti tendendo con forza incredibile le cinghie del seggiolino, poi un terribile urlo soffocato salì da sotto il ventre del Thunderflash, che prese a sbandare di lato sussultando paurosamente. Le ali vibravano con cadenza frenetica, la velocità era in rapidissima diminuzione. Istintivamente azionò i freni, ma non ci fu alcuna frenata, solo quel maledetto rumore di ferraglia mentre la lucida pista correva veloce ai lati delle ali; guardò gli strumenti di sfuggita, ma non c'era tempo di domandarsi cosa fosse successo: chiuse i contatti e aprì il tettuccio. L'aereo si fermò con un ultimo sobbalzo, slacciò le cinghie e scese dall'abitacolo mettendo le mani un po' dove capitava, scivolò e cadde sul cemento. Si allontanò zoppicando dall'R F-84F ancora confuso e con una caviglia lussata, mentre i getti poderosi delle squadre antincendio inondavano il velivolo soffocando un brutto principio di incendio. Mezz'ora dopo ritornò con la "campagnola" al suo velivolo, era ancora là, in mezzo alla pista di Rivolto, al centro di una larga chiazza di schiumogeno. Finalmente capì perchè tutti l'avevano guardato come un marziano: l'RF-84F era atterrato senza carrello poggiando sui serbatoi esterni a 180 Km/h, e strisciando per 250 metri su duemila litri di infiammabilissimo cherosene! La commissione di inchiesta accertò che il "Flash 12" non si era acceso come un gigantesco fiammifero solo per due motivi: la pista bagnata e il contatto simmetrico. Il velivolo aveva poggiato perfettamente sulle taniche suddividendo il suo peso sulla massima superficie ed evitando così fatali sforzi concentrati che avrebbero distrutto la struttura dei serbatoi. Il carburante era ugualmente uscito da una grossa fessura, ma il getto di JP4 era stato disperso sulla pista dai vortici di scia, e subito si era raffreddato al contatto del velo di pioggia e degli spruzzi d'acqua sollevati dal velivolo. Solo durante l'arresto il cherosene era riuscito ad accumularsi e a prendere fuoco, ma l'intervento del pompieri aveva scongiurato ogni pericolo. Più tardi, al reparto, il giovane tenente disse ai colleghi più anziani che avrebbe smesso di fumare, non poteva più sopportare la vista dei fiammiferi, gli ricordavano troppo una mancata fine della sua avventura ... Antonio Mancino Jp4, ottobre 1978
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Battesimo del fuoco A Kiukiang, nella Cina sud – orientale,nel maggio del 1938, ebbi il mio primo combattimento... … che non tu certamente un inizio denso di auspici brillanti. Il comandante dello stormo di Kiukiang non aveva l'abitudine di portarsi appresso i piloti giovani nei suoi voli più lunghi, immaginando che la loro inesperienza li avrebbe resi facile preda dei veterani che volavano nelle file cinesi. Nel 1938 il caccia Zero, che dovevo in seguito imparare a conoscere così bene, non era ancora stato assegnato ai reparti combattenti e noi volavamo col caccia Mitsubisci 96, battezzato Claude dagli Alleati. Era un velivolo lento e con un raggio di azione alquanto modesto, con il carrello fisso e con l’abitacolo aperto. I nostri quindici caccia decollarono dunque molto presto dalla base di Kiukiang, il ventidue mattina, prendendo quota in formazione di cinque pattuglie di tre a cuneo. La visibilità era eccellente e i novanta minuti che impiegammo per giungere su Hankow mi dettero l’impressione di un pacifico volo di addestramento perchè nessun caccia nemico si avvicinò mai alla nostra formazione ne alcun colpo di contraerea venne a macchiare il cielo. Sembrava persino incredibile che, sotto di noi, infuriasse la battaglia. Da tremila metri di quota il campo di Hankow aveva un aspetto del tutto illusorio; l'erba verde scintillava sotto i raggi del sole mattutino e quello che era il più grande aeroporto nemico della zona aveva invece la tranquilla apparenza di un campo di golf molto ben curato. Ma i velivoli da caccia non usano servirsi di tali attrezzature sportive e i tre puntini che vedevo correre sul terreno per salire poi verso di noi erano proprio caccia nemici. A un certo momento arrivarono alla nostra altezza. grandi, neri e poderosi. Senza alcun preavviso, o almeno cosi sembro alla mia mente stupefatta, uno dei tre abbandonò la formazione e si precipitò su di me a tutta velocità. Di colpo, quei piani che avevo accuratamente elaborato nel mio intimo per il mio primo combattimento aereo svanirono; sentii tutta la muscolatura contrarsi nervosamente e, sebbene non sia piacevole confessarlo, devo aver tremato sotto l'impressione di servire da bersaglio al pilota nemico. Ho spesso pensato di essermi comportato stupidamente in quei momenti cruciali e il lettore può ben condividere la mia opinione. Debbo tuttavia far presente che la reazione mentale, a tremila metri, dopo un volo di novanta minuti a quella quota senza aver fatto uso della maschera dell'ossigeno, è ben poco paragonabile a quella che si ha, invece, a terra. A quell'altezza una minore quantità di ossigeno raggiunge il cervelIo; inoltre il rombo del motore nell'abitacolo aperto è assordante e il vento freddo che sibila contro il parabrezza vi aggiunge il suo rumore. Non avrei dovuto fare altro che cercare di rilassare i nervi; ma invece giravo la testa da tutte le parti tentando disperatamente di vedere nello stesso tempo in tutte le direzioni per evitare di essere colto di sorpresa. Intanto stavo tentando di coordinare i movimenti dei comandi del velivolo e di controllare gli strumenti del cruscotto. Ero completamente confuso. Per mia fortuna mi venne in aiuto un'abitudine instillatami durante il periodo dell'addestramento; era un avvertimento che veniva continuamente ripetuto ai piloti che si trovavano alle prime armi: quello•di cercare di attaccarsi sempre alla coda del velivolo del capo-pattuglia. Con movimenti quasi inconsci della mano strinsi l'allacciatura della maschera per 'ossigeno (ne avevamo soltanto per due ore e quindi l'adoperavamo esclusivamente in combattimento o nei voli a quota superiore ai tremila metri) e spinsi in avanti, a fondo, la manetta del gas. Il motore rispose con un rombo più potente e il mio piccolo caccia fece un balzo avanti; intorno a me vidi cadere i serbatoi supplementari di carburante, perchè tutti i miei compagni avevano dato uno strappo al comando di sgancio situato nell'abitacolo. Mi ero completamente dimenticato che la tanica che portavamo appesa all'esterno della fusoliera poteva divenire un terribile esplosivo se colplta; con mano tremante tirai anch'io la leva e il mio serbatoio fu l'ultimo a cadere. Avevo però perso completamente la tramontana. Avevo fatto, è vero, tutto quello che dovevo fare ma nella maniera più trascurata e quasi dimenticando le regole fondamentali per la preparazione a un combattimento aereo. Inoltre non mi ero più curato di guardarmi attorno alle spalle quindi non avevo più tenuto d’occhio il velivolo nemico che, per quanto ne sapevo, poteva anche avermi sparato e magari colpito; tutto quello che vedevo era la coda dell'aeroplano del mio comandante e, preso dalla disperazione, mi dondolavo dietro di lui, vicino alla sua coda. Quando alla fine riuscii a riprendere la mia corretta posizione di gregario, alquanto indietro e di lato, recuperai anche la calma e smisi di agitarmi alla cieca dentro l’ abitacolo. Tirai un gran respiro e azzardai una rapida occhiata sulla sinistra: appena in tempo! Due lucidissimi velivoli nemici si precipitavano contro di me. Erano di tipo russo, due E 16 con carrello retrattile, con un motore molto più potente di quello del nosto Claude, più veloci e più maneggevoli. Feci ancora altri errori: in quei pochi attimi avrei potuto perdere la vita per la seconda volta. Le mie mani esitavano incerte e io non ero capace di fare nulla di quanto avrei dovuto; invece di spostarmi di lato o prendere quota, mi limitai a continuare il mio volo diritto. Secondo tutte le regole del combattimento aereo avrei dovuto essere abbattuto ma, all'improvviso, mentre i nemici già mi stavano collimando, eccoli fuggire via con un brusco dietro front, senza che riuscissi a capirne il motivo. La soluzione del problema era tuttavia molto semplice. Il mio comandante di squadriglia, prevedendo che avrei potuto comportarmi goffamente, come effettivamente stavo facendo, aveva incaricato uno dei nostri veterani di coprirmi le spalle. Era stato proprio lui che, buttandosi bruscamente contro i nemici, li aveva costretti a interrompere l'attacco e a mettersi in fuga. Ma non riuscivo ancora a calmarmi e a combinare qualcosa di buono. Dopo avere subito il secondo attacco rimasi immobile su i comandi, senza accorgermi che mi ero staccato dalla pattuglia ed ero andato a finire a circa quattrocentocinquanta metri dietro un altro velivolo russo. Me ne stavo seduto nel mio abitacolo, cercando di ragionare e di calmarmi per poter pensare a fare « qualcosa ». Alla fine mi svegliai dal mio stato di torpore e balzai avanti. Collimai esattamente il russo e premetti il comando delle armi, ma non accadde nulla. Azionai più volte il grilletto maledicendo le due mitragliatrici silenziose finche, con mio grande imbarazzo, dovetti accorgermi che mi ero dimenticato di armarle prima di entrare in combattimento. Un altro sottufficiale pilota che volava alla mia sinistra cominciò a disperarsi, vedendo la mia agitazione e. poi, il mio modo di sparare sul caccia nemico. I miei colpi infatti non potevano andare a segno perchè questi si era messo in virata sulla destra e quando potei averlo di nuovo davanti a me era a ormai duecento metri; ma io gli sparai ancora, sprecando così altre munizioni e perdendo di nuovo una magnifica occasione. A questa punto giurai che lo avrei abbattuto a costo di dovermi scontrare con lui. A tutto motore abbreviai le distanze mentre il nemico virava, faceva dei loopings e delle spirali con manovre violente, ottenendo sempre di sfuggire costantemente alle raffiche che gli sparavo. Le sue virate strette e i tentativi che faceva per prendermi a sua volta in coda rivelavano poca abilità di pilotaggio e le sue pallottole traccianti rigavano l'aria a vuoto, esattamente come le mie. Il mio avversario era, effettivamente, piuttosto poco fortunato: senza che io me ne accorgessi diversi miei compagni stavano adesso girando in quota tenendosi esattamente sopra di noi pronti a intervenire qualora il russo fosse riuscito a mettermi in una brutta situazione; lui invece era completamente solo. Egli però se n'era accorto e da quel momento non fece che cercare una via di scampo invece che tentare di abbattermi: proprio quel che non avrebbe mai dovuto fare. Al termine di uno stretto looping mi trovai l'E 16 davanti, a centocinquanta metri e potei sparargli una raffica nel motore. Subito un fumo nero cominciò a uscire dal muso del velivolo che precipitò poi verso terra. Soltanto quando lo vidi ridotto a un piccolo ammasso di rottami fumanti mi accorsi che avevo esaurito le munizioni, cosa che avrei ben dovuto guardarmi dal fare: un pilota deve assolutamente conservarsi i colpi per il volo di ritorno, nella eventualità di essere sorpreso da qualche caccia nemico. Mi guardai d'intorno freneticamente cercando gli altri Mitsubisci e quando mi accorsi che ero solo sentii un colpo al cuore. Avevo perduto di vista la mia formazione! La mia stessa vittoria era poco meno di una beffa perchè mi era stata servita su un piatto d'argento dal pilota veterano che mi aveva accompagnato, quello stesso che poi avevo perduto mentre stavo seguendo il russo. Mi sentii umiliato per il mio deplorevole comportamento e fui quasi sul punto di mettermi a piangere. E questo fu proprio quel che feci quando, dopo essermi guardato ancora d'intorno, vidi alla fine quattordici Claude circolare lentamente in formazione molto in quota aspettando con molta pazienza che mi decidessi a raggiungerli. Credo di aver urlato per almeno cinque minuti per la vergogna che provavo. Dopo l'atterraggio a Kiukiang uscii esausto dall'abitacolo. Il mio comandante di squadriglia piombo su di me col viso rosso per la collera e urlando «Sakai! Per tutti i diavoli! Sei un dannato fesso. E' un miracolo che tu sia ancora vivo! Non ho mai visto nulla di più maldestro e ridicolo in tutta la mia vita di pilota! Tu ... » Ma non potè continuare. Io ero Immobile incollato al suolo, dolente e confuso. Sperai disperatamente e pregai tra me fervidamente che il mio comandante sfogasse la sua collera prendendomi a cali. Ma era troppo arrabbiato per ricorrere alla violenza fisica. Fece invece quanto di peggio avrebbe potuto fare. Mi voltò le spalle e si allontanò… Saburo Sakai Samurai
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Saburo Sakai Quale più famoso asso degli Zero, Saburo Sakai afferma che la sua più grande impresa della guerra non furono le 60 e passa vittorie riportate, ma il non aver mai perso un solo compagno in più di 200 duelli aerei. Nato nel 1916 nella Prefettura di Saga da una povera famiglia di agricoltori, questo figlio di samurai si arruolò in marina nel maggio 1933. Mentre era in servizio come marinaio sulla corazzata Kirishima, Sakai rimase affascinato dagli aerei e decise di diventare un pilota. Dopo aver fallito per ben due volte l' esame di ammissione, ce la fece al terzo tentativo e fu accettato alla scuola di volo. Nel novembre 1937 Sakai conseguì il brevetto con la miglior votazione del suo corso, venendo premiato con l'orologio d'argento dell'imperatore. Come membro del 12° Gruppo aereo, prese parte alla Guerra di Cina, ottenendo la sua prima vittoria aerea nella sua prima missione di combattimento il 5 ottobre 1938. Sakai si trovava alla guida di uno dei 15 "Claude" imbattutisi negli I-16 nel corso di una missione verso Hankow, e nello scontro che ne seguì violò praticamente ogni regola del manuale e rischiò di morire. Sakai riuscì probabilmente ad abbattere un velivolo nemico utilizzando l'intera scorta di munizioni, e al suo ritorno alla base il giovane pivellino fu severamente biasimato, piuttosto che elogiato, dal suo comandante a causa del pessimo comportamento in battaglia. Alla data del 3 ottobre 1939 il sottocapo Sakai era ormai divenuto un pilota esperto, e quel giorno lo dimostrò gettandosi su 12 bombardieri DB-3 che avevano attaccato a sorpresa il campo d'aviazione di Hankow. Pur essendo stato leggermente ferito, Sakai saltò sul suo "Claude" e si gettò tenacemente all'inseguimento solitario dei nemici. La sua rincorsa durò più di 150 miglia e culminò nell' abbattimento di uno dei bombardieri. La notizia della sua temeraria impresa lo precede in Giappone, e al suo ritorno a casa Sakai fu accolto come un eroe. Nel giugno del 1941 il sergente Sakai fu assegnato al Gruppo aereo di Tainan, col quale più tardi partecipò all'incursione su Clark Field, nelle Filippine, nel primo giorno di guerra nel Pacifico. Distrusse al suolo due B-17 e rivendicò l'abbattimento del P-40 pilotato da Sam Grashio, che invece riuscì a sfuggirgli, nonostante avesse un grosso foro di proiettile di cannone nell'ala. Il 10 dicembre Sakai impegnò per la prima volta in un combattimento aereo un B-17C del 14° Bombardment Squadron. Riuscì ad abbatterlo, pur restando profondamente colpito dalle gigantesche dimensioni della "Fortezza Volante". Una volta conquistate le Filippine, il Gruppo aereo di Tainan cominciò a operare nelle Indie Olandesi, dove Sakai affronto nuovamente i B-17: "Il B-17 non aveva un punto debole. Ogni volta era una dura battaglia. Ricordo un episodio particolare sopra Balikpapan, in Borneo, nel febbraio 1942, prima che elaborassi un metodo efficace per attaccare quei bombardieri. C'erano due Zero contro sette B-17 Feci di tutto per abbattere quell'apparecchio, ma non fui fortunato. Non funzionò niente!" Il 28 febbraio 1942 Sakai si imbatte in un DC-3 da trasporto nel corso di una solitaria missione di pattugliamento a est di Surabaya, sull'isola di Giava. Dopo aver seguito l'aereo, decise di affiancarlo per un giro di ispezione prima di abbatterlo, e scorse una donna dai capelli biondi con un bambino piccolo che lo osservavano da un finestrino; Sakai risparmiò l' aereo civile, lasciandolo proseguire per la sua strada. Nell'aprile 1942 il Gruppo aereo di Tainan venne trasferito a Rabaul, e i piloti degli Zero fecero avanti e indietro da li fino a Lae durante lo scontro con le unita americane e australiane di base a Port Moresby. Sakai condusse anche una guerra personale contro la casta degli ufficiali, i quali consideravano i sottufficiali piloti come merce sacrificabile. Per rappresaglia, ai suoi uomini vennero serviti pasti sempre uguali e fu negato il tabacco, e cosi ordinò al suo compagno di volo di rubare il cibo dalla mensa ufficiali, dando inoltre ai suoi uomini il permesso di fumare in aperta violazione degli ordini. Trovatosi di fronte a tali problemi disciplinari e di natura morale, il comandante del gruppo decise finalmente di apportare dei miglioramenti alle condizioni degli uomini. Come pilota anziano della Squadriglia Sasai, Sakai istruì molti suoi camerati (compreso il comandante dell'unim, il sottotenente di vascello Junichi Sasai) nell'arte del duello aereo. Molti dei suoi allievi in seguito sarebbero divenuti degli assi. Il 22 luglio 1942 otto Zero intercettarono un solitario Hudson della RAAF (Royal Australian Air Force, aeronautica militare austraIiana), un A16-201 del 32° Squadron, mentre effettuava una missione di copertura caccia sopra Buna. Prevedendo una facile vittoria, Sakai si lanciò all'inseguimento del bombardiere bimotore, il cui pilota, il sottotenente Warren F. Cowan, invertì la rotta e attaccò frontalmente Sakai. Numericamente inferiore nell'ordine di otto a uno, Cowan mantenne l'iniziativa, creando grande disordine tra gli Zero e sparpagliandoli, finchè probabilmente Sakai non lo abbattè. Come unico testimone oculare vivente di quell'azione, Sakai inviò una memoria scritta al ministro della difesa australiano nel 1997, chiedendo che Cowan e il suo equipaggio ricevessero una menzione d'onore per il loro coraggio. Il riconoscimento fu negato. Il 7 agosto 1942, nel corso della prima missione a lungo raggio su Guadalcanal, il sergente Sakai abbatte il Wildcat pilotato dal futuro asso del VF-5, il tenente J. I. Southerland, il quale si salvò lanciandosi col paracadute. Quando si riunì alla sua squadriglia, Sakai fu sorpreso da un SBD solitario pilotato dal tenente Dudley H. Adams del VS-71; il pilota americano riuscì a colpire con un proiettile l'abitacolo dello Zero, mancando di un soffio la testa dello stupefatto pilota. Ormai pronto al duello, Sakai abbatte il Dauntless, uccidendo il mitragliere di coda Harry E. Elliot nell'azione. Il tenente Adams riuscì tuttavia a mettersi in salvo col paracadute, e fu successivamente decorato con la Navy Cross. Avendo già eliminato due aerei nemici in quella missione, Sakai individuò a distanza quelli che pensava fossero otto Wildcat; in realta, erano bombardieri in picchiata SBD del VB-6, comandati dal tenente Carl Horenburger. Ignaro di essere stato scorto a sua volta, Sakai si gettò sulla preda, ritrovandosi però sotto il fuoco incrociato dei mitraglieri di coda nemici con i loro pezzi binati da 7,62 mm, che lo ferirono gravemente. In un epico volo Sakai fece ritorno alla base dopo essere stato dato per spacciato. Cieco da un occhio, fu spedito in Giappone per ulteriori cure mediche. Al termine della convalescenza, Sakai si ritrovò nel frustrante ruolo di istruttore, con un programma d'addestramento sempre più ridotto all'osso e classi di piloti novellini sempre più giovani e numerosi. Nel giugno 1944 tornò finalmente a volare in prima linea e fu assegnato a Iwo Jima per unirsi al Gruppo aereo di Yokosuka. Il 24 giugno ingaggiò un feroce combattimento con gli Hellcat dei VF-1,VF -2 e VF-50, distruggendone tre. Ciò nonostante, la sua unità lamento a sua volta la perdita di 23 Zero. Senza più alcuna speranza di ribaltare le sorti della guerra contro gli invasori americani, il Gruppo aereo di Yokosuka ricevette l'ordine di convertirsi agli attacchi suicidi kamikaze. Il 5 luglio Sakai parti con due compagni per una missione di sola andata, in cui nove Zero scortavano otto aerosiluranti in una sortita completamente inutile. Prima che potessero raggiungere l'obiettivo, furono respinti da una formazione di Hellcat, e disobbedendo agli ordini di rifiutare il combattimento e restare con i bombardieri, Sakai contrattacco e ne abbatte uno. Nonostante gli sforzi degli aerei di scorta, tutti gli aerosiluranti furono rapidamente distrutti, lasciando Sakai e i suoi due compagni ad affrontare l'oscurità, il cattivo tempo e lo scarso carburante rimasto per fare ritorno alla base. Ventiquattr'ore dopo, Sakai e i piloti di Zero superstiti furono trasferiti di nuovo in Giappone, dove egli tornò all'insegnamento per mancanza di un ulteriore incarico operativo. Trasferito al 343° Gruppo aereo nel dicembre 1944, Sakai addestrò i piloti destinati al nuovo caccia Shiden-Kai "George". L'ultimo combattimento del grande asso ebbe luogo il 17 agosto 1945, quando (due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio) insieme a due piloti del Gruppo aereo di Yokosuka si scontrò con un B-32 Dominator inviato in missione di ricognizione fotografica su Tokyo. Tratto da Aerei Militari
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L'asso della Bottiglia - Gregory "pappy" Boyington
Dave97 ha pubblicato una discussione in Libri & Riviste Aeronautiche
Ieri sera, alla reunion (leggi grigliata ) del vecchio (si fa per dire) gruppo akro-re, ho avuto modo di curiosare nella libreria di un caro amico (zeno66 ) che ringrazio pubblicamente ed ho scoperto questo magnifico libro. Presentazione Due anni fa ripresi a volare, dopo un intervallo di tredici anni. Molti amici mi incoraggiarono e molti altri trascurarono il loro lavoro per aiutarmi a ricominciare daccapo come pilota. Il medico dell'aviazione che mi fece la visita necessaria fu estremamente cortese anche se non aveva la più vaga idea di chi fossi. Un pilota che dirige un centro di corsi aeronautici mi diede lezioni per una settimana onde mettermi in grado di superare un esame scritto per il volo strumentale. Un altro pilota, che dirige una scuola di pilotaggio, mi fece volare alcune ore quasi gratis. Poi passai il controllo per il volo cieco. Un noleggiatore locale di apparecchi mi pagò addirittura, mentre facevo delle ore di volo per addestrarmi. Due mesi dopo il giorno in cui mi ero reso conto che avrei potuto ottenere il brevetto di pilota civile di secondo grado, ero già pronto. Sul documento risultavano aerei plurimotori, commerciale l'abilitazione al volo strumentale. La cosa più straordinaria è che la ruggine se ne andò in un batter d'occhio, come se non avessi mai smesso di volare. Abituarmi a strumenti che non avevo mai usato in vita mia non mi fu affatto difficile. Ma questo lo si capisce perchè, per più di dieci anni, volare era stata una delle poche cose che erano riuscite a interessarmi per un periodo di tempo abbastanza lungo. All'inizio, mi preoccupavo delle conversazioni con le torri di controllo e delle comunicazioni radio. Ma anche questa si aggiustò quasi subito. Quando chiamavo e dicevo che ero «uno nuovo» mi aiutavano in tutti i modi. Alla mia età, pur con un ottimo passato di volo, fu piuttosto difficile ottenere un impiego presso una linea aerea ma, per fortuna, riuscii a trovare un posto di pilota. Una compagnia di trasporti mercantili di Burbank mi permise di usare un piccolo velivolo a cinque posti per trasporti privati. La compagnia non mi dava stipendio, ma una provvigione sul lavoro che procuravo. In cambio, portavo a spasso i dirigenti della compagnia e i loro ospiti, senza ricevere ricompensa. Per me andava benissimo, perchè era meraviglioso tornare a volare. Trasportavo uomini d'affari, attori del cinema e chiunque avesse voluto andare in un posto qualsiasi e fosse stato disposto a pagare sessanta dollari l'ora. L'aviorimessa della linea aerea al Lockheed Air Terminal si trova a poco più di cinque minuti di distanza da casa nostra, quasi nel centro della San Fernando Valley. Gli aerei in decollo da Lockheed passano sopra di noi giorno e notte. Quando gli amici vengono a trovarci dalle altre parti della città, non riescono a capire come possiamo resistere con quel frastuono. Probabilmente non si rendono conto che esso per me e musica. I decolli non danno fastidio a nessuno in casa nostra, neanche al bassotto, Alvin, che ha orecchie molto sensibili. Ma, oltre a non esserne infastidito, mi piace sentirmi vicino a tutti i piloti che passano sul mio capo. Il mio impiego come pilota mi procurò un posto come tecnico per le vendite presso la Coast Pro-Seal una fabbrica di apparecchi sealants, che rifornisce l'industria aviatoria di tutto il paese. Volo soltanto a fine settimana e per ragioni d'affari, ma sia che voli sia che faccia altre cose, continuo a incontrare persone con le quali ho volato in passato. Molte cose sulle quali ora scherziamo, sono state molto, molto serie. Non dimentichiamo che si trattava di vita o di morte e non dimentichiamo le fatiche e le angosce che abbiamo sopportato. Una volta l'anno, e a volte anche più spesso, ci riuniamo qui nella valle per un pranzo. Siamo in venti e alcuni sono piloti, altri ex piloti. Alcuni fra loro avevano una misteriosa abilità nel tenere in aria i velivoli. Quasi tutti sulla quarantina. Si è sempre parlato molto di questi uomini, da quando si è saputo della loro esistenza, ma pochi sanno come si sono incontrati per la prima volta. Quasi tutti li conoscono soltanto con il loro nome leggendario: Le Tigri Volanti Gregory “Pappy” Boyington -
VOLO IN QUOTA Oh! Sono fuggito dall'ineguale superficie della terra e ho danzato per i cieli sulle ali ridenti, inargentate; sono salito contro sole, ho raggiunto la cascata gioiosa delle nuvole intrecciate di luce e ho fatto centinaia di cose che voi non vi siete mai sognati di fare, virando, raddrizzandomi, vagando per le alte quote silenziose, illuminate dal sole. Volando lassù ho inseguito il vento che acclamava il mio passaggio e ho lanciato il mio velivolo ardente attraverso imponderabili castelli di aria. Su, e ancora su nel vasto, delirante, abbagliante azzurro fino a superare il vento, a lambire le grandi altezze ,con grazia delicata, quelle dove giammai ne l’allodola ne l’aquila hanno volato. E mentre la mente, in silenziosa ascesa, superava l'alto, inviolato santuario dello spazio, levai in alto la mano e sentii il volto di Dio. Sottoten.pilota JOHN G. MAGEE JUNIOR Pilota americano dell’aviazione canadese Caduto in combattimento aereo 11 dicembre 1941
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Guardo il mio 205 parcheggiato a poca distanza da me, tettuccio aperto, paracadute a cavalcioni del terminale della fusoliera. E’ pronto per il combattimento, è pronto a portarmi in quota, sui 9000 metri, dove i ragionamenti scompaiono, dove tutto diviene terribilmente semplice: < tu, il tuo aeroplano, i tuoi cannoncini; loro, i loro aeroplani, i loro cannoncini. Se ci sai fare, se hai fortuna, tanta fortuna, torni qui a sederti sul campo, in circolo con i tuoi amici; se ti va male, gli altri stringeranno il cerchio per illudersi che tu sei ancora presente, ed è l'unico modo per allontanare lo spettro della morte da noi che siamo ad essa predestinati. Guardo ancora gli aeroplani; ormai sono vecchiotti. I nostri specialisti, fanno miracoli per darceli sempre efficienti, ma ormai hanno centinaia di ore di volo, sono stati strapazzati violentemente in cento combattimenti. Quando vai in volo senti che la macchina è stanca, che non arrampica più come prima, che sempre più spesso ha qualche cosa che non va. Per un pilota il suo aeroplano è tutto e noi soffriamo anche di questo, ma la situazione è quella che è, per cui bisogna « arrangiarsi », come sempre! Mi alzo e mi avvicino al mio 205, m'appoggio alla sua fusoliera, la tocco con il palmo delle mani per sentire il contatto del metallo, ed è un travaso di reciproca fiducia. Dopotutto, il Macchi è sempre un bell'aeroplano!
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Il 5 Febbraio del 1942, a 20 miglia da TOBRUCH La recente, e per me tanto dolorosa, scomparsa del M.llo Marc. Luigi Venuti mi ha riportato alla memoria una drammatica, quanto sfortunata, vicenda da me vissuta con lui nel 1942 e che qui di seguito rievoco in onore di questo valoroso specialista, nonchè, dando un significato emblematico alla sua persona, di tutti gli specialisti della nostra aviazione, preziosi e fidati compagni dei piloti in ogni circostanza e assai sovente accomunati in sublimi olocausti. Il 15 gennaio dell'anno precedente, la 281° Squadriglia Autonoma Aerosiluranti, al comando del leggendario Cap. Carlo Emanuele Buscaglia, era stata disciolta con assegnazione del relativo personale al 41° Gruppo Autonomo Aerosiluranti, di stanza anch'esso a Rodi e al quale io appartenevo. In tale occasione ritrovai l'allora Serg. Venuti, da me precedentemente incontrato quando egli era membro dell'equipaggio del Cap. Buscaglia. Il 5 febbraio, mentre il Gruppo era in attesa dell'arrivo del suo Comandante, il prestigioso Ten. Col. Ettore Muti, mi giunse l'ordine da parte del Comando dell'Egeo, retto dal Gen. Ulisse Longo, di andare ad attaccare una grossa petroliera che, carica di carburante e fortemente scortata, stava dirigendosi verso Tobruch in piena velocità per rifornire d'urgenza le unità inglesi, impegnate in quei giorni in una dura battaglia sulle sabbie della Cirenaica. Misi immediatamente in moto il mio "S.M. 79" e in un baleno decollai verso l'obbiettivo che mi era stato segnalato. Membri dell'equipaggio: M.llo Pil.Giovanni Riso, Serg.Mot. Teresio Pavese, Serg. Marc. Luigi Venuti, 1° Av. Fot. Tommaso Di Paolo, Av. Sc. Arm. Carlo Galli. Contemporaneamente prese il volo, diretto verso lo stesso obbiettivo, un secondo velivolo al comando del Cap. Giuseppe Cimicchi, ma di li a poco, a causa di uno spesso strato di nubi, ci perdemmo di vista. lncrociai la petroliera a circa 20 miglia da Tobruck. Di scorta sette Caccia-torpedinieri, di cui quattro sul lato destro, cioè a nord, e tre sul lato sinistro, dalla parte della costa africana, a chiara difesa da eventuali attacchi portati da sommergibili. E subito fu un infernale fuoco contraereo. Ciononostante, tenendo bene a mente le parole che il Gen. Longo mi aveva personalmente rivolto nell'ordinare la missione in argomento, precisandomi come da questa poteva dipendere l'esito della battaglia in atto in Cirenaica per potere venire a trovarsi gli inglesi privi di carburante, non ebbi alcuna esitazione e seppure - ovviamente - preso da una forte tensione, puntai deciso verso la petroliera. Ad un tratto, mentre mi accingevo ad eseguire la manovra d'attacco, vidi schizzare sul parabrezza materia grigia e sangue, sentendo in pari tempo sul collo il caldo di una materia liquida. Capii subito che cosa ciò significasse e, fatti tacere a viva forza lo sgomento e l'orrore che erano scesi nel mio animo, continuai l'iniziata manovra d'attacco. Quindi, giunto a distanza ravvicinata dalla petroliera, azionai lo sgancio del siluro. Maledizione! Udii il flusso dell'aria compressa che usciva dal circuito pneumatico mediante il quale si comandava lo sgancio del siluro, trasalii; il siluro non era partito e quasi certamente, ritenni, perchè colpito il succitato circuito da qualche proiettile della contraerea. Appena fuori della rosa del tiro dei caccia-torpedinieri inglesi, Venuti mi si avvicina per confermarmi, con il volto segnato e la voce alterata da una rabbia furente mista ad un lacerante avvilimento, che il siluro non si era staccato per il motivo che avevo supposto. Due possibilità a questo punto mi si offrivano: riprendere la strada di casa o portarmi ancora contro la petroliera, da sud, e fare ricorso allo sgancio meccanico del siluro. Ed è quanto feci in mezzo ad un nuovo, e più che mai violento, fuoco di sbarramento. La sorte, però, fu decisamente contro di me, in quel 5 febbraio del 1942. Infatti, anche lo sgancio meccanico non funzionò perchè, come Venuti potè osservare e subito riferirmi, l'asta d'apertura dei ganci delle due braghe che tenevano il siluro era stata tranciata da un altro proiettile che il velivolo si era preso. Sfumato, cosi, anche questo tentativo e non esistendo alcun altro meccanismo di sgancio, mi fu giocoforza - erano le 17,30 e già calava la sera - riprendere tristemente la via del ritorno e, inoltre, con due angosciosi interrogativi: ce l'avrebbe fatta l'aeroplano, tanto male conciato come esso era, e per di più con la radio in frantumi, ad arrivare a Rodi? E anche se ciò fosse avvenuto, non esisteva forse il pericolo, assai probabile, stante le condizioni dell'aeroplano, di incappare in un atterraggio fortunoso con la conseguente esplosione del siluro? Ecco che cosa, intanto, era accaduto a bordo: il 1° Av. Fot. di Paolo era stato colpito da una raffica di mitragliatrice che gli aveva fatto saltare la scatola cranica con, naturalmente, morte istantanea; il 2° pilota M.llo Riso si era preso due schegge ad un polmone; il Serg. Mot. Pavese aveva perduto due dita della mano sinistra; l'Av. Sc. Arm. Galli era stato gravemente ferito al femore sinistro. Illesi eravamo solo Venuti ed io. Fu certamente grazie alla Madonna di Loreto se nella subentrata notte illune, con il cuore in gola ad ogni sobbalzo o scricchiolio del velivolo, fu possibile rientrare a Rodi e ad atterrarvi, tutto sommato, in maniera regolare. Il mio caro e tanto generoso S.M. 79 aveva bravamente retto. Non poca la sorpresa al nostro arrivo: tutti ci avevano dato scomparsi in fondo al mare, non avendo potuto dare io alcuna comunicazione essendo stata la radio ridotta in frantumi. Quanto mai utili mi furono in tale occasione l'aiuto e il conforto del Serg. Venuti in virtù della sua vivida intelligenza, lunga esperienza di volo, coraggio fisico e morale. Sono passati da allora tanti anni, ma limpida e rimasta nella mia mente la figura di questo bravissimo specialista e, con una struggente commozione, l'ho rivisto li accanto a me con il suo viso dolce e fiero, con i suoi gesti sempre sicuri sia durante l'attacco e che lungo la tormentata rotta di rientro, la, dentro quell'aeroplano che, sebbene crivellato di colpi, si era quasi intestardito con un ultimo nobile gesto "umano" ( chi dice che gli aeroplani sono solo macchine e, pertanto, senza anima? ) nel riportare a casa due uomini vivi, uno morto e quattro feriti al termine di una missione che il destino aveva fatto fallire. Dopo la recente perdita del carissimo amico Cimicchi e questa del mio specialista, in pochi siamo rimasti della "pattuglia" di Rodi. Si possono contare sulle dita delle mani. Ma per quanto tempo ancora? Giulio Cesare Graziani Aeronautica , Gennaio 1993
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AUGURONI!!!!!!!!!!!!!!
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Nel 1908 Enrico Pini era a Parigi ove svolgeva la sua attività nel commercio di articoli tecnici, quando arrivò Wilbur Wright, invitato da un Comitato francese per presentare il suo aeroplano e trattarne l'acquisto dei brevetti dopo le prove convenute. I francesi, che prima d'allora erano increduli e propensi a giudicare i voli eseguiti in America dai due fratelli Wright come delle « americanate» dopo le prime esibizioni di Wilbur Wright, davanti a tanta maestria e sicurezza, rimasero strabilianti. Naturale perciò che in tale clima di esaltazione, il giovane Pini (era nato nel gennaio 1889 a Milano) ne rimanesse contagiato. Abbandonò la sua normale attività per seguire tutti gli esperimenti dell'aviatore americano, con tanto interesse da attirare l'attenzione e poi la simpatia di Wilbur Wright, che volle premiarlo prendendolo come passeggero in un breve volo. Ormai irrimediabilmente preso dalla passione, Pini pensò di costruire anch'egli un aeroplano; ne progettò uno, un monoplano che meglio del biplano soddisfaceva le sue esigenze estetiche, più che quelle tecniche, ma non si accontentò di stendere il progetto sulla carta, come fecero tanti altri. A Milano Enrico Pini aveva un fratello ingegnere, Adolfo Pini, che, più anziano di cinque anni, era un elettrotecnico di grande valore ed occupava già un posto di responsabilità presso la Società Elettrica Edison. Mise perciò al corrente dei suoi progetti il fratello, tanto da trasfondergli la sua passione per ottenere la sua partecipazione all'impresa. Rientrò a Milano, gli sottopose i disegni e decisero la progettazione di un nuovo apparecchio, al quale Enrico apportava tutte le cognizioni aviatorie acquisite in Francia, mentre l'ing.Adolfo sopperiva alla mancanza di esperienza in materia con la sua profonda preparazione matematica. Associandosi, i due fratelli apportavano quanto possedevano e cioè ottomila lire ciascuno. Per l'ingegnere tale somma doveva servire per le spese del suo matrimonio, che fu perciò rimandato, ed in più si licenziò dalla Edison, per potersi dedicare completamente alla realizzazione del progetto. Dall'industriale Bezzi, che possedeva una fabbrica di motori elettrici, ottennero di usufruire della sua officina per la costruzione dell'apparecchio, i cui pezzi furono tutti costruiti dai due fratelli con l'aiuto di qualche operaio messo a loro disposizione. Tutto l'anno 1909 fu dedicato alla realizzazione dell'aeroplano, il cui montaggio avveniva nell'hangar della Societa Restelli, costruttrice dei motori Rebus, situato in Piazza d'Armi nuova. A sua volta lo zio dei due fratelli e padrino di Adollo, volle aiutarli fornendo loro il motore per l'apparecchio, un Anzani a tre cilindri a ventaglio della potenza di circa 25 HP, del tipo usato da Bleriot nella sua famosa traversata della Manica. Alla fine dell'anno 1909, il 15 novembre, veniva inaugurata a Milano la 1a Esposizione Italiana d'Aviazione organizzata dalla Gazzetta dello Sport, nei vasti saloni dello Splendido Corso Hotel; I fratelli Pini vi esposero il modello del loro aeroplano che fu dalla giuria premiato con diploma di medaglia di bronzo. Nella primavera del 1910 incominciarono infine le prove, pilota Enrico Pini; ma sulle prime l'apparecchio raggiungeva raramente la velocità voluta, sia per lo stato del terreno (prato) sia per l'insufficienza di potenza necessaria. Si pensò di migliorare il fondo del terreno e di predisporre un tratto a schiena di mulo, in modo da facilitare lo stacco delle ruote dal terreno. L'accorgimento diede ottimi risultati, talchè l'apparecchio cominciò a distaccarsi sempre più facilmente dal terreno ed a compiere i primi balzi. Con le giornaliere prove e le modifiche tendenti a migliorare il rendimento del complesso di propulsione ed a ridurre i pesi, l'apparecchio prolungò via via i suoi balzi fino a fare dei piccoli voli di un'altezza variante fra i 50 e gli 80 centimetri dal pelo dell'erba e per una lunghezza variante dai 200 ai 500 metri. Purtroppo i mezzi finanziari dei due fratelli vennero presto a terminare, lo zio in vista dei scarsi risultati ottenuti non volle saperne di venire in aiuto; si cercò di ricorrere al credito, ma anche questo fu limitato per la mancanza di fiducia che si nutriva nella riuscita dell'impresa (lo stesso Bezzi era creditore di oltre seimila lire) e perciò le prove dovettero essere sospese ed i due sfortunati inventori, nonostante tutti i sacrifici e le rinuncie a cui si erano sottoposti per riuscire nei loro intenti, abbandonarono a malincuore la loro attività aviatoria. L'autunno vide l'apparecchio smontato e depositato in una cantina e col tempo fu venduto come ferrovecchio. Un industriale milanese, Ercole Marelli, al quale era capitato di vedere l'apparecchio dei fratelli Pini ed aveva subito apprezzato, più che le qualità aeronautiche dello stesso, la geniale ed originale costruzione, offri allora all'ingegnere un impiego nella sua azienda. In quanto ad Enrico Pini, dopo la cocente delusione, prosegui nella sua attività commerciale con nuove coraggiose iniziative, ed infine, aiutato anche dalla fortuna riuscì a formarsi una solida posizione finanziaria. Riteniamo interessante pubblicare una completa descrizione dell'aereo essendo molto probabile che questo articolo rimanga l’unico documento storico a prova e dimostrazione della costruzione. L'aeroplano ideato dai fratelli Pini era un monoplano ad ala alta controventata sia inferiormente che superiormente da cavi di acciaio ed in base alla distinzione che si faceva allora e che si riferiva al loro grado di stabilità, apparteneva alla categoria degli aeroplani a centri distinti del tipo a centro di gravità abbassato, che presentavano la maggiore stabilità. L'ala aveva un'apertura di 10 metri e la sua superficie era interrotta in corrispondenza della fusoliera. Il bordo d'attacco anzichè rettilineo presentava una notevole penetrazione. La coda era formata dal timone di profondità in due parti, completamente mobile, mentre al timone di direzione faceva seguito un'ampia parte fissa, per compensare la mancanza di superfici verticali, essendo la fusoliera completamente disintelata. Un equilibratore era sistemato sopra l'ala, in corrispondenza della superficie mancante ed era collegato con la manovra del timone posteriore. Il pilota disponeva oltre che dei comandi a mezzo di volante e di pedaliera per gli organi di manovra, anche di uno speciale congegno pendolare che assicurava la stabilità automatica trasversale, che pur ingegnoso, fu in seguito, dato la momentanea inutilità, smontato. Il motore Anzani era collocato in basso nella fusoliera, ed azionava mediante trasmissione una grande elica in alluminio, anch'essa progettata e costruita dai fratelli Pini; detta trasmissione era inizialmente a mezzo catena, ma dato gli inconvenienti riscontrati fu sostituita da una cinghia di cuoio con due tenditori per aumentare l'aderenza sulle pulegge. Accenniamo che a proposito dell'effetto giroscopico provocato dalla rotazione dell'elica, l'ing. Pini aveva fin d'allora ideato uno speciale congegno per far azionare due eliche assiali controrotanti che avrebbe annullato ciò, ma le maggiori complicazioni e peso unite alla loro difficoltà costruttiva, fecero desistere dalla sua applicazione. Solo nel 1931 l'idea verrà ripresa dalla Macchi e FIAT ed applicata sull'idrocorsa preparato per la Coppa Schneider. La costruzione dell'aeroplano, ed era questa la parte più interessante, era quasi interamente in tubi di metallo, ma anzichè di acciaio, come già esistevano esempi, erano di duralluminio collegati fra di loro da speciali giunti smontabili brevettati, in alluminio fusi in conchiglia. Le mezze ali avevano longheroni in tubo di duralluminio rinforzato, sui quali erano ficcate le centine in legno di frassino nostrano. Così pure erano i timoni e gli alettoni, costituiti da tubi di duralluminio e centine di frassino. La copertura dell'ala e di tutti i piani era di uno speciale tessuto gommato fornito dalla Pirelli. Il pericolo delle buche disseminate sul terreno era però una delle preoccupazioni più gravi dei costruttori per l' integrità dell' apparecchio; perciò al ruotino di coda faceva seguito un' ampia gruccia molleggiata, mentre due piccoli pattini erano fissati all'altezza dei mozzi delle ruote per prevenire l'affondamento delle stesse in buche più grosse ed infine, ad evitare poi che l'ala urtasse sul terreno, un'altra gruccia era sistemata ad ogni estremità dell'ala. Il peso totale dell'apparecchio, compreso il pilota, era di soli Kg. 300, risultato davvero notevole riguardo alle dimensioni dell'apparecchio. Non essendovi dell'aeroplano Pini rimasta altra documentazione che le due fotografie che corredano questo breve scritto, abbiamo tentato di ricavare da queste un trittico, che meglio illustri le caratteristiche dell'apparecchio e che anche se imperfetto sarà ugualmente apprezzato dagli appassionati. Se i risultati pratici conseguiti dal monoplano Pini, non furono quelli sperati, specie confrontati con quelli ottenuti nella stesso periodo di tempo da altri pionieri, è indubbio che ciò deve attribuirsi unicamente alla mancanza di mezzi finanziari. Potendo proseguire le prove e apportando tutte quelle modifiche e cambiamenti che di mano in mano l'esperienza suggeriva, come d'altra parte potendo applicare un motore più potente, come poteva essere il motore Gnome da 50 HP e un'elica di maggior rendimento come la Chauviere, ambedue adottati da quasi tutti i costruttori dell'epoca, la genialità dell'ingegner Adolto Pini avrebbe fornito un aeroplano di sicuro successo. Basterebbe potere seguire, ciò che esula dal nostro scopo e dalla materia trattata da questa rivista, tutte le realizzazioni conseguite alla Marelli. Citiamo ad esempio, Bleriot, il cui apparecchio usato per la traversata della Manica nel luglio 1909, era l'undicesimo della serie, senza contare che talvolta uno stesso apparecchio della serie veniva ricostruito parecchie volte ed anche con diversi tipi di motori. Prima di raggiungere dei risultati apprezzabili, Bleriot impiegò diversi anni e spese un patrimonio. Dobbiamo però mettere in giusto rilievo, e questa è la parte veramente importante del contributo apportato dai fratelli Pini al pionierismo aviatorio e che farà segnare la loro presenza al Museo Storico dell'Aviazione Italiana che sarà inaugurato quest'anno a Torino, che ad essi spetta indubbiamente la priorità nel mondo di essere stati i primi ad applicare duralluminio nella costruzione di aeroplani, quando solo la Germania cominciava a produrlo industrialmente. Nel duralluminio l'ingegnere Pini vedeva il metallo nuovo che possedeva le qualità per essere considerato il metallo aeronautico dell'avvenire e ciò per la sua leggerezza, la sua resistenza, la facilità di lavorazione e di riparazione. Il monoplano Pini, costruito in un'epoca nella quale dominava incontrastata la costruzione in legno, additava la via da seguire, ciò che nel 1917 Junkers farà propria, seguito da Dornier, Rorbach, ecc., con i risultati che a circa cinquant'anni di distanza possiamo ben valutare. Un altro merito dell'inventività dell'ing.Pini è quello di avere risolto il problema del collegamento dei tubi in duralluminio, con speciali giunti smontabili in alluminio fusi in conchiglia che permettevano inoltre, con la più assoluta sicurezza e solidità, il rapido montaggio e smontaggio a tempo di record, di qualunque parte dell'apparecchio, facilitando in quei tempi le sostituzioni e riparazioni, dovute ai cattivi atterraggi. Gastone Camurati Interconair, agosto 1964
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Caccia a Reazione tedeschi – Me 262 , Me 165 , He 162
Dave97 ha pubblicato una discussione in Libri & Riviste Aeronautiche
Testi di Nico Sgarlato,Giorgio Gibertini, Giampiero Piva -
Giuseppe Cenni - pilota in guerra
Dave97 ha pubblicato una discussione in Libri & Riviste Aeronautiche
Era il 4 settembre del '43 e al largo delia Calabria avvenne uno degli ultimi combattimenti aerei tra velivoli della Regia Aeronautica e caccia Alleati. A Cassibile era già stato firmato l'armistizio, ma sui campi di battaglia si combatteva ancora. Alla testa di pochi temerari, a bordo di un Reggiane 2002, il maggiore Cenni affrontava un nemico invincibile: nel mare le navi nemiche erano molte centinaia, in aria ci si fronteggiava con il rapporto di uno a dieci. La lotta scoppiò furiosa, e il Reggiane del comandante del 5° Stormo fu tra i primi a essere abbattuto mentre cercava di difendere un gregario: l' aereo cadde senza tentativo di lancio tra i monti dell' Aspromonte. Cosi, ad armistizio già firmato, scompariva Giuseppe Cenni, una delle figure più belle dell' aviazione italiana. Nato a Casola Valsenio il 27 febbraio 1915, Cenni aveva dedicato tutta la sua esistenza al volo bruciando le tappe di una carriera che lo stato di servizio riassume in termini troppo aridi, anche se eloquenti: 750 ore di volo di guerra su un totale di 1.460, duecento azioni belliche, sei medaglie d'argento al valor militare, due promozioni per merito di guerra, numerose altre decorazioni italiane e straniere. La medaglia d' oro gli verrà concessa alla memoria, anche se le pratiche erano già state avviate quando era ancora vivo. ----- Questo libro è un dovuto omaggio al comandante Cenni il cui eroismo ha lasciato un marchio indelebile nel carattere degli uomini del 5° Stormo e del 102° Gruppo che sentono aleggiare, nel loro diurno operare, l'impegno d'onore assunto dal loro eroico comandante, in una comunione di ideali che ci vuole, oggi come ieri, pronti a gridare "Valzer!" in difesa della Patria scevri d'ogni retorica militarista, consapevoli del giuramento di fedeltà prestato. Al generale Pesce, già Sottocapo di Stato Maggiore dell' Aeronautica Militare, va il nostro ringraziamento per aver contribuito con le sue ricerche, le sue testimonianze e gli scritti a mantenere vivo e documentato il ricordo di Giuseppe Cenni, a sessanta anni dalla costituzione del 102° Gruppo. Un lavoro prezioso che ci aiuta a trasmettere ai neo-assegnati quei valori di amor di Patria, di onesta, di disciplina che costituiscono l'unica motivazione per continuare nonostante i mille sacrifici e le molte difficoltà che costellano il nostro lavoro. L'entusiasmo con cui egli ricorda gli anni passati allo Stormo e la commozione che spesso manifesta nel parlare di Cenni, fanno capire a noi più giovani che vale la pena continuare con immutato Spirito di Corpo, perchè 5° e 102° non sono solo due numeri ma esprimono una comunanza di ideali, di passioni, di sentimenti che, al di la degli anni e delle generazioni, ci fanno sentire migliori. Valzer! Il comandante del 5° Stormo "G. Cenni" Col. pilota Roberto Azzolin -
Quaderno di cultura aeronautica
Dave97 ha risposto a Dave97 nella discussione Libri & Riviste Aeronautiche
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Ed eccola la rivista in formato magazine Dal 69 ai primi anni 70' Sempre per la serie : curiosità Una pubblicità della McDonell Douglas
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Manuali di volo degli aerei
Dave97 ha risposto a maverick13 nella discussione Libri & Riviste Aeronautiche
E’ incredibile quello che certi appassionati riescono a collezionare. Più che manuale lo definirei enciclopedia , visto che trattasi di ben 11 volumi. 1 Generalità sul velivolo 2 Impianto combustibile ed impianti vari 3 Reattore ed accessori 4 Regolatore elettronico del reattore 5 Impianto idraulico “Utenze Generali” 6 Comandi di volo 7 Impianto elettrico 8 Strumenti ed Autopilota 9 Radio – Comunicazione e navigazione 10 Armamento ed apparecchiature elettroniche 11 Dati sui collegamenti elettrici -
Picchiatelli alias gli Stuka Italiani
Dave97 ha risposto a Dave97 nella discussione Velivoli Storici
UN GIORNO DELL'ESTATE DEL 1943 Ultimata la scuola di secondo periodo di pilotaggio, venni trasferito all'aeroporto di Lonate Pozzolo, agli Stuka. Vi giunsi il 16 giugno 1943 e il giomo successivo, dopo due voli dimostrativi con il «Cr. 42», decollai con lo Stuka, il tuffatore tedesco,venendo conquistato a poco a poco da questo aeroplano. Feci un addestramento intensissimo, con lancio di bombe da esercitazione sul poligono e, dopo venti giorni, venni assegnato alla 237a squadriglia tuffatori distanza all'aeroporto di Ampugnano (Siena). Cominciavo ad avvicinarmi alla zona di combattimento e ne ero felice. Vi giunsi il 7 luglio, e il 10 mattina feci il passaggio sullo Junker 87 D3, detto "Dora" . Ero sceso da poco dal nuovo aereo quando giunse l'ordine in linea di volo di trasferimento della squadriglia a Gioia del Colle (Bari). Gli anglo-americani avevano iniziato, infatti, l'attacco alla Sicilia. La mia squadriglia faceva ora parte del 121° Gruppo tuffatori, al comando del Maggiore Orlandini. Giorno 12 luglio 1943. Il Maggiore Orlandini scelse cinque piloti oltre a se stesso; ricordo il Tenente Marcoccia, il Sottotenente Poggioli, il Maresciallo Galletti. Essendo disponibile un settimo apparecchio, mi offrii di partecipare all'azione di attacco al naviglio nemico che si trovava nella rada di Augusta. Venni accettato. Il comandante ci indicò la rotta, il metodo di attacco alle navi e alle ore 11.55 partimmo, diretti verso l'Etna per l'appuntamento con la caccia di scorta, che però non si vide. Lo spettacolo dell'isola siciliana, immersa in un mare verdastro, era meraviglioso e dalla quota di oltre quattromila metri si ammirava la costa verso Palermo e Catania e lo stretto di Messina, che si incuneava come un grande fiume fra le estreme propaggini della costa calabra e la zona di Capo Faro. Benché senza scorta, ci metteremmo in rotta verso Augusta. Pilotavo l'ultimo aereo della formazione, e mi beccai subito e in pieno l'attacco della caccia avversaria che proteggeva la flotta d'invasione, la quale stava mettendo in mare centinaia di zatteroni da sbarco. Virammo verso il centro della rada, e, seguendo la squadriglia, mi gettai in tuffo su una grossa nave mercantile, senza azionare i freni aerodinamici per rimanere il minor tempo possibile sul bersaglio. Tolsi la sicura alla bomba e alle mitragliatrici in caccia e mi misi a sparare sul ponte della nave, alla quale mi avvicinavo e che ingrandiva a vista d'occhio. Quelli di sotto sparavano come indiavolati con un tiro molto preciso, perché vedevo che i proiettili mi esplodevano intorno, e sempre alla mia quota. Traguardavo la nave al centro del collimatore e sparavo durante il tuffo a novanta gradi. Pensavo: questa non mi può sfuggire. Le vampe prodotto dalle mie mitragliere alari mi rincuoravano, dandomi un senso di protezione. A un certo momento sentii suonare la sirena; l'altimetro segnava duemila metri di quota, al di sotto dei quali si innalzavano i palloni frenati. Sganciai la bomba e iniziai la richiamata; avevo raggiunto nel tuffo una velocità di oltre cinquecento chilometri e mi parve di essere addirittura schiacciato dalla accelerazione di gravità Sei «Spitfire» mi si misero alle costole, decisi a farmi fuori. Venni preso da una rabbia cieca, sentendomi tallonato come un ladro dai cani poliziotti. Un caccia mi attaccava dalla destra a non più di cento o duecento metri di distanza; scorsi il pilota quasi in viso; gli virai addosso e sparai. Non posso dire se lo colpii o no; l'inglese mi si gettò sotto e sparì nel gran vuoto che avevo sotto di me. Intanto, da dietro, mi sparavano e, oltre che sentirle, vedevo le raffiche avversarie colpire le ali; la carlinga dietro all'armiere, il timone, i piani di coda erano già ridotti peggio di un colabrodo. Ma lo «Stuka», apparecchio particolarmente robusto, volava ancora. Per cercar di evitare questo tiro al bersaglio, mi tuffai nuovamente, sino a una quota bassissima, sull'acqua, mentre il mio armiere, il bravo Rimoldi, rispondeva al fuoco nemico con le armi in torretta. Vedevo lontano il massiccio grigio-scuro dell'Enta, e puntavo verso nord, con l'intenzione di atterrare a Reggio Calabria. A un tratto sentii una raffica sulla testa; mi entrò in fusoliera attraverso la capottina e mi ruppe vari strumenti, ma il motore funzionava ancora, e io continuavo la corsa quasi disperata con gli occhi fissi al mare. Sentii la voce dell'armiere che, per mezzo dell'interfonico, mi avvertiva che le sue mitragliatrici si erano inceppate. Gli risposi di cercare di disincepparle al più presto, altrimenti ci avrebbero certamente fatto fuori. Vi riuscì, sentii sparare una raffica contro uno Spitfire che si era messo in coda troppo vicino. Si incendiò e con la maggiore velocità ci oltrepassò sulla destra, infilandosi in mare d'ala. Il nostro grido di gioia venne, però, subito stroncato da un colpo di cannoncino che, attraversando letteralmente il motore, colpì il circuito dell'olio e dell'acqua. Lasciavamo un fumo nerastro in coda; la pedaliera si mise a vibrare pazzamente, il motore a scoppiettare, i giri a diminuire. Era la fine del nostro magnifico apparecchio! Vidi una fiammata sotto la manetta del gas, e un principio d'incendio sulle ali pericolosamente vicino ai serbatoi della benzina. Il mare, intanto, si avvicinava, e forse era la nostra sola salvezza, non essendovi più la quota disponibile per il lancio con il paracadute. Ordinai all'armiere di sganciare la capottina e di slacciarsi le bretelle. lo pure con la sola mano disponibile, cercai di fare altrettanto. La quota era di circa cento metri e planavo irrirnediabilmente sul mare. Impugnai la cloche con la mano sinistra, mi puntellai con la destra sul bordo anteriore della carlinga; l'acqua era lì, sganciai tirando la leva di comando alla pancia; sentii un violentissimo colpo all'occhio sinistro e mi trovai capottato sott'acqua dentro la carlinga. Il mare si tingeva di rosso per il sangue che mi sgorgava copioso dalle ferite all'occhio. Lottai disperatamente contro il salvagente che mi teneva a galla a testa in giù nell'interno della fusoliera e contemporaneamente avevo la pretesa di prestare soccorso al mio armiere, credendo che fosse rimasto intrappolato nella carlinga. Quando già stavo per rimanere senza aria, riuscii a liberarmi e con violenti colpi di tallone venni alla superficie. Il cielo era stupendamente azzurro, e il mare leggermente mosso. Feci appena in tempo a respirare profondamente e l'aeroplano, riempitosi di acqua, si inabissò producendo un gorgo di spuma con infinite bolle d'aria che continuarono a venire alla superficie. Mi sentii tirare per i piedi ma rimasi a galla; ora il salvagente era provvidenziale. A dieci metri circa di distanza da me, il mio armiere, con un solo graffio insignificante in fronte, stava armeggiando intorno al battellino pneumatico per aprirlo, battellino che era volato in mare insieme con lui nel momento della cappottata dell'aereo. Raggiunsi con alcune bracciate il battellino aperto e vi salimmo entrambi. Erano esattamente le ore 13.26, segnate dal mio cronometro, che si era fermato al contatto dell'acqua salata. Distanza dalla costa circa trenta chilometri ed eravamo vivi. Ci medicammo, fumammo, mangiammo qualche biscotto col cioccolato e a turno remammo per ore e ore. La costa si ingrandiva, ma rimanendo sempre lontana. Vedemmo delfini a branchi, navi e combattimenti aerei. Quando il cielo fu tutto nero per la notte vicina, ci raggiunse una motozattera tedesca che aveva visto un nostro razzo e ci prese a bordo. Il ponte ci sembrava estremamente solido, e l'accoglienza fu fraterna. Dopo tre giorni per viaggi in mare, autoambulanza e treno, raggiungemmo il nostro Gruppo che continuava a spostarsi di aeroporto in aeroporto. Qui l'accoglienza per noi due, considerati morti più che dispersi, fu calorosissima. Appresi che avevamo affondato un grosso mercantile di ottomila tonnellate, e che l'affondatore dovevo essere stato io perché il maresciallo Galletti che mi precedeva nel tuffo, e che aveva sganciato la bomba sugli zatteroni da sbarco, dichiarò che, dopo lo sgancio dei primi cinque, non aveva visto nessuna nave colpita. Mi venne poi concessa una Medaglia d'argento. Desidero ricordare alcuni nomi di giovani colleghi piloti per onorame la memoria. Il Sottotenente Poggioli di Modena, abbattuto nella mia azione, e il Sottotenente Calzoni di Bologna, abbattuto fra altri nell'azione del 13 luglio. Aeronautica Settembre 1992 -
Il mattino presto arrivo all'aeroporto, all'ingresso sono di guardia un tedesco ed un carabiniere per impedirne il saccheggio, come invece ho già visto fare sui treni merci. Il carabiniere mi riconosce e mi lascia andare nell'ufficio di squadriglia dove recupero dei documenti tra cui anche molti libretti di volo preziosi per i piloti e nel contempo li consegno ai legittimi proprietari. Non ho notizie dello Stormo partito per la Calabria, nessuno è rientrato; forse è rimasto con il 4° Caccia. Dalla finestra al primo piano della palazzina di comando vedo il muso di un S79, il "Gobbo", che sporge da un paraschegge. Subito mi sopraggiunge un' idea, dato che il militare in regime di armistizio deve consegnare le armi e non abbandonarle, posso prendere l' S79 e portarlo su un aeroporto alleato per poi bruciarlo: avrò così consegnato le armi! Esco dall'aeroporto, sulla Salaria c'e tanta gente, ed incontro Sbrissa il motorista che mi ha accompagnato nel recente volo a lesi, lo rendo partecipe delle mie idee e gli propongo il furto dell'S79; non può essere lasciato ai tedeschi: ricevo un rifiuto che non ammette dubbi. Proseguo nel mio passeggio tra la folla quando incontro un Tenente del 45° Stormo: Rodolfo Venturini è di Ciampino, è fuori zona e sicuramente ci sarà un motivo. Iniziamo a parlare in modo molto evasivo di tante cose, nessuno di noi due vuole scoprirsi, poi in modo apparentemente casuale l' argomento finisce sull' S79 situato a fondo campo. I discorsi si fanno sempre più specifici riguardo il buon funzionamento dell' aereo e sulla scelta del personale di bordo; occorre trovare un motorista molto svelto, perchè i tedeschi non fanno complimenti, ammazzano. Inoltre su suggerimento tedesco, è stato emanato il Bando del Conte Calvi di Bergolo che ordina di consegnare le armi a chi ne sia in possesso e l'S79 è ben fornito di mitragliatrici e di nastri di munizioni. Questo rappresenta un ulteriore impedimento per il nostro piano. Rodolfo poi si accerta se io sono ancora abituato a portare il trimotore, perchè lui è gia da un anno che non vola più; al termine della nostra conversazione ci lasciamo con il compito di reperire il motorista dandoci appuntamento per l' indomani mattina. Coinvolti dall'impeto organizzativo abbiamo commesso un'imprudenza facendo partecipare ai nostri discorsi altra gente che non conoscevamo, credendoli ognuno compagni dell' altro. Non posso rischiare di tornare nel mio alloggio, non si sa mai. Decido di andare a casa di Antonio Mario Gosi, dove suono ripetutamente ma senza ottenere risposta. Solo due anni dopo imparerò che era in preda ad un forte attacco di malaria. Mariucci e Dellino sono fuori con lo Stormo. Provo allora da Gelindo de Bellis che mi accoglie fraternamente nel suo alloggio abbondantemente rifornito di viveri pregiati, che gli manda la fidanzata temendo che con i sacrifici di guerra egli si indebolisca. Gil, come lo chiamiamo noi, dopo un' ottima cena ed un' abbondante bevuta, è entusiasta dell'impresa soprattutto immaginando la faccia dei tedeschi nel vedere un grosso aereo che scappa loro da sotto il naso. Al mattino presto del giorno seguente mi dirigo al luogo dell'appuntamento, dopo aver tentato più volte ed inutilmente di svegliare il mio compagno di sorte. Venturini, che trova sempre tante porte aperte, ha contattato il Maggiore Moci, oggi Generale di squadra, uno dei grandissimi dell' aeronautica, un asso che ha compiuto imprese clamorose sia in pace che in guerra. In tutto siamo quattro: un equipaggio completo. Sulla Salaria c'e ancora troppo silenzio, attendiamo ancora un po' prima di attraversare il canneto del fiume per avvicinarci pian piano all' S79. Faccio un cenno a Rodolfo per avere informazioni sugli altri due uomini dell'equipaggio: il motorista M.llo Toscano è bravissimo, riesce a giocare con i motori e a farsi ubbidire completamente. Il quarto Ten. Zoppi, è un ottimo marconista. Verso le otto la Salaria si è animata con il rumore che ci occorre. E’ il momento: o la va o la spacca! I tre motori, anche se esposti alle intemperie da chissà quanto tempo, rispondono al magico Toscano e si mettono in moto quasi contemporaneamente, non c'e infatti tempo per riscaldarli. Il Maggiore Moci alla guida dell'aereo con tutto freno e manetta in pieno, salta fuori dal parcheggio come una furia e punta due camionette armate che per la sorpresa e la paura di questa belva scatenata non sparano un solo colpo. Dalla nostra posizione, ancora distesi a terra ci guardiamo in faccia, è andata bene; c' e solo il problema dei distintivi dell'aereo perchè sono già passati otto giorni dall'armistizio ed ora possono attaccarci sia i tedeschi che gli alleati. Li abbiamo tutti contro. Il Maggiore vola dentro le valli e le gole dell' Appennino, ne trova una chiusa e con l' S79 in piedi, al limite dello stallo supera a pelo il passo, facendo acrobazie tali che se ci fossi stato io ai comandi, sarebbero stati guai seri. E la benzina? I televel che indicano il livello di carburante sono stati strappati da un imbecille che almeno si spera abbia combattuto per la patria. Sorvoliamo il porto di Taranto occupato da una distesa di navi fino all'orizzonte, pronte a far fuoco, sull'S79 che, conosciuto come silurante, verrà sicuramente attaccato. Sarebbe un peccato; è andata bene fino adesso e non riesco a rassegnarmi all'idea di un'eventuale sconfitta. Ma il Maggiore, uomo abile anche nei casi disperati non demorde e dispone l'aereo, come dicono gli americani, "per pali" a otto o dieci metri da terra seguendo, appunto, i pali dell' elettricità fino a Lecce. L'aeroporto di Galatina è a pochi chilometri da Lecce ed essendo molto grande è pieno di aeroplani italiani. Un paio di giri e riconosco sul piazzale vicino a un hangar un Maresciallo che fa gesti amichevoli, segnalo in cabina che possiamo atterrare e l' S79 docilmente appoggia le ruote al suolo e sempre con i motori in moto si ferma in mezzo al campo; in velocità arriva una camionetta guidata dal Cap. Gigetto Buzzanca, silurante con Moci. Tutto a posto, possiamo scendere. Sono le dieci e venti del 16 Settembre del 1943 e così sarà scritto sul mio foglio di viaggio per Iesi. Dalle prime notizie gli alleati stanno dilagando per ogni dove; forse stanno già sbarcando ad Anzio nel Lazio,ormai è solo questione di giorni e tutto sarà finito. La mia non è stata una scelta: per il Nord o per il Sud, a favore del Re o della Repubblica Sociale. Finisce tutto e presto e mi vedo finalmente a casa con la mia famiglia, mia madre, il mio lavoro e con l'eterno ricordo degli amici fraterni che sono caduti combattendo per l' onore e la dignità del soldato italiano. Illuso è colui che crede che ora tutto finisca. Non immagina che cominciano i ventidue mesi più terribili e dolorosi di tutta la guerra. Fulvio Setti Sulle Ali del Coraggio
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L' armistizio dell' 8 Settembre è una giornata di guerra come le altre. Il proclama di Badoglio è letto alla radio alle ore venti. In quel giorno ricevo l' ordine di trasportare dalla Marcigliana a Iesi un S/82 che è stato molto maltrattato durante un volo notturno: a bordo solamente pilota e motorista, paracadute sulle spalle e pronti a saltar fuori. Sono a Roma in piazza Esedra di buon mattino per prendere l' autobus che mi deve trasportare in aeroporto. Con mia sorpresa noto che gli autobus sono parecchi e già carichi di ufficiali e sottufficiali piloti. Il 44° Stormo al quale io appartengo deve partire al completo per la Calabria, per Castrovillari, credo per trasferire un po' più al sicuro il 4° Stormo Caccia; a Reggio Calabria però ci sono già gli Spitfire che si guardano in faccia. Un intero stormo di S/82 che vola verso la Calabria certamente viene notato e localizzato dai radar inglesi che subito manderanno gli spitfire ad incontrarlo e sicuramente non sarà un bello spettacolo. Scherzo con gli amici, la mia missione, a parte l' aereo che sballa in volo, è piuttosto facile, mentre loro devono volare in ampia formazione correndo il rischio di buscarle di santa ragione. Verso le undici sono a lesi, il volo è stato piacevole e senza complicazioni. A mezzogiomo ho già fatto le consegne e con Sbrissa, il motorista, siamo in stazione, io vado al nord per Modena e Sbrissa a sud per Roma. A Bologna la coincidenza per Modena mi lascia il tempo per cenare. Alla radio viene annunciato l'armistizio di Badoglio. Nella trattoria dove sto mangiando c'e un'esplosione di gioia; io ammattisco e prendo la sedia in mano come usava una volta nelle vecchie osterie, ripensando a tutti quei giovani morti o mutilati per nulla. Gli altri ospiti non reagiscono, accettano la mia mattana; avrebbero potuto restituirmi con abbondanza le botte date alla sedia, ma alla fine butto un po' di soldi sul tavolo e rientro in stazione. Tre ufficiali tedeschi se ne stanno in disparte, smarriti, ci salutiamo come gente civile. A Modena, mentre i miei sono ancora a Sestola, mi faccio insegnare dal segretario politico del rione come ascoltare Radio Londra; non dice niente di speciale. Al mattino presto del nove, in divisa entro in stazione per prendere il primo treno che va a Roma ma il capo stazione, che mi conosce, mi fa entrare a forza nel suo ufficio e mi informa che non ci sono treni in partenza segnalandomi dove i tedeschi hanno piazzato delle mitragliatrici e spiegandomi che stanno catturando gli ufficiali italiani. Esco di nascosto dal suo ufficio e rientro a casa mia. Le notizie di "radio fante" avvertono che gli aeroporti di Bologna e di Reggio sono sotto il controllo tedesco. Sono in foglio di viaggio ed in ritardo già di un giorno, devo assolutamente raggiungere il mio comando a Roma. Trovo un rimedio, decido di puntare all'aeroporto di Pavullo dove sicuramente ci sarà un aeroplanetto che mi consentirà di rientrare al Corpo. A Pavullo il comandante Col. Balestracci, con saggia precauzione, ha reso inefficienti tutti gli aerei. A questo punto mi rivolgo a lui: "Sono in missione, mi dia degli ordini scritti sul foglio di viaggio, alla presenza del Cap. Malacame." "Abiti qui a trenta chilometri, sei fortunato. Vattene a casa immediatamente!" Mi risponde il comandante. La sera del 9 settembre sono in famiglia, in villeggiatura con mia moglie ed i miei figli, è finita. Nonostante tutto le notizie non sono buone e peggiorano, ho il foglio di viaggio in tasca, mi brucia. Penso e ripenso che mi sento un disertore proprio all'ultimo giorno e non posso accettarlo. Il pomeriggio dell'undici, Alberto e Giuliana, i miei due bambini, giocano con la mia bicicletta facendo girare i pedali, involontariamente mi danno un suggerimento: Fulvio pedala! Saluto mia moglie, lascio i pochi soldi che ho e ... prendo la bicicletta; Roma è lontana ma non irragiungibile. In quei giorni tutti sono buoni, un pezzo di pane ed il permesso di passare la notte nel fienile nessuno lo nega. Raggiungo Firenze, la stazione è circondata dai tedeschi e all'interno tanti nostri militari; mi tengo alla larga perchè l' età e il taglio dei miei capelli rivelano chi sono. Di tanto in tanto mi avvicino a qualche stazione senza nessun esito; solo verso Roma trovo un piccolo convoglio ancora in servizio, che è addirittura provvisto del bagagliaio per la bicicletta. La sera del 14 sono a Roma, ma la bicicletta non c'e più, me l'hanno rubata. Fulvio Setti Sulle Ali del Coraggio
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Ho un'altra missione da compiere, devo trasportare cavi e materiale elettrico all' aeroporto di Fontana Rossa, a Catania. E’ come andare in bocca al lupo, sembra infatti che un incrociatore alleato sia già in rada davanti alla citta e Gerbini sia occupata. Ritardo la partenza da Roma per poter arrivare alle ultime luci; l' aeroporto è deserto, la pista in cemento è intatta, brutto segno perchè farà comodo agli alleati per il prossimo sbarco. Scarico alla svelta e telefono dal corpo di guardia al Comando di Catania per informare su che genere di materiale ho scaricato e per ricevere eventuali ordini; la risposta è di attendere; deve arrivare un personaggio dalla città. Aspetto, ma quella pista intatta mi da fastidio, gli occupanti possono atterrarvi da un momento all' altro e prendermi come un pollo. Ritelefono ma la risposta è sempre la stessa. Basta, è mezzanotte; unico essere vivente al corpo di guardia ad eccezione di noi dell'equipaggio, è un canarino nella sua gabbietta, viene caricato anch' esso a bordo da Stauder il nostro marconista. Motori in moto, decollo; mi tengo tutto a sinistra per evitare il monte Sila in Calabria; a Messina c' e un bombardamento aereo, l' antiaerea spara razzi illuminanti e le bombe piovono alla grande, io ci sono in mezzo. Fuori dallo stretto la luna tramonta dietro lo Stromboli, fra mezz'ora avrò buio totale e nubi basse. Superati questi ostacoli, se mi tengo sul mare fino al Circeo non avrò preoccupazioni, poi si vedrà; in ogni caso traccio la rotta in ginocchio nella fusoliera con Brandi che mi regge una torcia per vederci, nel frattempo il marconista chiama la radio di Ostia Lido, una stazione potentissima, per avvertire del nostro atterraggio a Ciampino, evitando di mettere in allarme l'antiaerea e tutta Roma per l'arrivo alle 2,30 di notte di un aereo da loro non previsto. Ostia Lido non risponde, Stauder insiste, nessun segnale; solamente all'indomani saprò che a mezzanotte Ostia Lido stacca, chiude e va a dormire. Non c'e altra radio cui appoggiarmi; e chi è in volo di guerra? Si ????????????! Per poter intravedere qualche cosa devo tenermi sotto le nubi che però sono molto basse; il Circeo ed i Colli Albani sono la che mi aspettano per una collisione ed io non ho ancora intenzione di sbatterci contro; continuo quindi a tenermi sul mare. Alla cieca, con l'aereo che viaggia a 250 km all'ora sento il bisogno di scendere per chiedere informazioni ma non si può, il regolamento lo vietata! Non mi resta che spaccare la rotta, con le diverse correzioni e calcolare il tempo di volo con precisione cronometrica. Con l'assistenza di Ostia Lido sarebbe stato un gioco da ragazzi: subito pieno mare per evitare le colline o i montarazzi delle isole sul percorso; con il goniometro di bordo, il mio bravo marconista Stauder mi avrebbe rilevato le varie posizioni e vicino a Roma con bussola nord, avrei atteso il traverso dalla stazione radio. Dalla velocità con cui Stauder varia il rilevamento sento che siamo vicini, ottanta gradi sulla destra, ottantasei, ottantasette stringo, un bel viratone contro il Lido e becco la stazione in prua perfetta. Ho Ostia Lido in mano e come il rilevamento salta di 180 gradi, anche se non vedo nulla, so di essere sulla sua verticale e per Ciampino è un gioco: sono a casa. Ma Ostia Lido ha chiuso, riposa, non mi resta che la soluzione del paracadute, siamo paracadutisti improvvisati in piena notte, sparsi nella campagna romana e ormai è questione di un minuto o due al massimo per l'ordine di saltare fuori. All'improvviso di prua si accende un sentiero luminoso: è Ciampino. Hanno riconosciuto la voce dell' SM 82 ed a causa dell'oscuramento hanno atteso che io fossi molto vicino e pronto per l' atterraggio. Navigazione perfetta, precisa al minuto, con tre ore di volo; è andata bene anche per i miei uomini non molto entusiasti di dover scendere con il paracadute in piena notte. Con un grosso sospiro di sollievo appoggio le ruote a terra, ora non ha importanza neanche il ritardo notevole dell'automezzo che ci deve portare tutti e cinque più il canarino, in città al corpo di guardia. Fulvio Setti Sulle Ali del Coraggio
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Il cerchio si stringe. Il 22 Giugno ricevo l'ordine di portare materiale all'aeroporto di Sigonella a Catania, materiale importante per la difesa. Parto subito nel primo pomeriggio per poi rientrare in serata a causa degli abbondanti bombardamenti aerei sempre in atto da quelle parti. Dopo aver finito di assaporare, con il sole dalla parte giusta, la bellezza incantevole del Golfo di Napoli e della costiera amalfitana, accorgendomi di essere troppo alto, decido di ridurre la quota. Proprio in quell'attimo, da sotto parte una grossa raffica che termina appena davanti al muso del mio apparecchio e subito dopo vedo sfrecciare un bimotore da caccia inglese con un forte armamento ad una velocità superiore ai 600 km/h: è un Mosquito. Mi ha sbagliato di poco, la mia bassa velocità di crociera, 250 km/h, l'ha tratto in inganno ed ha sparato troppo avanti. Ora è più alto di me, gira largo e ritorna frontalmente all' attacco; come unica soluzione per difendere la cabina sono costretto a girargli il muso contro, in quanto il motore centrale, uno stellare centoventotto Alfa Romeo, mi può aiutare ad incassare gli eventuali colpi. Il Mosquito che non si aspetta questa mossa è obbligato improvvisamente a cambiare rotta per evitare uno scontro frontale, che avrebbe trasformato i due aerei in un unico falò. Brandi, il mio bravo armiere, anche al secondo attacco non riesce a sparare, mentre Binotto, il mio secondo, mi segnala che il Mosquito sta di nuovo arrivando sul traverso da destra: a questo punto non so più cosa inventare e rimango fermo ad aspettare. Forse mi crede disarmato e vuole venire a constatare da vicino. Brandi, il marpione, lo lascia avvicinare fintanto che non raggiunge la giusta distanza per scaricargli addosso la 12,7 senza fare economia di colpi; anche il Mosquito ha sparato tentando di difendersi, mi passa sopra per poi perdere di quota e volare verso terra. Quando sono sicuro che desiste dal combattimento, punto all' aeroporto di Monte Cervino, devo assolutamente verificare quali danni ho subito da questo attacco. A bordo, nel primo sedile a ridosso della cabina, c'e il Col. Fernando Mariani, comandante del 142° Regg. Costiero in Sicilia, era nella guerra 1915-1918 con l'attuale nostro comandante Generale Matricardi, ha seguito con interesse e fermezza le varie fasi del combattimento. A Monte Cervino constato che i danni subiti non sono gravi: ho incassato quei colpi che entrano ed escono dalla fusoliera. Il motorista mi informa che il colpo più serio ha attraversato la cabina incendiando un pacco di sigarette "Africa" situato sul cruscotto e per timore di guai più gravi le abbiamo gettate in mare. Brandi mi riferisce di aver colpito il Mosquito con la sua lunga raffica e, senza più avere la speranza di poter rien¬trare in Tunisia, l'aereo nemico ha dovuto scegliere la costa italiana. Ci siamo esaltati tutti cinque per un Mosquito che con ogni probabilità è stato abbattuto e se saremo in grado di dimostrarlo ci sarà un riconoscimento per l' equipaggio di cinquemila lire, somma enorme per quei tempi. Faccio preparare il battellino di bordo da lanciare al naufrago, imbarco anche un Tenente pilota della caccia Egeo Malagoli, che deve presentarsi a Gela, munito di macchina fotografica per documentare l' eventuale ritrovamento del pilota dell'aereo abbattuto in prospettiva del conseguimento del premio. A causa del trambusto e dell'agitazione per il combattimento, commetto uno stupido errore; vado infatti a cercare il naufrago nel luogo dove ci siamo battuti anzichè cercarlo sotto costa, dove probabilmente è precipitato l'aereo nemico, zona che si consiglia di non frequentare perchè infestata dai Mosquito. Non trovo nulla e proseguo il volo allargo in pieno mare, destinazione Sigonella dove arrivo verso le sei del pomeriggio impiegando quasi quattro ore per questa attraversata. Il primo impatto avviene con un Capitano, che mi riempie di improperi perchè il mezzo che porta il personale in città è in attesa del mio arrivo. Se fosse un pilota capirebbe che da Ciampino a Sigonella non ci vogliono quattro ore e che su questo percorso sono poche le osterie. Chissà chi è; indossa una divisa simile alla mia. Nessun bollettino ha annunciato questo combattimento, quindi non faccio la relazione anche perchè sarei obbligato a consegnarla al Capitano "cafone" e non ho voglia di dare spiegazioni. Consegno solamente il materiale ed il verbale per le sigarette gettate a mare. Il giorno dopo rattoppo con mezzi di fortuna i fori procurati dal Mosquito e sono pronto a rientrare alla base. Nel frattempo arriva l'aereo comandato da Nino Ferrante e mi dice che sotto Salerno, sul bagnasciuga, ha visto emergere dal mare la coda inconfondibile di uno Spitfire; anche il Mosquito però ha la stessa coda, probabilmente lo abbiamo abbattuto veramente. Circa un mese dopo, il Generale Matricardi, furioso, convoca il Colonnello Morino; ha ricevuto una lettera di un suo amico bersagliere della guerra 15-18, il Col. Mariani, che si rallegra per il comportamento coraggioso di un pilota del S.A.S. che durante un combattimento contro un bimotore inglese con decisione ha costretto l'avversario a desistere. Il Col. Morino al rientro allo stormo mi mette agli arresti dopo avermi strapazzato per bene poichè ne lui ne il Gen. Matricardi erano stati informati dell'accaduto; subito dopo però ripensando a quanto successo ,Matricardi mi toglie la punizione. Il Col. Mariani è convinto di avermi fatto un bel servizio scrivendo ai miei superiori la sua apprezzabile lettera.
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Introduzione Che cosa sanno i giovani specialmente, dell' aviazione italiana nella Seconda Guerra Mondiale, al di là delle poche nozioni manualistiche, e soprattutto di noi piloti del S.A.S. che abbiamo combattuto con dignità e sacrificio talora eroico, senza odio, senza pose gladiatorie, senza recriminazioni e con l'amarezza dell'esito finale? Leggiamo vicende di Americani, Russi, Giapponesi: del grande Saburo Sakai, l'unico soldato dell'lmpero del Sol Levante promosso ufficiale dall'imperatore in persona, o di Marseille, l' asso tedesco morto in Africa mentre combatteva al nostro fianco. Un giovane scrittore anglosassone utilizzando i diari storici inglesi e tedeschi ha scritto un libro: "I cacciatori nel deserto"; ma in questo libro non vengono mai citati gli aviatori italiani che hanno combattuto in Africa Settentrionale dall'inizio del '40 alla fine del '43. L' Aeronautica Italiana non viene riportata in nessun testo; solo qualche parola di sfuggita, in sordina, quasi si ignorasse la vera nostra partecipazione. L'idea di raccontare le vicende da me vissute, con un interesse ben superiore a quello personale, era presente già da quando, ricoverato in clinica in punto di morte, mi si affacciavano con insistenza i momenti più significativi vissuti come aviatore e provavo il rimorso che una pagina, non della mia, ma della nostra storia non fosse mai stata scritta. Ed eccomi qui, quindi, a narrare, così "alla buona" come in una conversazione tra amici, le mie vicende più significative seguendo quà e là la traccia del mio vecchio libretto di volo. La convinzione che tutto ciò non servirà a niente è grande, ma se ci sarà qualcuno che vorrà leggere quanto io ho scritto si convincerà che si può anche fare la guerra aiutando con sacrificio e coraggio. Fulvio Setti nasce a Modena il 16 Febbraio del 1914. Fin da giovanissimo dimostra una notevole predisposizione per l' attività sportiva che lo porterà ad indossare la maglia azzurra nella Nazionale di atletica leggera e lo farà diventare nel 1933 Campione d'Italia nella categotia dei 110 ostacoli. Parallelamente alla vita sportiva dimostra interesse anche per le attività di volo e sempre nello stesso anno consegue il brevetto di pilota civile all' Aereo Club di_Modena ed un anno dopo quello di pilota militare alla Malpensa. Viene congedato dal servizio militare con il grado di Sottotenente pilota e nel Gennaio del 1942 viene richiamato con la nomina a Tenente Pilota presso il S.A.S. (Servizi Aerei Speciali) nel 440 Stormo T compiendo 220 voli di guerra. Abbattuto 3 volte, viene decorato con Medaglia d' Argento e Medaglia d'Oro al Valor Militare ed insegna d'oro nella specialità Trasporto. Nel Maggio del' 46 viene congedato. Il 19 Marzo del 1991 il suo cuore cessa di battere lasciando un vuoto incolmabile e tanta tristezza tra amici e parenti per la perdita di un uomo così sensibile e generoso.
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Ah! oggi faccio un bel giro con il mio F-100
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Ed eccola uno foto Curiosa!