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E' facile prevedere che coloro i quali si accosteranno per la prima volta a questo genere di lettura verranno presi vivamente dalle vicende e dalle testimonianze raccolte nei venti sei racconti di "Uomini e macchine nei cieli". Giorgio Evangelisti in questa sua ultima fatica offre la sua esperienza di storico aeronautico al grande pubblico per presentare in modo facilmente accessibile episodi, fatti e realtà che abbracciano in pratica tutto il panorama della storia del volo. E' una risposta che egli sente di dover dare alle molte sollecitazioni raccolte e che concretizzano questo riuscito tentativo di portare le esperienze umane, professionali, della tecnica e della tecnologia, che hanno reso, e rendono, grande e affascinante la storia del volo. Evangelisti con la sua tradizionale competenza ed efficacia, parte, nel suo percorso attraverso il tempo, dalla vicenda del conte Francesco Zambeccari e Vincenzo Lunardi che, negli anni 1780, in Inghilterra, si contesero il primato delle ascensioni con il più leggero dell' aria. Illustra quindi la curiosa storia di Filippo Monti che lasciò nel 1910 la città di Bologna in attesa di un volo che mai avvenne, le gesta aviatorie che videro protagonisti Gabriele D'Annunzio, Prospero Freri, Carlo Del Prete, Auguste Piccard, Igor Sikorsky, e storie, autentiche, che già i soli titoli rendono interessanti come "L'aquila americana mise le prime piume in Italia", "La tragedia dell' I-LAMA" "Come la Bismarck fu preda della Home Fleet". Ma Evangelisti offre anche esempi di corali realtà aeronautiche che hanno già propri capitoli di storia come "Le Frecce Rosse Inglesi" "Quelli di Rivolto" "Li chiamano Angeli Blu" "Gli uccelli del tuono dell' Aeronautica Militare". Come di consueto il volume è arricchito da fotografie, per la gran parte bianco-nero e particolarmente appropriate, alcune addirittura rare, che con il corredo di didascalie sempre puntuali vivificano l'interesse e il piacere della lettura. Da segnalare che la prima di copertina del volume riproduce l'opera "La difesa del cielo d'Italia", olio su tela, del pittore Allan O' Mill Recensione di Francesco Del Priore Rivista Aeronautica Giorgio Evangelisti UOMINI E MACCHINE NEI CIELI Editoriale Olimpia - Firenze, 1997
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DIARIO DI UN VIAGGIO A RITROSO NEL TEMPO Sul pullman che da Marmaris mi porta ad Antalya osservo il paesaggio. Ho voluto questo ritorno in Turchia ed in Anatolia in particolare. Cinquant'anni fa, esattamente oggi, su questa costa ho vissuto l'avventura di guerra che tanto ha influenzato la mia vita. Il "Libretto Personale di Volo" ritrovato nel bagaglio fatto pervenire alla mia famiglia, a seguito dell'accaduto in questione, recitava come segue: "16-6-1943. Partito alle ore 13,00 per una ricognizione strategica offensiva nel Mediterraneo Orientale non faceva ritorno alla base. Alle ore 16,15 comunicava l'attacco della caccia avversaria". Non ero in turno di volo, quel giorno, e pensavo di dedicarlo al "tutto riposo". Il Comandante di Gruppo, invece, da poco abilitato sul Cant Z "1007 bis", aveva voluto sostituire, per la missione del giorno, il Comandante di Squadriglia anche lui nuovo assegnato al Reparto. Il compito di effettuare la su accennata ricognizione con il Comandante di Gruppo veniva, quindi, affidato al subalterno che, in quell'area operativa, aveva al suo attivo una sessantina di missioni di guerra: e, cioè, a me. Volo tranquillo, nessun avvistamento. Il rientro a Maritza (Rodi) entra nella fase conclusiva. Si punta verso Capo Kelidonia (Turchia), che s'intravede distintamente, per poi dirigere con 270° in prua verso Rodi. All'improvviso, nel cielo, appare la sagoma di un "Beaufighter". In pochi attimi tutto è cambiato. Una brusca affondata mi consente di superare indenne il primo attacco e, raggiunto il pelo dell'acqua, di evitare l'attacco dal basso. Poi, il velivolo inglese, più veloce e maneggevole, si mette in coda. Il volume di fuoco del "Beaufighter" è devastante. Qualche istante ed il motore destro è in fiamme. Il motorista, Mezzabotta, calmo e preciso spegne l'incendio e, con un lieve cenno della testa, mi fa capire che avevamo un motore in meno su cui contare. Sul bordo dell'ala serpeggiano leggere lingue di fuoco e del fumo si arriccia in volute piccolissime, ma ben visibili. Non ci sono alternative: continuare il volo e saltare in aria o cercare di effettuare un ammaraggio e salvare l'equipaggio o chi fosse riuscito a sopravvivere. Scelsi questa seconda possibilità. L'ammaraggio, mai provato prima e con un velivolo terrestre, riesce perfettamente. Sull'acqua, calma e piatta, il velivolo, ora, giace come un grande uccello ferito a morte. L'aiuto motorista Inneguale, al suo primo volo di guerra, giace anche lui senza vita all'interno della carlinga. Accertato che i focolai di incendio si sono spenti, i superstiti, distribuitisi sulle ali, osservano l'apparecchio nemico che punta, ancora una volta, su di loro. Attraverso la calotta si intravede il pilota che calza un caschetto bianco. Un attimo e poi una mano saluta con un gesto lento, mentre, veloce, il velivolo si allontana verso Cipro. La voglia di sopravvivere scatta e si cercano il battellino ed il salvagente. Il battellino è inservibile in quanto forato dai proiettili, mentre mancano due salvagente perduti attraverso lo squarcio creatosi nel "marsupio" al momento dell'ammaraggio. La situazione non è molto allegra. Dei superstiti il marconista Trebbi ha una gamba spezzata; lo scrivente piccole ferite in varie parti del corpo e vaste ecchimosi al viso ed alle gambe; l'armiere Fusco ed il Comandante quasi illesi. Il velivolo incomincia ad affondare ed è urgente andare alla ricerca di aiuti sulla terraferma. Rinuncio ad indossare il salvagente e per primo raggiungo la costa. Alta e discoscesa non offre facili appigli per una scalata di chi, a piedi nudi sensibilizzati fino allo spasimo dalla lunga permanenza in mare, vuole avere un'idea del posto di approdo. Gli sforzi non sono coronati dal successo. Rocce e spine e nessuno insediamento umano in vista. Il ritorno sul bagnasciuga è penoso. Sfiniti dalla lunga nuotata vi giacciono altri due naufraghi. Gli sguardi sono eloquenti. Mi sdraio accanto a loro e resto in attesa degli eventi. Sull'imbrunire alcuni pescatori di Creta che, su una barca, da lontano, avevano assistito al combattimento aereo, ci raggiungono, ci soccorrono e, quindi, ad un paio di chilometri più a nord, ci sbarcano all'astanteria di una miniera di cromo, in località Udbuk, ove, se non ricordo male, i nostri corpi doloranti ricevono le prime cure. Scomparsi in mare, che ci dicono infestato di pescicani, Mezzabotta e Fusco. Una profonda tristezza mi pervade. Sento, di colpo, tutto il peso della tragedia vissuta. Trasportato, assieme agli altri due superstiti il Comandante e Trebbi, a bordo di una piccola imbarcazione turca, scortata dalla polizia, ad Antalya, una cittadina ad alcune ore di navigazione dalla miniera di cromo, ricoverato al locale ospedale civile, ricevetti le prime appropriate cure mediche ed un letto. E per me, pensai, la guerra era finita. Il Fgt. Serg. A.G. Olley, così si chiama il nemico rintracciato, per via epistolare, tanti anni dopo (1971), mi scriverà di avere pensato a lungo a quegli uomini "standing on the wing of the aircraft in the sea off the Turkish coast". Il destino, tuttavia, non è stato benevolo con lui. Da molti anni egli non sta bene e paga il suo tributo di dolore alla guerra, che personalmente non avrebbe voluto, ma che ha combattuto lealmente. Cavalleria della gente dell'aria. Da ieri sera sono ad Antalya. Dalla Porta di Adriano, non molto lontano dalla piazza principale, osservo i luoghi dove ho vissuto per quaranta giorni in attesa della definizione del mio "status". La Turchia per tutta la durata della guerra era rimasta neutrale. Oggi tutto è cambiato. Le case, le strade ed anche la gente mi sembrano diverse. E le cicogne non nidificano più sui tetti come accadeva allora. Un'infinità di ricordi affollano la mia mente, stringono il mio cuore. Ricordi vivi, come se da quei giorni non fossero trascorsi cinquanta anni. E, tra di essi, ecco riapparire ai miei occhi i volti di Inneguale, Mezzabotta e Fusco. Li rivedo con il loro luminoso sorriso. Giovani cui un avverso destino ha concesso solo di vivere una breve stagione… Aeronautica dicembre 1993
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La nuova Luna della Terra 4 ottobre 1957, il sole stava sorgendo su Baikonur, una landa desolata vicina al Lago di Aral. Al centro della rampa, chiuso nella sua incastellatura, completamente verniciato di bianco e illuminato da potenti fotoelettriche, il missile Sputnik-A si ergeva imponente, una sorta di tempio per l'avvio di una nuova era; quel giorno avrebbe rappresentato per l'Unione Sovietica il culmine di anni di studi e le avrebbe permesso di dominare i primi anni di corsa allo spazio. I tecnici della squadra di lancio capeggiati dall'ing. Sergei Korolev, appartenente all'ufficio studi razzi e astronavi OKB-1, erano affacendati tutt'intorno nei controlli finali. Per tutto il giorno piccoli contrattempi costrinsero Korolev ad interrompere il conto alla rovescia. Korolev, instancabile, era dappertutto pronto a dare una mano, un consiglio, un ordine. Tutto doveva funzionare alla perfezione. Verso sera tutti gli inconvenienti furono eliminati. Seduto ad una scrivania, all'interno di una casamatta posta nelle vicinanze, in mano un microfono, Korolev iniziò a scandire il conto alla rovescia. La torre di servizio iniziò ad allontanarsi, i cordoni ombelicali che portavano energia al missile furono staccati. Il sole stava tramontando. Sbuffi di carburante fuoriuscivano dai condotti di sfiato, avvolgendo il missile di cristalli ghiacciati. Illuminate delle fotoelettriche le nubi provocate del gelido carburante davano al missile un'atmosfera surreale. All' interno alcuni meccanismi scattarono, e il vettore prese vita. Il conteggio continuava, udito solo dagli addetti al lancio e da un manipolalo di ufficiali e politici. Gli ultimi secondi sembrarono grevi e palpabili. Una cascata di fiamme si riversò attraverso i condotti di acciaio e cemento della rampa, subito inondati d'acqua per impedire che l'enorme calore sgretolasse l'intera struttura. Nubi di vapore illuminate dal fuoco, circondarono il missile che lentamente si alzava. Un bagliore arancione, accecante, illuminò la sottostante steppa. Accompagnato da un rumore assordante il missile iniziò la sua scalata al cielo, fino allo spazio. Pochi minuti ed il missile scomparve alla vista sopra il Lago di Aral. Korolev non era interessato allo spettacolo del lancio ma dai dati che man mano gli venivano mostrati dalla "consolle" degli strumenti. Tutte funzionavano a dovere, e i dati provenienti dalle telemetrie combaciavano con tutti i calcoli teorici. I motori si fermarono al momento prestabilito. Alla quota prefissata il cono di protezione fu espulso, ed una molla liberò il satellite. Obbedendo alle leggi della meccanica, immediatamente, i due corpi iniziarono a cadere verso la Terra, ma la loro velocità era tale da porli in uno stato di permanente caduta, in una traiettoria che eguagliava quella della curvatura terrestre. Erano e rimasero in orbita. Lo Sputnik-l dispiegò le antenne ed iniziò a lanciare il proprio messaggio al mondo sottostante. Novantasei minuti più tardi, il satellite ripassò sopra la verticale della base dì lancio, e tutti poterono udire i chiaramente i suoi semplici segnali:«Bip... Bip...Bip...». La gioia dei presenti salì veramente alle stelle. Korolev si allontanò dalla "consolle" e, volgendosi ai presenti, sembra abbia detto: «Oggi il sogno dell'umanità è diventato una realtà L'assalto al cosmo ha avuto inizio». Il satellite si collocò, come previsto, in un'orbita inclinata di 65,1° rispetto all'equatore. Il perigeo, era ad una distanza di 228 km dalla superficie terrestre, e l'apogeo, a 947 chilometri. Lo "Sputnik" 1 aveva un periodo di 96 minuti e 10 secondi, ed in determinate condizioni poteva essere visto dalla terra. Indomito compagno di viaggio della Terra, continuò a trasmettere per tre settimane i propri segnali, e rimase in orbita 96 giorni, prima di rientrare nell'atmosfera terrestre, dopo aver compiuto 1.400 orbite. Per il mondo intero, il nome "Sputnik" diventò subito sinonimo di satellite e di conquista spaziale, entrando a far parte dell 'immaginario collettivo dell’umanità. Aperti i cancelli del cosmo, l'astronautica moderna poteva dirsi ufficialmente nata. Si trattava del primo satellite artificiale mai fabbricato dall'uomo, la decisione di costruirne uno più piccolo non significava che fosse meno complesso da progettare e mettere a punto. L'ufficio tecnico di Tikhonravov comunque, aveva condotto molti studi ed era, in pratica, pronto ad ogni evenienza. Per il primo lancio fu proposto un satellite di una forma sferica, avente un diametro di cinquantotto centimetri. L'utilizzo di questa soluzione aveva due vantaggi: ottenere il massimo volume con una superficie minima, e conoscere con precisione la densità degli strati alti dell'atmosfera, studiando attentamente la resistenza incontrata dal satellite, durante la sua orbita. Due semplici radiotrasmettitori, sulla frequenza di 20.005 e 40.002 MHz furono utilizzati per le trasmissioni radio. I loro segnali, in forma telegrafica e con una potenza di 1 watt, avrebbero consentito la trasmissione, alle basi d'ascolto a terra, dei dati riguardanti la temperatura e la pressione esistente all'interno della sfera. La strumentazione fu adeguatamente protetta dal calore, riempiendo d'azoto il satellite, e inserendo un piccolo sistema di ventilazione forzata, allo scopo di mantenere una temperatura interna di circa .30 °C. L'alimentazione degli apparati elettronici era garantita da batterie allo zinco. Quattro antenne della lunghezza di 2,9 metri, che si sarebbero aperte con l'aiuto di molle, completavano le dotazioni del satellite, la loro sistemazione avrebbe permesso la trasmissione a terra dei segnali senza dover essere necessariamente orientate. Una volta completato il peso totale dello Sputnik fu di 83,6 kg. Un vettore epico Partendo dal potente razzo militare R-7, Korolev ne ricavò una versione civile che fu chiamata Sputnik-A. Il nuovo vettore aveva un peso, al decollo, di circa 267 tonnellate, un'altezza di 29,2 metri ed una larghezza massima, alla base, di 10,3 metri. La struttura era innovativa in quanto composta da due stadi paralleli, composti da cinque elementi, i cui motori si accendevano contemporaneamente al momento del lancio. Il primo stadio consisteva in quattro unità, di forma conica, alte ognuna 19,8 metri per un diametro massimo di 2,7, montate in maniera simmetrica al secondo stadio centrale. Questo era a sua volta alto 28,7 metri, ed aveva un diametro massimo di 2,95 metri. Sui lati dei quattro razzi, componenti il primo stadio, erano state poste delle alette per la stabilizzazione del vettore durante la prima parte dell' ascesa. La separazione del primo stadio avveniva per mezzo di attuatori meccanici, un attimo prima lo spegnimento dei motori. Questa soluzione garantiva; l'allontanamento dei quattro booster in modo rapido e privo di pericoli. I serbatoi del vettore furono progettati come struttura stessa del vettore, mentre al loro interno dei setti divisori erano stati inseriti allo scopo di impedire pericolose oscillazioni del carburante. I motori erano stati progettati dall'ufficio tecnico di V. Glushko. Ogni booster, componente il primo stadio, montava quattro motori che in totale fornivano una spinta nel vuoto di oltre 398.000 chilogrammi. Il secondo stadio, posto centralmente agli altri quattro, era dotato degli stessi motori che fornivano una spinta di 93.000 kg. Ognuna delle quattro fasi, componenti il primo stadio, erano dotate di due piccoli motori, necessari al controllo direzionale del vettore. Lo stadio centrale ne aveva quattro.quattro. I motori del primo stadio potevano funzionare per circa due minuti, quelli del secondo oltre dieci. Il carburante usato era il cherosene e l'ossigeno liquido. L'OKB di Piliugin fornì il sistema analogico per il controllo del missile e dei suoi apparati interni. Il satellite fu collegato al vettore tramite una base d'aggancio dotata di una protezione conica. Dopo lo sgancio del cono di protezione, uno speciale sistema automatico a molla, avrebbe permesso il distacco del satellite dalla sua base. Il collaudo a terra di questo sistema; nelle stesse condizioni in cui si sarebbe venuto a trovare nello spazio, fu ovviamente impossibile e, per questo motivo, i tecnici sovietici vi dedicarono moltissima attenzione. Un minimo guasto, un lieve inceppamento, avrebbe compromesso l'intero progetto. Per essere matematicamente certi del suo funzionamento, un simulacro del satellite fu sottoposto a decine e decine di sganci simulati, fino a quando non si fu sicuri della sua affidabilità. Finalmente, il 3 ottobre 1957, il vettore col suo prezioso carico fu trasportato orizzontalmente da due locomotori diesel fino alla rampa di lancio. Korolev accompagnò la propria creatura per tutto il tempo del tragitto seguendo a piedi, lentamente e quasi in devozione, lo speciale vagone. Arrivati alla rampa di lancio, posta su di un' enorme platea di cemento e metallo, appositamente costruita per deviare il violento flusso della combustione, due enormi attuatori idraulici, facenti parte del vagone, si misero in movimento, portando lentamente il missile in verticale. Una volta completata l'operazione, e assicurati tutti i componenti, si passò ai controlli finali. Rivista Aeronautica , gennaio 1998 PS: personalmente avrei aperto questo Topic nella sezione Storica
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Jurgis Kairys' Aerobatic Performance At Willow Gro Jurgis Kairys
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The Jet Engine Gas Turbine, Turbojet, Turbofan Rolls-Royce.pdf Qualche giorno fa, un mio amico ha scaricato da Emule il suddetto file. Molto interessante, un manualetto di 230 pagine con bellissime illustrazioni. E’ un pdf da circa 22Mbyte.
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Crash Landing E’ una mattina calda e piovigginosa dell'estate 1968 e sto attraversando a piedi il piazzale di parcheggio velivoli di Milano Malpensa. Nel bel mezzo di una ordinata fila di jet di linea dalle sagome filanti, tutti in livrea bianca con le insegne colorate delle più disparate compagnie aeree internazionali, spicca alquanto diversa la sagoma goffa e scura di un velivolo da trasporto militare con l'ala alta, due grossi motori stellari con eliche quadripala, dietro i quali si protendono due travi di coda con alte derive. È il mio Lupo 90, un Fairchild C 119 Flying Boxcar, un Vagone Volante del 98° Gruppo della 46a Aerobrigata Trasporti Medi, che ha base a Pisa. È un aeroplano già superato, brutto, se volete, ma io gli voglio un gran bene. Con lui ho vissuto i momenti più emozionanti e avventurosi della mia vita di pilota. Lupo 90, reduce dalla grande revisione delle 2.000 ore eseguita dalla SIAI di Vergiate, dopo il collaudo in volo è ora pronto per essere riportato a "casa". Il mio equipaggio è già a bordo. Al CDA di Malpensa, l'ufficio di Controllo d'aerodromo dove ho compilato il piano di volo IFR, l'ufficiale meteo mi ha detto che la parte peggiore della perturbazione atmosferica sul Nord Italia, dovuta a una classica occlusione di due masse d'aria, una calda e una fredda, dopo aver scaricato piogge e temporali per tutta la notte, si è spostata più a Est. Rimangono qua e là solo sporadici rovesci, i soliti "colpi di coda". Appena a bordo, dopo essermi sistemato sul sedile a sinistra e aver chiesto l'autorizzazione alla Ground, la sezione che si occupa dei movimenti al suolo della Torre di Controllo, ben coadiuvato dal mio ottimo equipaggio, metto in moto. Nella spaziosa cabina regna il buon umore. Siamo rimasti fuori per due giorni, e ora abbiamo tutti voglia di rientrare. Si respira già aria di casa. Sul tavolino del navigatore c'è una specie di televisore, un'apparecchiatura in più del solito, che ci è servita per il collaudo. È l'Analyzer che, attraverso vari pick up point (in pratica, delle microsonde), rivela su un oscilloscopio ogni eventuale anomalia nel funzionamento dei due potenti motori turbo-compound Wright 3350-85 da 3.500 cavalli ciascuno. Su quell'aereo mi sento in una botte di ferro. Come istruito via radio, lascio il parcheggio e, rullando davanti ai bellissimi aerei allineati a destra, giro verso sud e imbocco il raccordo parallelo, diretto al punto attesa della grande pista 35 destra. Ed ecco che, tutto d'un tratto, il cielo si fa buio pesto e si mette a piovere forte. L'allegro vociare alle mie spalle s'interrompe. Metto in azione il tergicristallo e faccio accendere tutte le luci, ma davanti a me distinguo ben poco. La Ground ci chiama e ci detta la clearance di rotta. "Roger, autorizzato a Pisa via Voghera - Genova, sale e mantiene livello 110" conferma il mio secondo pilota. Rotta e livello sono quelli chiesti nel piano di volo. Mentre ci avviciniamo alla testata pista sud, piove sempre più forte. Aumento la velocità dei tergicristalli. I fari inquadrano due bellissimi fagiani che attraversano veloci il raccordo. Sono usciti dalle sterpaglie a sinistra e zampettano veloci verso destra, quasi sotto il musone. D'istinto do una spuntatina ai motori. Spirito venatorio o ricordi di fame patita da un tredicenne che, in tempo di guerra, armato di fionda e sassi, acquattato tra i cipressi del monumento ai Caduti di Villotta d'Aviano, riusciva ad abbattere da sei a dodici passerotti al giorno (chissà che cosa direbbe oggi la LlPU!). Poi, a casa, li gettava con sussiego sul tavolo di cucina, ordinando alla mamma: "Arrosto con polenta!". Bei ricordi... "Rieccoli, comandante!" grida il mio secondo. I due volatili sono sfuggiti alle eliche e al carrello, e zampettano a destra del raccordo, fuori portata. Il vento ora si fa sentire e li spinge verso la fitta brughiera. "Addio arrosto con polenta!" mugugno. Quando giungiamo al punto attesa, il tempo è peggiorato tanto che peggio non si può: le nubi nere toccano praticamente terra. Toc! totoc! to-to-to-totoc! Alla pioggia si è aggiunta la grandine, in un turbine di vento che non mi consente di orientarmi per provare i motori. "Disregard, Zap" mi dico. Metto i freni di parcheggio nella solita posizione con il muso a 45 gradi rispetto alla pista, e procedo al regolamentare run-up check. Tiro il collo ai motori, prima al sinistro poi al destro e poi a tutti e due insieme. Il rumore, in cabina, è assordante. La terrific power si scarica sulle grandi eliche quadripala Hamilton Standard e fa scuotere tutto il velivolo, dandomi brividi di piacere: che bello "avere sotto" tutti quei cavalli! Intanto la pioggia è talmente cresciuta d'intensità, che nel selezionare sul soffitto gli interruttori dei magneti sulle tre posizioni Left-Right-Both, alcune gocce d'acqua cadono sul mio braccio destro. "Never mind, comandante" minimizza il mio motorista (è fissato con l'Inglese). "Li sistemerò a casa con un po' di sigillante". Sugli strumenti i parametri sono tutti OK. Anche l'operatore all'Analyzer mi segnala con il pollice alzato. Riduco motore, mentre il secondo pilota termina la lettura della parte Before Take-off e depone la check-list. È tutto OK: non rimane che chiedere pista e decollo. Fuori, però, ora c'è l'inferno. "Stand-by, Zap, never take chances" mi avverte la voce interna del mio vecchio istruttore canadese (fermati un momento, mai rischiare... se puoi farne a meno). Un lacerante fragore e - zig-zag! - una saetta nel classico "segno di Zorro" squarcia il cielo, illuminando una valanga di nubi nere sopra di noi. Pioggia, grandine, tempesta martellano il parabrezza, le lamiere del velivolo e l'asfalto,allagando tutto. Rimango ammutolito e assisto in silenzio all'uragano che si sta scaricando sulla pista. Mi riscuote la voce del controllore: "Lupo 90, passate sulla frequenza di, Torre e provate a chiamare l'AZ 320. E’ in avvicinamento per la 35, ma non ci risponde". "Roger, Malpensa, lo chiamo subito". Faccio tre inutili tentativi e richiamo la Torre: "Malpensa, Lupo 90, spiacente: contatto negativo con AZ 320, e... Malpensa, Lupo 90 rinuncia al decollo, chiede un ritardo di 40 minuti e rientra al parcheggio". Un unico grande sospiro di sollievo in cabina accompagna le mie parole. Dopo qualche minuto sono di nuovo sul piazzale. Spengo i motori e faccio scorrere appena il finestrino, che resta protetto dal vento che urla da destra, tirandosi dietro gravidi nuvoloni neri; il parcheggiatore, da sotto l'enorme cappello della cerata tipo Nordovest che lo fa sembrare un vecchio lupo di mare, vuole dirmi qualcosa. "A là sentì, cumandant?" mi urla nella fessura. "L'è burlàa giòo el Dici Vòtt dell'Alitalia da Neviorch. L'àn dìt adess:su la colina da Vergiaa" . Di colpo, con la mia fervida immaginazione, ritorno a pochi minuti indietro, e m'immagino seduto ai comandi di quel potente aviogetto di linea. Tutto è predisposto per l'atterraggio: sono ben stabilizzato in azimut e in elevazione sul sentiero elettronico di discesa, l' ILS di Malpensa. Ho lasciato l' outer marker tenendomi leggermente sopra il glide path, e ora sto aspettando il segnale del middle marker. C'è un tempo da lupi, ma ho tanta esperienza di atterraggi con cattivo tempo, e sicuramente andrà bene anche questo. Ecco il segnale: sento il suono corretto in cuffia e vedo il lampeggia della spia azzurra sul cruscotto. Sono sempre un po' sopra il sentiero, ma ben allineato: localizzatore al centro. Tolgo motore per abbassarmi. Ma ecco: un lampo - zig-zag! - squarcia con fragore il cielo. Scompaiono dallo strumento i segnali verticale e orizzontale dell'ILS. Che il fulmine abbia colpito la trasmittente? Rallento la discesa, ridando un po' di motore. Ritornano i segnali, meno male! Sono ancora allineato, ma ora sono alto sul glide. Via i motori; volantino un po' avanti; ecco che esco dalle nubi: vedo le luci che conducono alla pista. Ed ecco la pista! C'è un grosso bimotore a due code, goffo e scuro, al punto attesa. Lo sorvolo, scompare. Sono decisamente troppo alto. Raffiche di pioggia, grandine e vento investono il mio aereo. Ricontrollo carrello e flap: OK, tutto fuori. Giù, spingo giù, e manette indietro, quasi senza potenza, ma il velivolo è come un barcone in mare: galleggia e non perde quota, nonostante l'assetto appropriato. L'asfalto scorre veloce, molto sotto di noi: mi sono "mangiato" metà pista, e non riesco a mettere giù le ruote; sono troppo "lungo"; non ce la faccio. Devo riattaccare! "Overshoot!" comando. "Tutto motore: riattacchiamo". Il copilota mi scandisce le velocità. "Su il carrello!" "Carrello up" risponde. Il tergicristallo corre avanti e indietro come impazzito; la pista scompare sotto di me, ma mi accorgo che non riesco a guadagnare quota. "Flaps up, dieci gradi". "Up: dieci". A tutta potenza con assetto a cabrare, il velivolo non sale. Anzi, attraverso gli sfilacci delle nubi bassissime, vedo il terreno avvicinarsi sempre più. C'è un bosco in ascesa davanti a me: è su una collina, una delle tante tra Malpensa e il Lago Maggiore. Le cime degli alberi si avvicinano a velocità vertiginosa: vorrei evitarli, ma non ci riesco... non ci riesco! Com'era facile, sul mio Republic F 84F Thunderstreak, "tirare su" e ritornare per l'atterraggio con uno "stretto": sottovento-base-finale. No, qui non posso: sono troppo pesante. Tutta potenza e assetto cabrato non contano più niente. Sono immerso in una colonna d'aria discendente: è un wind-shear! La collina si avvicina; gli alberi si avvicinano, sempre più alti; li sto sfiorando... "Crash landing!" urlo. "Via i motori!" Tiro tutte le T handle, le maniglie a T di emergenza. Automaticamente, le shut-off valve e gli estintori faranno il resto. Il mio DC 8 si adagia, striscia, spezza, schianta rami e alberi; s'infila nel bosco. I tronchi spezzati martellano i fianchi del velivolo. Ne prendiamo uno in pieno, che squarcia la cabina sotto i miei piedi; mi spezza una gamba. Il dolore è insopportabile. Il velivolo si è fermato. Con gli occhi annebbiati dal dolore, vedo alzarsi colonne di vapore e fumo. Sento urlare; sento le voci degli assistenti di volo, che esortano i passeggeri a uscire con ordine, ma in fretta: "Di qui, di qui! Presto, presto!". Mi pare di sentire fischiare, da lontano, le sirene di soccorso, mentre qualcuno sta cercando di sollevarmi dal sedile. Il dolore alla gamba è lancinante. Svengo... Mi riscuoto dai miei pensieri bui. Lontano, verso sud-ovest, vedo che il cielo comincia a rischiararsi. Dopo mezz'ora, tutto è passato. Veniamo a sapere che passeggeri ed equipaggio del DC 8 sono probabilmente tutti salvi. Mi sento sollevato, mentre ripeto per l'ennesima volta la procedura di messa in moto del mio vecchio e goffo (e tanto caro) Vagone Volante. Questa sera ceneremo a casa. Volare Gennaio 1999
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Ho Amato un Aeroplano… Sì, ho amato un aeroplano! Qualcuno dirà che è impossibile, che si tratta di una battuta, eppure è vero, è capitato a me come credo sia capitato a tanti altri piloti. Un uomo è un uomo e un aeroplano è un aeroplano, eppure venne un giorno nel quale uomo e aeroplano furono una cosa sola! E' una storia d'amore di tanti anni fa, nata nei cieli infuocati della guerra. In squadriglia, la vecchia gloriosa 93a dell'8° Gruppo Caccia, mi avevano assegnato il Macchi 200 con il n. 4, un apparecchio scontroso più di quanto già lo fosse per sua origine, tanto che alla prima manovra un po' violenta mi aveva risposto con una altrettanto violenta autorotazione. Per qualche tempo convivemmo con distacco, andavamo in azione, partenze su allarme, scorte alle navi, ricognizioni, ma io lo pilotavo sempre con una certa diffidenza finché un giorno, al rientro da una missione, avvenne il colpo di fulmine. Era uno di quei giorni magici, misteriosi, che sconvolgono tutto e di colpo aprono, dentro, nuove prodonde tracce e nulla si può spiegare: avvengono! Ero in alta quota, solo, in un infinito purissimo azzurro dove si rincorrevano manciate di grandi nuvole bianche, architetture fantastiche fra sciabolate di sole, alte montagne e grandi laghi azzurri, profonde vallate e cattedrali e torri e pareti vertiginose. Mi tuffai sotto un batuffolo candido e poi tirai su a circondarlo con un morbido looping e poi di seguito virate in piedi e capriole fra spume trasparenti. Allungando un braccio avrei potuto acchiappare una nuvola e mi sentivo grande, invulnerabile e nello stesso tempo infinitamente piccolo per una immensa Presenza che sentivo sopra di me. Tutto era musica e cantavo, leggero, senza peso ed io e il mio n. 4 ora eravamo una sola creatura che si librava in una danza inebriante a disegnare arabeschi nelle profondità dell'azzurro. Le sue ali erano le mie ali e la guerra non c'era più, non c'era più la terra con i suoi orrori, ero oltre ogni limite, immerso in un mondo magico: a tratti il sole tracciava la mia ombra su vicine candide pareti ed il Macchi, ora veramente "mio", era una piuma che volteggiava morbida nel vento. A terra, spento il motore, rimasi immobile ad assaporare il lento defluire delle emozioni che avevo dentro, poi la voce preoccupata del motorista: «Tutto bene tenente?...» «Tutto bene!» risposi e battendo una mano sul cruscotto aggiunsi «Oggi, io e questo qui ci siamo innamorati». E fu amore per tanto tempo, con il mio n. 4 vissi tante altre drammatiche vicende in un guerra sempre più disperata: la grande paura nella nebbia, i violenti scrosci di pioggia senza il tettuccio a ripararci, il gelo dell'alta quota, la ragnatela infuocata delle raffiche nemiche, gli squarci nella fusoliera, la sabbia rossa della Tunisia che impregnava la mia pelle e il suo motore, eppure, arrancando, lui testardo, mi portò sempre a casa. Ed io gli parlavo nei momenti difficili e poi a terra lo ringraziavo con una carezza e sapevo che lui capiva… Ma con lo scorrere del tempo, venne anche il giorno del distacco, mi aspettavano altri apparecchi, i suoi più giovani fratelli, il 202 e il 205; era finito il lungo aspro cammino che avevamo percorso assieme. Volammo per l'ultima volta verso il campo dove lui avrebbe addestrato giovani pivelli e facemmo l'ultimo looping e l'ultimo atterraggio "al bacio". Tante e tante volte, assieme avevamo messo in gioco le nostre vite, fu un distacco triste e, allontanandomi, mi girai più volte a guardarlo, il mio vecchio n. 4, laggiù nella nuova linea di volo. Da allora è passata una vita, ma nei ricordi che sovente si affollano alla mente, il legame col mio Macchi 200 è sempre ben vivo. Penso che quando il Dio dei Cieli mi chiamerà, ritroverò lassù il vecchio scontroso n. 4 e torneremo assieme a volare, nei santuari del cielo, a disegnare musica a gloria di Colui che, con mano paterna, ci guidò negli anni dell'Apocalisse. Aeronautica Giugno 1998
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STORMO DA CACCIA Chiara mattinata di sole. Le romabanti argentee chiazze degli aeroplani macchiano il verde tenero del campo. A mano, affettuosamente, come accompagnandoli a festa, gli avieri spingono i velivoli, lustri, sulla linea di volo. Le prime eliche prendono a girare, e lo stormo inizia la sua vita di un giorno, che è la vita di tutti i giorni. Il preludio è dei "pinguini" alle prese con i primi segreti del volo acrobatico. A sera, negli ultimi raggi del sole calante, gli esperti, gli anziani, uomini per cui il volo non ha più segreti, improvviseranno lo spettacolo finale. Due, tre pattuglie, di sette aeroplani ognuna, comporranno la gran gala disegnando nel cielo evoluzioni che fino a poco fa, eseguite da un solo pilota su di un solo velivolo, parevano il non plus ultra dell'acrobazia aerea. Decolla il primo apparecchio: è il "la" ad una intensa attività di volo apparentemente indisciplinata, coreograficamente caotica, retta invece nelle sue intime basi da una lucida volontà disciplinatrice e ad ognuno assegna compiti precisi e definiti. Ed al decollo del primo apparecchio, presso l'antenna delle segnalazioni, vera centrale nevralgica della vita del campo, e lungo tutta la linea di volo, si formano capannelli di uomini. Tra questi, i comandanti, a ricercare ognuno, in mezzo ai tanti che scarambolano nel cielo, il suo "pollo" e lo seguono con quella stessa attenzione, con quello stesso affetto con cui a loro volta furono seguiti lungo i primi passi della loro vita di aviatori. Ogni comandante ha il suo modo caratteristico di seguire: ad uno potrai leggere sul volto approvazione o disappunto, gioia od ansietà per quanto "quello" va ingegnandosi di combinare lassù; un altro non ti mostrerà che imperturbabile muta serenità. In questi capannelli si riassume e concentra lo spirito, l'essenza del volo. Non vi si parla di altro, non si commenta altro che quanto i compagni stanno facendo lassù. In questi gruppetti nascono le leggende, si creano le tradizioni, vengono ravvivati episodi memorabili di questo o quel pilota, il giovane apprende le gesta a cui ispirarsi; si narrano i fasti dello Stormo, dei Gruppi, delle Squadriglie; si foggia la storia orale dell'Aviazione. A tratti qualcuno esce dal gruppetto: alla chiacchiera salutare sostituisce l'azione. Esegue il suo volo, svolge il suo programma, riatterra e riprende nel coro il suo posto. A volte è il tenore, il cantastorie maggiore, quello che abbandona il coro, ed allora tutti, gli occhi al cielo, lo seguono, ne bevono le manovre come a carpire il segreto delle evoluzioni che avvincono. Così si rinsalda la tradizione, in queste raccolte di uomini la si vivifica, la si rinnova con l'esempio e con la parola. E la tradizione, in aviazione, come del resto in tutte le attività più alte dello spirito umano, è importantissima. Si evolve il mezzo, la tecnica, ma le basi sono quelle che sono, solide, buone, resistono nella coscienza degli .anziani, nell'avido desiderio di apprendere dei giovani. A osservarla superficialmente, la vita di uno stormo da caccia, la vita intima, quella quotidiana, non vi ritroveresti quegli elementi che contribuiscono a creare quell’ “abitudine al coraggio" che è elemento caratteristico e distintivo del cacciatore italiano. Ma a viverla ed osservarla da vicino vedresti che c'è qualcosa nella vita di questi soldati pieni di disciplinata irruenza, che ti dà l'impressione di trovarti di fronte ad una umanità nuova, ad una umanità in "combinazione" abituata a vivere con il cielo e nel cielo. E se non leggerai negli occhi adusi di questi uomini il riflesso della vita eroica che ogni giorno conducono, se non ti parrà vero di trovare nella paterna e ad un tempo severa figura del Comandante la serena abilità con cui solo pochi giorni addietro risolveva brillantemente l'ennesima delle "situazioni imbarazzanti" della sua bella carriera di pilota, ti renderai però conto che questa umanità senza retorica vive di fede senza quasi avvedersene. E capirai che non è paradossale definire monastica la vita dei piloti di uno stormo da caccia. Monastica in quel senso per cui il volo ed ogni attività ad esso inerente sono tenuti a guisa di rito, monastica perché il rituale ha i suoi santi. Santi prontissimi magari a lanciarsi nella scia delle gonnelle di qualche donzella carina, ma santi per quel loro rigido attenersi a discipline nuove necessarie ed indispensabili per ottenere quei meravigliosi risultati che il mondo, a volte in modo non del tutto gradito, ha avuto modo di conoscere. Santi per il mistico slancio che li anima quando nei cieli di guerra si gettano audaci sul nemico, o nei cieli della pace si tuffano in un vorticoso susseguirsi di instancabili "ruote" a pochi metri dal terreno. Santi per quell'estasi che li domina quando a te spettatore sembrano impazziti', e li vedi più arditi, più impressionanti, scarambolare geometricamente in formazioni strettissime, serrate ala contro ala. E santi, infine, in quella santità del sacrificio finale che ad alcuni, ai migliori, è richesto: in quell'offerta senza reticenze della giovane esistenza agli ideali per cui hanno vissuto. Ma mi sembra di tradirli nel rivelare quella loro intima essenza, questo loro mistero. Mistero che credo solo svelino agli angeli, quando li incrociano sulle loro rotte celesti, e li invitano a gettarsi con loro nelle più ardite picchiate, nelle più entusiasmanti acrobazie. A quegli angeli che danzano sulle loro ali quando l'apparecchio offre al bacio del sole la pancia poderosa ed al pilota il mondo appare rovescio: un mondo cinematografico. Cinematografia per bambini, di casette simili a piccoli dadi rovesciati, di monti appoggiati per le cime aguzze nell'azzurro, e verdi laghetti che non ti spieghi per quale magica virtù non si rovesciano ad inondarti. A quegli angeli degli aviatori che sanno le tappe della iniziazione, dura iniziazione, lunga scala da percorrere incerti di superare il noviziato. Perché il volare è qualcosa di più che un atto materiale, è una dura divisa fatta di disciplina, di tenacia, di obbedienza: e come tale deve essere basata su dei princìpi ideali senza dei quali non c'è posto per il sacrificio. Ho detto gli aviatori uomini che vivono di fede senza avvedersene, ma forse non è esatto. Cioè, è più esatto dire che non lo dimostrano con manifestazioni esteriori, ma lo esprimono quando è l'ora delle necessità supreme. Oscar Abello 25 novembre 1938 Aeronautica, Ottobre 1992
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Attacare una flotta nemica in porto non era una novità, per la Royal Navy. Nel 1587 Francis Drake aveva compiuto un’audace incursione a Cadice, distruggendo navi ed infrastrutture di quella “Invencible Armada” che la Spagna stava radunando per invadere l’Inghilterra. Duecentoquattordici anni dopo, un altro grande ammiraglio inglese, Oratio Nelson, non esitò a forzare la munitissima rada di Copenaghen per eliminare la flotta danese, scongiurandone così l’intervento a fianco della Francia. Agli inizi del XX secolo, la nascente arma aerea fornì un nuovo strumento per attaccare le flotte nemiche al sicuro nei loro porti; come ebbe a scrivere l’allora colonnello Giulio Douhet in un memorandum (il mezzo nuovo, gennaio 1916) diretto al Generalissimo Cadorna. Un mezzo nuovo di guerra si affaccia sul mondo: l’aereplano potente. E’ capace di lanciare a 500 km dalla propria base 500 kg di esplosivo, oltrepassando qualsiasi ostacolo. Mille aeroplani potenti possono lasciar cadere nel porto di pola, una quantità di esplosivo pari a quella contenuta in 5000 siluri, di che distruggere con un solo volo tutta la flotta austriaca. Era un’intuizione potente, anche se all’epoca tecnologicamente inattuabile; L’alba di una nuova era, che si sarebbe realizzata appieno un quarto di secolo dopo. Il piano Sin dall'estate del 1935, epoca nella quale la mobilitazione italiana contro l'Etiopia (invasa nell'ottobre successivo) aveva provocato una grave crisi mediterranea, la Royal Navy progettava di colpire con attacchi aeronavali diversi porti militari della Penisola. L'idea d'un attacco contro Taranto rimase fermo a livello preliminare; tuttavia, nel 1938, tornata ad acuirsi la tensione internazionale (ora provocata dalle pretese tedesche, appoggiate dall'Italia, in Europa centrale), la possibilità di colpire la potente flotta da battaglia italiana nel suo principale porto meridionale, ricorrendo ad una incursione aeronavale, fu nuovamente presa in considerazione. George Lister era all' epoca un capitano di vascello, specialista di tattiche aeronavali e comandante della portaerei Eagle; inoltre, vent' anni prima era stato distaccato con una squadriglia di idrovolanti inglesi proprio nel porto di Taranto, che conosceva quindi molto bene. Il comandante Lister riprese la progettazione dell' attacco, da compiersi con aerosiluranti partiti da portaerei. Tuttavia, anche la nuova crisi rientrò (dopo la conferenza di Monaco), e il sacrificio della Cecoslovacchia travolse l'operazione "Judgement", ossia il piano elaborato da Lister, che pochi mesi dopo veniva peraltro promosso e destinato ad altro incarico. Il progetto tornò inevitabilmente d'attualità con l'entrata in guerra dell'Italia (10 giugno 1940); soprattutto dopo la resa francese, che privava Londra della superiorità navale nel Mediterraneo (e a fronte d'una Regia Marina reputata moderna e bene equipaggiata, seppur con scarsa esperienza bellica). L'ammiraglio Andrew B. Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, fu il primo a rispolverare l'idea d'infliggere un "knock-down blow" alla Regia Marina, sorprendendola in porto; le prime esperienze di guerra (battaglie di Punta Stilo e di Capo Spada, scontro notturno del 12 ottobre canale di Sicilia) avevano dimostrato che gli italiani erano, nonostante le molte carenze , dei validi combattenti. Inoltre, gli inglesi avevano reagito all' attacco italiano contro la Grecia (28 ottobre 1940) inviando ingenti aiuti ai difensori ellenici; pertanto, si doveva tentare di mettere a segno un attacco improvviso che, correndo un rischio accettabile, infliggesse un duro colpo materiale e morale alla flotta Italiana,prima di vederla scatenarsi contro i convogli inglesi diretti in Grecia. Vincendo le perplessità del prudente Primo Lord del Mare Dudley, Cunningham rimise mano al piano "Judgement", in questo validamente aiutato dal ritorno nel mediterraneo del contrammiraglio Lister, ora comandante della divisione portaerei della Mediterranean Fleet (portaerei Eagle e Illustrious); allo specialista il compito di aggiornare il proprio progetto, al comandante in capo quello di organizzare un' ampia manovra strategica, intesa a rendere possibile il colpo. Taranto fu da quel momento posta sotto sorveglianza sempre più stretta; le missioni di ricognizione aerea (che giornalmente i due contendenti effettuavano sulle principali basi nemiche) furono intensificate, grazie alla cooperazione realizzata tra la Royal Air Force e la Mediterranean Fleet, assai più efficiente delle relazioni intercorrenti tra Supermarina e Superaereo, pure notevolmente impegnata nei compiti di ricognizione strategica. A Malta fu attivato il No 431 Squadron, con il quale si poté coprire con maggiore cura la foto-ricognizione di Taranto; tra l'altro, le missioni esplorative daranno "conto con precisione degli aumentati apprestamenti difensivi (contraerea, posa di reti parasiluri) e, notizia delle più allarmanti, della creazione d'un efficace sbarramento formato da palloni frenati. Difatti, il vero problema nell' attaccare un porto come quello di Taranto, con gli aerosiluranti, era rappresentato dal tuffo stesso che avrebbe fatto il siluro lanciato, immergendosi per parecchi metri prima di mettersi in corsa. Per evitare che il siluro s'immergesse troppo, incagliandosi nei bassi fondali del porto (circa 15 metri), l'aereoplano doveva sganciare da una quota la più bassa possibile: operazione già di per sé rischiosa, in un' area presumibilmente saturata dalla contraerea avversaria, ma che la presenza dei cavi d'acciaio pendenti dai palloni frenati avrebbe reso praticamente impossibile. La notizia riguardante la presenza d'un simile sbarramento mise in crisi i pianificatori inglesi, che, tra l'altro, dovevano già affrontare altri problemi di notevole rilievo: innanzi tutto, il dimezzamento delle forze d'attacco, poiché la portaerei Eagle era ancora in riparazione per i danni subiti nel luglio precedente; inoltre, l’ Illustrious (che pure aveva imbarcato cinque apparecchi dell'Eagle) era anch'essa ai lavori, dopo un incendio scoppiato nell'aviorimessa. La data prevista inizialmente da Cunningham per l'attacco (21 ottobre, anniversario della battaglia di Trafalgar) aveva così dovuto slittare di tre settimane: grave problema, poiché Cunningham stava preparando una serie di operazioni su vasta scala, destinate a coprire la mossa principale, ossia l'incursione su Taranto; ma proprio questo ritardo avrebbe risolto il dilemma rappresentato dai palloni frenati. L'obiettivo Come già accennato, a Taranto la Regia Marina aveva concentrato, dopo lo scoppio della guerra, la quasi totalità della flotta, per meglio controllare il teatro di operazioni mediterraneo. Il porto (nonostante il "peccato originale" rappresentato dalla strozzatura tra Mar Piccolo, meglio riparato, e Mar Grande, ove si era costretti a concentrare,rendendoli più vulnerabili,i principali ancoraggi) era bene attrezzato, ampio, dotato di infrastrutture logistiche adeguate, e il comandante del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, l'energico ammiraglio Antonio Pasetti, ne aveva potenziato le strutture difensive, pur nei limiti delle scarse disponibilità materiali. Nel novembre 1940, oltre che sui pezzi delle navi in rada (con un notevole stato d'approntamento, soprattutto di notte), la difesa contraerea poteva contare su 21 batterie con 101 cannoni, 68 postazioni armate con mitragliatrici pesanti e 109 dotate di armi leggere, oltre a tredici stazioni d'ascolto aerofoniche collegate a 22 proiettori. Altri proiettori (con impianti nebbiogeni per il mascheramento) erano installati sulle navi da guerra; ma Pasetti, d'accordo con il Comandante in Capo della Squadra Navale Inigo Campioni, era dell'idea che i proiettori di bordo fossero impiegati come ultima risorsa, evitando di farne preziosi punti di riferimento per eventuali attaccanti. Su una seconda questione i due ammiragli erano invece in disaccordo, ossia le reti parasiluri. Pasetti, il cui compito era assicurare l'incolumità delle navi all'interno del "suo" porto, era deciso a costituire recinti di sicurezza attorno ad ogni nave principale, il più a ridosso possibile, lasciando di prora un' apertura mobile, e ancorando le unità di poppa in modo tale da evitarne la "ruota", ossia l'oscillazione poppiera impressa da venti e correnti, che per corazzate di 238 metri di lunghezza (con ancore filate alla catena per cinque volte la profondità del fondale, quindi altri 75 metri) significava creare un'area libera da reti di ben 313 metri di raggio. L'ammiraglio Campioni, il cui primo pensiero andava invece alla prontezza operativa della Squadra, era ben deciso a non vedere le proprie navi impastoiate in "trincee" parasiluri, e preferiva creare degli ampi spazi recintati, appoggiati alla diga della Tarantola: tale sistemazione sarebbe stata più che sufficiente contro eventuali incursioni subacquee; ad un pericolo portato dagli aerosiluranti poco si credeva, in tal uni ambienti navali (e non). Le preoccupazioni di Campioni non erano infondate, e Pasetti aveva le sue ragioni; ma la disputa era, a questo punto, abbastanza accademica. Innanzitutto, le carenze nella produzione bellica italiana facevano sì che nemmeno i grandi recinti previsti per le unità ancorate nel Mar Grande (richiedenti la posa in opera di 12.800 m direti) fossero disponibili; all' 11 novembre erano stati dispiegati 4.200 m di reti, altri 2.900 m erano pronti per essere posati, e la produzione mensile s'era attestata, da settembre, sui 3.600 m. Le "trincee personalizzate" volute da Pasetti restavano, per il momento, una chimera. Inoltre, l'efficacia stessa delle reti era inficiata da una novità tecnica, che per la verità tanto nuova non era, visto che i tedeschi l'andavano sviluppando (al pari degli inglesi) da diverso tempo, senza tuttavia darne notizia agli alleati italiani. Le reti parasiluro scendevano generalmente fino a 10 metri di profondità, proteggendo tutta l'opera viva della nave; ma i siluri inglesi aviolanciati avevano il nuovo innesco "duplex" a percussione e ad accensione magnetica, che permetteva di colpire lo scafo nemico (la cui massa metallica attirava l'ordigno) passando sotto le reti, e scoppiando tra l'altro in punti generalmente meno protetti. Restavano quindi, come difesa più efficace, gli sbarramenti formati dai palloni frenati; e come la fotoricognizione inglese aveva mostrato, non si era lesinato: una novantina di palloni, ancorati a terra od ormeggiati a chiatte, coprivano con efficacia tutte le possibili rotte d'attacco. Tuttavia, proprio mentre i pianificatori inglesi si trovavano alle prese con i ritardi imposti dalla situazione dell'Illustrious, e con l'insormontabilità del "problema palloni" (risolvibile solo sacrificando il fattore sorpresa e lanciando contro di essi aerei da caccia, il cui corto raggio d'azione avrebbe però compromesso l'intera operazione) , proprio la posposizione forzata dell' operazione risolse il dilemma. La seconda settimana di novembre fu infatti caratterizzata da condizioni meteorologiche avverse, e una vera tempesta investì Taranto, spezzando gli ancoraggi d'una sessantina di palloni frenati. I restanti 27, anche riposizionati nei settori più esposti, non potevano certo fare un lavoro che richiedeva una disponibilità di aerostati tre volte maggiore; e, ancora una volta, le carenze industriali italiane non consentivano una rapida sostituzione del materiale perduto, data la scarsa produzione d'idrogeno. La nuova situazione così creatasi fu subito riportata dall' avioricognizione inglese: l'operazione "Judgement" poteva quindi prendere l'avvio. L'attacco Il 6 novembre (quando ancora non era stata presa una decisione definitiva circa l'attacco contro Taranto) era iniziata una complessa serie di operazioni, aventi comunque l'obiettivo primario di rifornire Malta, e coprire l'invio di altri convogli in Grecia. Da Alessandria d'Egitto era uscita l'intera Mediterranean Fleet, con l'Illustrious e quattro navi da battaglia (seguite a distanza dalla 3a divisione incrociatori del viceammiraglio Pridham- Wippel) per proteggere i convogli diretti a Suda e a Malta: sin dall'inizio, i caccia "Fulmar" della portaerei crearono un'efficace cortina difensiva, impenetrabile ai ricognitori e ai bombardieri italiani. Tra l'altro, il 6 il maltempo aveva ostacolato la quotidiana ricognizione effettuata dalla Regia Aeronautica su Alessandria; il 7, i ricognitori avevano rilevato l'uscita delle navi inglesi, senza tuttavia scoprirne la rotta. Nel frattempo, da Gibilterra era salpata la "Forza R": si erano andati formando diversi convogli, le due grandi forze inglesi si erano frazionate, parzialmente ricongiungendosi, nonostante il contrasto aereo italiano , nelle acque di Malta (10 novembre), mentre un convoglio giungeva a Suda. Il vasto movimento inglese, interpretato (non erroneamente) come copertura al passaggio di preziosi convogli, aveva portato Supermarina ad aumentare la vigilanza nel canale di Sicilia, allertando nel contempo Campioni per un'eventuale uscita in mare. Ma stava per scattare la vera mossa inglese: esaminate le ultime fotografie raccolte dai reparti di ricognizione maltesi, contenenti l'esatta posizione d'ormeggio delle unità italiane e, soprattutto, la mutilazione subita dallo sbarramento di palloni, Cunningham aveva autorizzato l'operazione "Judgement", coordinando un nuovo audace frazionamento delle proprie forze. Mentre il comandante in capo sarebbe rimasto di copertura con le navi da battaglia presso Malta, l'Illustrious, scortata da quattro incrociatori e quattro cacciatorpediniere avrebbe dovuto raggiungere il punto previsto per il lancio degli apparecchi, 170 miglia a sud-est di Taranto; inoltre, gli incrociatori di Pridham- Wipple avrebbero dovuto compiere un'incursione diversiva nel canale d'Otranto; un apparecchio da ricognizione proveniente da Malta avrebbe sorvolato Taranto fino ad un quarto d'ora prima del lancio dell' attacco, per evitare un'uscita a sorpresa della flotta italiana. Partita da Malta verso le 18.00, alle 20.30 l'Illustrious raggiunse il punto prestabilito: nei dieci minuti successivi, si levarono in volo i 12 apparecchi del primo raid, seguiti,un'ora dopo, da otto velivoli della seconda ondata (un nono apparecchio rientrò per noie ai serbatoi). I 20 aerei che, distanziati (e frazionati anche dal difficile volo notturno), stavano per avventarsi sull' orgoglio della Regia Marina, erano i biplani "Swordfish", in servizio dal 1936, dalla linea goffa e sorpassata, ma capaci di sorprendenti prestazioni. 11 aerei erano armati di siluro a doppio innesco, gli altri nove portavano bombe, spezzoni e bengala illuminanti. La prima ondata d'attacco non arrivò del tutto inaspettata nel cielo di Taranto, ove per tutta la serata la contraerea (in stato di massima allerta da vari giorni) aveva aperto il fuoco, sia per falsi allarmi, sia per la reale presenza dei ricognitori provenienti da Malta; tra l'altro, le postazioni aerofoniche segnalarono i rumori provenienti dal primo raid quando questo era ancora a 45 miglia da Taranto, al traverso di Gallipoli. Alle 22.52 i primi aerei iniziarono l'azione; sei minuti dopo due bengalieri illuminavano la base, per poi attaccare i depositi di nafta: un quarto d'ora dopo, aveva inizio l'azione degli aerosiluranti e dei bombardieri (in tutto 15) impegnati sul Mar Grande. Gli undici siluri lanciati colpirono ,tra le 23.14 e 00.01 , le corazzate Cavour e Duilio (un colpo ciascuna), mentre la modernissima nave da battaglia Littorio veniva centrata da ben tre siluri, e mancata da altri due. Altri quattro siluri mancarono le corazzate Vittorio Veneto e Doria e l'incrociatore pesante Gorizia. Nel frattempo, si andavano sviluppando gli attacchi dei bombardieri contro le unità alla fonda nel Mar Piccolo (5) e le infrastrutture portuali e aeroportuali tarantine, provocando danni, vittime, e la distruzione di due idrovolanti. Le bombe (in tutto una sessantina) centrarono anche l'incrociatore Trento, mettendo fuori uso un complesso da 100 mm, e inflissero lievi danni da schegge a due cacciatorpediniere. Alle 00.30 si svolse l'ultimo attacco; tre quarti d'ora dopo la base cessava l'allarme, mentre gli apparecchi inglesi tornavano alla portaerei: due erano mancanti, altri due gravemente danneggiati; ma si lasciavano alle spalle metà della flotta da battaglia nemica fuori combattimento, una cinquantina di vittime, ed un morale molto scosso. Il prezzo pagato era stato più che equo. Bilanci e conseguenze Per la prima volta nella storia, un attacco aereo partito da portaerei aveva ottenuto un incisivo risultato anche sul piano strategico; come scrisse l'ammiraglio Cunningham: «E' evidente che il fortunato attacco ha grandemente aumentato la nostra libertà di movimento nel Mediterraneo e rafforzato il controllo sulla zona centrale lasciando libere unità per operazioni in altri teatri L'effetto sul morale degli italiani deve essere stato notevole». Le unità superstiti furono spostate nel meno attrezzato porto di Napoli (o in Sicilia), mentre le tre corazzate silurate entravano in arsenale per riparazioni, che per il Cavour non sarebbero mai state completate: Littorio e Duilio sarebbero invece tornate in linea nella primavera 1941. L'attacco avrebbe tecnicamente influenzato anche l'andamento della guerra nel Pacifico, ispirando l' ammiraglio giapponese Yamamoto e i suoi collaboratori (grazie al viceaddetto navale Takoshi Naito, giunto a Taranto subito dopo l'attacco) nell' elaborazione del piano d'incursioni aeronavali contro Pearl Harbor, base navale dalle caratteristiche molto simili a quelle del porto pugliese. Peraltro, proprio il confronto tra le due operazioni (pur tenendo conto della scala immensamente maggiore,e oceanica,del raid giapponese, condotto con ben 353 apparecchi partiti da sei portaerei) assolve le difese approntate dall' ammiraglio Pasetti. Non si può infatti non notare come, di spiegando un volume di fuoco (13.489 colpi sparati dalle sole postazioni a terra, senza contare il contributo delle navi) paragonabile a quello sviluppato dagli americani il 7 dicembre 1941, contro soli 20 aerei, e per di più di notte, la contraerea italiana abbattesse il 10% della forza nemica, e ne danneggiasse gravemente un altro 10% La contraerea americana abbatté invece solo 22 dei 353 aerei attaccanti (danneggiandone 74), pari al 6,2%, mentre altri sette velivoli furono abbattuti da due caccia P-40 levatisi in volo da una pista secondaria: questo di giorno, disponendo di forze aeree difensive ingenti (ma sorprese a terra), e per un attacco durato a lungo e sviluppatosi contro diversi obiettivi (6); le azioni inglesi a Taranto furono tutte diversioni rispetto all'obiettivo primario, ossia le navi da battaglia in Mar Grande. Vero che l'Italia era in guerra da cinque mesi, mentre la Pacific Fleet americana fu attaccata a tradimento; pure gli "avvisi di tempesta" non erano mancati, la tradizione militare nipponica era piena di attacchi a sorpresa, e l'incursione aeronavale contro Pearl Harbor era stata prevista con precisione dal "profeta eretico" dell' Air Power americano, il generale William Mitchell, sin dal 1923. Per quanto riguarda poi le reti parasiluri e i palloni frenati (peraltro mancanti anche a Pearl Harbor), le colpe non erano certo da ascriversi a Pasetti o a Campioni, nonostante le loro divergenti opinioni; vera responsabile era la carente produzione industriale italiana, nonché le arretratezze tecniche degli accorgimenti difensivi messi in opera in tal uni settori. E le reticenze tedesche circa lo sviluppo degli inneschi magnetici non facilitavano certo le cose; un più equo scambio informativo, avrebbe certo portato alla costruzione di reti più profonde di quelle allora ritenute adatte in Italia. Circa l'uso fatto (e non fatto) di proiettori e nebbiogeni durante l'attacco, la questione resta aperta: i proiettori erano certo un utile strumento, nel corso di un raid notturno, tanto per individuare quanto per accecare gli attaccanti; tuttavia, l'accensione dei proiettori di bordo avrebbe inevitabilmente fornito,come ben compresero i responsabili della difesa,ulteriori punti di riferimento al nemico, senza contare la possibilità, nella mischia, che i difensori si accecassero vicendevolmente. Il mancato uso dei nebbiogeni scatenò invece diverse polemiche: in effetti, sarebbero stati un efficace artifizio per occultare le navi; ma non bisogna dimenticare che la creazione di una cortina artificiale richiede tempo (e quindi un certo preavviso), soprattutto quando si è all'ancora, e dipende dal vento, che se troppo forte la disperderebbe subito (magari gettandola contro le postazioni contraeree di terra, accecandole). Il disastro di Taranto ebbe un risvolto positivo, anche in questo assomigliando a Pearl Harbor, dove l'eliminazione delle corazzate portò la US Navy alla costituzione di veloci gruppi di combattimento incentrati sulle uniche "capital ship" rimaste, le portaerei, rivoluzionando così la guerra navale. Dopo l'attacco inglese, ottenne infatti maggiore considerazione una specialità che in quei mesi era stata misconosciuta, nonostante che un pugno di ardimentosi pionieri ne avesse già dimostrato l'efficacia ottenendo,con mezzi irrisori,diversi successi (compreso il danneggiamento grave degli incrociatori Kent e Liverpool); né va dimenticato l'attacco notturno di cinque S.79, partiti da Bengasi, contro la flotta inglese all'ancora ad Alessandria d'Egitto che, pur fallito, avrebbe dovuto far suonare qualche campanello d'allarme anche in Italia Pochi giorni dopo Taranto, la 278a Squadriglia aerosiluranti del comandante Erasi danneggiava il Glasgow, e così Mussolini si accorse che anche in Italia esisteva un'arma non meno efficace ("questione portaerei" a parte) di quella impiegata dagli inglesi. Scrive Gianni Rocca (8) rievocando una scena molto consueta fra vertici politici e militari del fascismo: «Quando Pricolo va a portare la bella notizia al Duce si sente rispondere - Molto bene questi aerosiluranti. Quanti ne abbiamo? - Una decina, duce. - Così pochi? - Infatti sono pochi. Ma dieci mesi or sono esisteva soltanto un siluro da esercitazione...». I recenti avvenimenti, e soprattutto la lezione di Taranto, avrebbero portato a riconsiderare la questione. Per la portaerei era ormai troppo tardi, ma qualcosa si fece (seppur poco) per la specialità degli aerosiluranti: dal gennaio 1941 nuove squadriglie sarebbero state create, e nuovi assi (come Graziani e Buscaglia) sfornati dal primo centro addestramento sorto a Gorizia al comando del colonnello Carlo Unia. E i risultati ottenuti, nonostante la cronica carenza di uomini e mezzi, avrebbero ben ripagato il tardivo interessamento mussoliniano. Rivista Aeronautica , Marzo 2000
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La Virata Impossibile La regola è una sola: in caso di piantata di motore in decollo non tentare assolutamente di rientrare in campo. Questo mi diceva il mio vecchio istruttore, e lui se ne intendeva veramente; quando volava da giovane i motori piantavano un giorno sì e uno no. Proseguire diritto anche se davanti ti trovi un muro. L'evento, stando alle statistiche, oggi è molto raro e questo mi escludeva dal pensare che un giorno io stesso avrei contribuito a rovinare le statistiche. Ho avuto una piantata di motore e sono qui a raccontarvi il fatto. Ogni volta che decollo, provo una grande emozione e sotto sotto anche un po' di paura, ma credo che proprio questo dia sapore alla mia passione per il volo. Era una giornata limpida con una leggera brezza dal mare. Volevo fare un volo lungo la costa così, solo per il piacere di volare; vi confesso che quando non volo per qualche giorno, vado in crisi di astinenza. Poi, da qualche mese, avevo un nuovo aeroplano; nuovo per me perché l'avevo comprato usato, ma in perfette condizioni. lo e il mio aeroplano stavamo facendo conoscenza e come capita quando si fà un nuovo incontro, ci studiavamo a vicenda. L'aeroplano nel suo insieme è qualcosa di vivo; ha i suoi umori, le sue impuntature. All'inizio stava un po' sulle sue e io, dal canto mio, non gli davo troppa confidenza, ma negli ultimi giorni mi accorgevo che cominciava a sciogliersi. Aveva visto che lo usavo con attenzione, non gli tiravo mai il collo e in crociera lo lasciavo respirare tenendolo sempre al 65 per cento della sua potenza. Naturalmente gli davo olio e benzina a volontà. Mi sembrava che piano piano, volo dopo volo, stessimo diventando amici, insomma imparavamo a fidarci l'un dell'altro. La prova motore al punto attesa era stata perfetta; i due magneti non perdevano più di 80-90 giri, la miscela a posto, l'elica a passo variabile rispondeva prontamente. Quella volta chissà perché (non lo faccio quasi mai) provai anche la massima potenza al freno. Tutto regolare. Dissi alla torre che ero pronto a decollare e fui autorizzato ad allinearmi in pista e attendere. La temperatura esterna era di 32 gradi e l'attesa non faceva certo piacere al motore; le temperature continuavano a salire. Richiamai e mi dissero di attendere ancora qualche secondo. Ecco l'autorizzazione. Un pilota che non avverte un blocco allo stomaco o insomma un aumento del battito cardiaco al momento che "dà manetta" non è un buon pilota, ve lo dico io. Dopo migliaia e migliaia di decolli, ho sempre avvertito queste emozioni. Ogni volta pensavo che quel decollo avrebbe potuto essere l'ultimo. Lo facevo chiaramente per scaramanzia. Potenza, ancora un'occhiata agli strumenti (lo faccio per antica abitudine) e via inizia la corsa che trasformerà quest'oggetto terrestre in aereo, cioè in strumento volante. L'aereo va tenuto sulla pista fino a quando è pronto al volo; guai a imporgli un decollo anticipato. lo lo so e fino a quando non lo vedo veramente pronto, lo lascio correre. Ora sono in volo; tiro dentro il carrello e sto per richiamare i flap quando... tra il rumore dei 280 cavalli avverto un borbottìo seguito un secondo dopo da un incredibile silenzio. Ho avuto un blocco del motore, la classica piantata nel peggior momento del volo, nella prima parte del decollo. Mi ricordai dell'istruttore: proseguire anche se davanti ci fosse stato un muro... Un muro no !, ma c'era un campo pieno di piccoli alberi, se ci andavo sopra nel migliore dei casi addio aeroplano. Istintivamente, piegai tutto a sinistra l'aeroplano, forse anche aiutandomi col piede. Tutto questo che racconto avvenne in qualche decimo di secondo, non di più. Appena piegato mi ritornò in mente l'istruttore, ma ormai era fatta. Per fortuna l'aereo cadde (in vite?) non sulla strada di grande comunicazione che costeggiava l'aeroporto, ma appena passata la rete di recinzione. Ricordo soltanto di aver visto la terra avvicinarsi velocemente e di non aver avuto coscienza di quello che stava accadendo. Non ho avuto alcuna paura Che cosa accadde dopo, non lo so. Mi sono svegliato in una camera di ospedale e ho provato una piacevole sensazione di benessere. Mi sono guardato intorno e mi sono chiesto che cosa ci stessi a fare in quel posto. La stanza era vuota, il silenzio assoluto. Non avevo il coraggio di chiedere che cosa fosse accaduto. Avevo avuto un incidente aereo, mi disse una simpatica suora. E l'aeroplano?, chiesi. Conciato peggio di lei, rispose la brava sorella. Dopo due mesi di ospedale fui dimesso e prima di andare a casa mi portarono a vedere il mio aeroplano. Rimasi sconvolto; non era altro che un ammasso di rottami dai quali ero stato estratto, mi dissero più morto che vivo. Non credo che potrò più volare; Ma qualche speranza ce l'ho ancora. Chissà se fossi andato diritto…. Il Training I libri di testo – almeno quelli sulla cui copertina troneggiano i nomi di autori ed editori autorevoli - sono tutti concordi : dopo una piantata in decollo, in genere, tentare di tornare verso l’aeroporto costituisce la ricetta migliore per cacciarsi nei guai. Nel nome del pragmatismo, esperti e riviste americane hanno persino coniato a proposito un’espressione sintetica che chiarisce ogni dubbio : The impossible turn ovvero la virata impossibile. Eppure la gente continua a rischiare , talvolta perdendo persino quando l’evento, di per sé, potrebbe risolversi il più delle volte con scarsi al velivolo, ferite leggere (o magari nessuna per gli occupanti) e un ritemprato amor proprio per aver eseguito un atterraggio d’emergenza secondo manuale. Senza alcun dubbio esistono alcune situazioni durante le quali è possibile optare per un ritorno all’aeroporto di partenza, ma si tratta di circostanze che richiedono una capacità decisionale e niente indugi, senza tener conto di una padronanza del mezzo non comune, spesso al di sopra dell’abilità di un pilota medio. Per non ritrovarsi nel dubbio qualora la piantata dovesse verificarsi davvero ( torno ? ci provo oppure no), è molto meglio esercitarsi in anticipo e padroneggiare una manovra, per poi eseguirla quasi in maniera automatica qualora se ne presenti la necessità. (è quesrto lo scopo dell’addestramento). Ma perché non tornare indietro ? La quota sufficiente A parte il rischio di un’atterraggio (garantito con vento in coda) in direzione opposta rispetto al traffico in decollo, il punto chiave sta nella definizione di "quota sufficiente alla manovra". Quando il motore pianta, tempo a disposizione e quota sono elementi chiave di ogni manovra. In fase di salita (in genere Vy + 5 – 10 ktn, cioè miglior rateo di salita più o meno una manciata di nodi) l’assetto è tale che in acaso di piantata è necessario intervenire immediatamente per evitare un rapido decadimento della velocità. In genere si può considerare attendibile un tempo di reazione allo shock di circa 4 secondi. A quel punto, per evitare lo scenario stallo-vite, si puo tentare il 180° verso il campo: con un rateo standard (3 gradi al secondo) diventa necessario un intero minuto (180°:3° = 60). La virata, va tenuto presente, richiede anche uno spazio adeguato: maggiore la velocità, più ampio il raggio (a 70 nodi, una velocità tipo, a rateo costante ci si allontana di circa 2.200 piedi, quasi 700 metri, con la necessità di continuare la virata di almeno altri 45° gradi per puntare almeno nella direzione generale della pista). Se la piantata è avvenuta a circa 300 piedi, una rapida addizione è in grado di dissipare tutti i dubbi: 4 secondi di tempo di reazione, un minuto per il 180, 15 secondi per gli altri 45° necessari a puntare verso il campo e già siamo a 1 minuto e 20 (79 secondi), calcolato il rateo di discesa medio di un addestratore (circa 700 piedi al minuto al miglior rateo di planata, ali livellate, elica windmilling, circa 1.000 in virata), 79 secondi si traducono in una perdita di quota di circa 1.300 piedi, "appena" 1.000 BGL (Below Ground Level) se la manovra ha avuto inizio, come supposto inizialmente, a 300 piedi AGL. Il "mito" della virata stretta Puntare, come verrebbe intuitivo, a una virata "stretta", comporta purtroppo altri rischi, prima di tutto l'incremento della velocità di stallo (pari alla radice quadrata del fattore di carico). Alcuni numeri: se la Vs - ali livellate - è di 49 nodi, con 35° di bank si passa a 53 (+8 per cento), con 45° si sale a 59 (+20 per cento), con 60° a 71 nodi (+43 per cento) e con 75° a 97 nodi (+97 per cento). Logico quindi dedurre come un angolo di 45° costituisca una buona linea guida. Ma non è finita. All'incremento del bank (supponiamo oltre i 20°) va associato anche un aumento della velocità di planata (da 70 a 80 nodi per i 45° max del nostro esempio), il che inciderà tuttavia anche sul raggio della manovra. E il fattore tempo? A 80 nodi e con 45° di bank i 180° richiederanno circa 15 secondi: sommati ai 4 iniziali e al secondo aggiuntivo per i 10° necessari a puntare verso il campo, si arriva a un totale di 20, Ammesso che il rateo di discesa rimanga immutato (1.000 piedi al minuto), 20 secondi equivalgono a una perdita di quota di 333 piedi, 33 in più rispetto ai 300 di partenza. E fin qui si tratta ancora di numeri. Non abbiamo poi considerato l'effetto di un vento al traverso e il suo influsso sul raggio di virata (ampiezza, durata), sul lato più favorevole (destra? sinistra?) e sull'atterraggio stesso in condizione di crosswind. In breve, sotto i 600 piedi, le probabilità sono contro il pilota. Se in rullaggio o in fase di controlli/decollo non sono stati colti i segni premonitori di una piantata imminente, una volta in aria, la migliore decisione, di regola, è quella di scegliersi un punto in un arco spaziale di circa 120° (60 + 60) rispetto all'asse della pista. Se va proprio male scasserete l'aereo e/o ferirete voi stessi e il vostro orgoglio. Ma non correrete il rischio di una sfida (perdente) con la "virata impossibile" Volare ottobre 1996
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Si sono celebrati quest’anno i settant’anni di una delle più belle pagine della storia dell'aviazione italiana. A Norfolk sono le 14.20 del 13 novembre 1926. Alla partenza dell' edizione della Coppa (o Trofeo) Schneider di quell' anno sono schierati sei idrocorsa, tre italiani e tre americani, che si contendono la vittoria finale. L'ordine di partenza dei "racer" è il seguente (tra parentesi il numero di gara dipinto sulla fusoliera di ciascun velivolo): (1) tenente Bacula su Macchi M.39 (M.M.74); (2) tenente Tomlison su Curtiss R3C-3; (3) capitano Ferrarin su Macchi M.39 (M.M.75); (4) tenente Cuddihy su Curtiss R3C-4; (5) maggiore De Bernardi su Macchi M.39 (M.M.76); (6) tenente Schilt su Curtiss R3C-2. Grande è l'attesa da parte del numeroso pubblico, stimato in circa 30.000 persone, accorso per assistere a questa gara che potrebbe assegnare definitivamente agli Stati Uniti l'ambita coppa Schneider avendo già vinto le ultime due edizioni disputate a Cowens (1923) e Baltimora (1925). Grandi assenti a questa competizione i britannici e i francesi che non sono riusciti, per varie ragioni, a presentare al via velivoli competitivi. A Norfolk manca soprattutto lo splendido idrocorsa inglese Supermarine S.4, progettato da Reginald Mitchell, ma non ancora perfettamente a punto. Gli idrocorsa americani sono del tipo biplano costruiti dalla ditta Curtiss (velivoli di ridotte dimensioni ma spinti da motori di grande potenza), mentre quelli italiani sono dei Macchi M.39 meritevoli di una attenzione particolare. Dopo la partecipazione all'edizione del 1925, dove il miglior velivolo italiano (Macchi M.33) è giunto terzo ma con una velocità media di ben 100 chilometri orari al di sotto di quella del vincitore (l'americano Doolittle su Curtiss R3C-2), sono poche le speranze di poter partecipare e ottenere un buon risultato alla corsa che deve svolgersi negli Stati Uniti l'anno successivo. Nel febbraio del 1926, il Ministero dell' Aeronautica richiede alla ditta Macchi di Varese lo studio per un idrocorsa che deve installare il motore sviluppato dalla Fiat (siglato A.S.2), che eroga 800 HP di potenza. Questo propulsore, il cui peso "a secco" è di 388 chilogrammi, è un dodici cilindri a "V" a 60° con basamento in alluminio, raffreddato ad acqua, una cilindrata di 31,34 litri, tre carburatori e un rapporto di compressione di 6. Gli 800 HP di potenza li eroga a un regime massimo di 2.300 giri con un consumo specifico di 230 gr/HP/h. Il direttore tecnico della Macchi, l'ing. Mario Castoldi, si mette subito al lavoro elaborando un progetto siglato M.39 nel quale introduce alcune soluzioni tecniche già sperimentate dai colleghi americani e inglesi sui loro idrocorsa. Da sottolineare infatti l'installazione di radiatori alari a bassa resistenza, l'impiego di nodi in fu soliera ottenuti da blocchi di duralluminio ed eliche ricavate da forgiati sempre ricavati da quest'ultimo materiale (si tratta della prima lavorazione assoluta effettuata in Italia). «L 'M.39 è un monoplano a fusoliera ad ala abbassata e controventata con tiranti profilati e galleggianti doppi», così descrive tecnicamente l'ing. Castoldi la sua realizzazione. Il progetto è stilato in pochi mesi e viene approvato dalle autorità militari che commissionano alla Macchi la costruzione di cinque idrocorsa a cui vengono assegnate le matricole militari (M.M.) 72, 73, 74, 75 e 76. I primi due, le M.M. 72 e 73, sono destinati all'allenamento dei piloti che inizia a partire dal luglio 1926 ma, come si legge nella testimonianza di Mario De Bernardi riportata nel libro di Alberto Jacopini, non mancano i grattacapi per piloti e tecnici della Macchi e della Fiat. Si legge infatti: «Durante i collaudi dei due primi M.39 scuola, con motore da 600 HP (questi installano un motore Fiat A.22 ), a superficie portante più grande, si verificarono già gran deficienze; il tempo stringeva, mancava appena un mese alla partenza >> riferii la situazione esatta al comandante del Genio Aeronautico che mi comprese e senza indugio si recò presso la ditta Macchi per autorizzarla a farmi fare le prove necessarie alla sollecita messa a punto dei velivoli definiti da corsa. Fu portata infatti una prima modifica con lo spostamento del redan sugli scafi. Due giorni dopo ,esattamente il 30 agosto pilotato dal collaudatore della ditta Romeo Sartori, il velivolo compiva il primo volo. Intravidi subito la possibilità di ottenere un ottimo rendimento, e insieme all'ing. Castoldi, che di questa bella macchina era stato l'ideatore, apportai altre modifiche. L'aereo migliorò notevolmente. In una prima prova di velocità raggiunsi i 412 chilometri orari malgrado che il motore desse continui ritorni di fiamma eliminati tarando l'affluenza dell'aria al carburatore. La cosa naturalmente non fu così semplice a farsi come appare dicendo, occorsero esperienze, prove e riprove». I piloti prescelti a condurre gli M.39 per difendere i colori italiani sono, oltre a Mario De Bernardi, Arturo Ferrarin (che ha sostituito Vittorio Centurione deceduto nelle acque del lago di Varese mentre provava un M.39 da scuola), Adriano Bacula e Guascone Guasconi (quest'ultimo funge da pilota di riserva). Gli allenamenti si svolgono all'idroscalo della Schiranna sul lago di Varese con idrovolanti tipo Macchi M.18, M.33 e M.39 fino a settembre quando è prevista la partenza per gli Stati Uniti. Sul transatlantico "Conte Rosso" si imbarcano il personale e il materiale del team italiano che giunge a New York il 23 ottobre proseguendo poi, in treno, per Norfolk. Nella base navale americana che ha sede in questa località viene messo a disposizione della squadra italiana un hangar per eseguire il rimontaggio degli idrocorsa che si svolge rapidamente, sotto la direzione dell' ing. Castoldi, grazie all'abilità dei tecnici della Macchi e della Fiat quali l'ing. Ferretti, il capo motorista Benedetto, i sigg. Damonte, Vigiglio, Pedetti e Cerutti. Il 31 ottobre e il primo novembre è provato a terra l'M.39 del ten. Bacula, velivolo destinato all'allenamento dei piloti italiani. Il 3 novembre De Bernardi decolla con questo idrocorsa, ma dopo pochi minuti di volo il motore ha un ritorno di fiamma L'incendio sviluppatosi è spento dallo stesso De Bernardi, che ammara prontamente, aiutandosi poi con il suo giubbotto di cuoio e con un estintore portato da un idrovolante della marina americana accorso in aiuto. L'A.S. 2 continua però a manifestare problemi tanto che le operazioni di messa a punto si susseguono incessantemente nei giorni successivi. Il 9 novembre è la volta del cap. Ferrarin che decolla con il suo M.39 ma, causa un violento temporale, è costretto ad ammarare mostrando tutta la sua abilità e destando viva ammirazione tra i presenti, tanto che la stampa locale elogia il "Moro" affermando che: «Dopo una simile prova ai velivoli italiani potrebbero essere risparmiate le prove di navigabilità; ed ogni dubbio circa la straordinaria abilità dei piloti viene spezzato via di botto. I piloti americani sanno ora di avere di fronte competitori coi quali bisogna fare i conti». Queste prove di navigabilità si svolgono comunque l' 11 e il 12 novembre durante le quali l'M.39 del ten. Bacula si danneggia urtando contro un'imbarcazione, mentre l'idrocorsa di Ferrarin è costretto nuovamente a un ammaraggio d'emergenza per un guasto al motore. Purtroppo le tenebre calano rapidamente e l'M.39 rischia di essere speronato dai natanti e dai battelli in navigazione e, solo grazie a uno dei due apparecchi americani di soccorso che continua a volargli attorno, questo pericolo viene scongiurato. Portato l'M.39 "in secca", Ferrarin attribuisce l'avaria occorsagli alla rottura di bielle del motore, diagnosi rivelatasi esatta, che rende necessaria la so¬stituzione dell'intero propulsore con l'altro di riserva. Il tempo stringe, sono le ore 21.00, e l'indomani è l'ultimo giorno consentito per effettuare le prove. Dopo un rapido incontro tra i componenti del team italiano si decide la sostituzione del motore anche se l'impresa è ritenuta molto difficile perché richiede una giornata intera di lavoro. Le imprese incredibili spesso però avvengono, cosicché alle ore 14.00 del giorno dopo Ferrarin sale sull'M.39 con il nuovo propulsore per iniziare la messa a punto e le prove di navigabilità che si concludono alle ore 16.00. Intanto anche il team americano ha avuto le sue disavventure con la morte di due dei suoi piloti prescelti per gareggiare a Norfolk, i tenenti Norton e Conant. I loro idrocorsa iscritti sono il Curtiss R3C-3 che monta un motore Packard 1A-1500 da 650 HP, il Curtiss R3C-4 propulso da un Curtiss V1550 da 685 HP il Curtiss R3C-2 propulso da un Curtiss V1400 da 600 HP. Riserva è l'idrocaccia Curtiss tipo F6C-3 "Hawk" con un motore D-12A da 507 HP. I primi tre apparecchi hanno galleggianti molto piccoli, che garantiscono un aumento della velocità ma presentano l'inconveniente di far uscire l'idrocorsa dall'acqua prima ancora che questo abbia acquistato una velocità sufficiente per sostenersi in aria; le estremità delle eliche possono quindi urtare contro le onde danneggiandosi. Si preannuncia dunque una gara dal risultato molto incerto: entrambi i contendenti non conoscono esattamente le reali capacità dell'avversario e le prestazioni dei propri idrocorsa sono gelosamente tenute segrete. Il 13 novembre, giorno di gara fissato, l'ordine di partenza vede il ten. Bacula decollare per primo ma, per "ordine di scuderia", questi non deve forzare l'andatura per riuscire a concludere la competizione. De Bernardi e Ferrarin devono invece subito forzare per condurre in testa la corsa. Sul percorso vi sono poi il magg. Guglielmetti e il cap. Guasconi che hanno il compito di segnalare con i razzi luminosi la posizione degli M.39 rispetto a quella dei "racer" americani. Tattica, questa, che permette ai piloti di conoscere in tempo reale l'evolversi della corsa e di adottare quindi la condotta di gara più opportuna. Ferrarin poi, avendo a disposizione 15 minuti per poter decollare, attende che il ten. Cuddihy (che secondo il sorteggio deve partire dopo di lui) decolli con il suo Curtiss R3C-4 per poi impostare la corsa su questo pilota americano. Al primo giro il pubblico si infiamma in quanto proprio Cuddihy stabilisce il momentaneo miglior tempo facendo segnare 232,427 miglia per ora (mph), entusiasmo che però subito si ridimensiona al passaggio del "Moro", che sfreccia a 234,631 mph subito migliorato dal compagno De Bernardi con 239, 443 mph. Proprio De Bernardi così ricorda quei momenti della gara: «Dai primi giri ebbi la sensazione che il velivolo procedeva regolarmente. La velocità media aumentava a mano a mano, consumandosi la benzina, si alleggeriva l'apparecchio; ma questo aumento di velocità portò con sé un tale aumento di temperatura dell'olio da costringermi ad un lavoro continuo di regolazione della potenza motrice mediante calcolate riduzioni dei numeri di giri del motore». La classifica dopo due dei sette giri totali vede in testa proprio De Bernardi, seguito da Ferrarin, Cuddihy e Bacula. Purtroppo Ferrarin durante il terzo giro è costretto al ritiro per una "panne" al motore con grande disappunto sia del pilota italiano, che viene sportivamente applaudito dagli spettatori americani, sia dai tanti scommettitori che lo davano 3:1. Al settimo giro il Curtiss R3C-4 di Cuddihy ammara anch'esso per problemi all'alimentazione del combustibile spianando quindi la via del successo all'M.39 di Mario De Bernardi che taglia il traguardo al primo posto alla velocità media di circa 246 mph, seguito dal ten. Schilt con 231,363, da Bacula con 218,006 e dal ten. Tomlison con 136,953. Sempre dalla testimonianza di De Bernardi si conosce l'umore del pubblico americano nell'immediato post-corsa: «La folla che aveva assistito appassionatamente e seguito ogni fase della corsa, sembrava ora impazzita, e mi accolse con tali applausi che certamente non sarebbero stati meno clamorosi e spontanei se la vittoria avesse arriso ad un americano». Il successo italiano genera un grande entusiasmo tanto che la stampa internazionale dedica pagine e articoli ai piloti e agli apparecchi italiani, mentre si succedono le visite di personalità militari e industriali che vogliono personalmente congratularsi con gli italiani. Il presidente della Curtiss, mr. Keys, invia addirittura all'addetto aeronautico italiano il seguente messaggio: «Il vostro è il risultato più importante ottenuto dalla guerra in poi. Aver fatto, in un solo anno, tanti aeroplani e motori c'è di che essere orgogliosi». Il periodico Aviation poi, così esalta e giustifica questa vittoria: «Il maggiore De Bernardi,vincitore del prezioso trofeo (la Coppa Schneider n.d.r ) a una velocità di ben 246,469 miglia, ha condotto una splendida gara, ma il suo successo è il risultato di concertati sforzi ed infaticabile energia dell'intero team italiano, dai meccanici in su; i quali vennero in questo paese con tre apparecchi quasi non provati, nuovi anche per essi come lo erano per noi quando per la prima volta mettemmo i nostri occhi sulle belle linee dei veloci Macchi-Fiat. Considerazioni che ben riassumono la vittoria italiana a Norfolk grazie anche, è giusto sottolinearlo, al cavalleresco comportamento degli americani che più volte hanno aiutato e assistito il team italiano durante questa competizione fornendo la benzina per gli M.39, nell'attesa che quella ordinata giungesse dal Canada, e cedendo addirittura delle candele tipo B.C. montate sui motori dei loro idrocorsa per sostituire quelle Champion installate sui propulsori A.S.2, le cui prestazioni non erano delle più soddisfacenti. Non si è ancora spento l'eco della gara del 13 novembre che, pochi giorni dopo (esattamente il 17), lo stesso De Bernardi ancora a Norfolk conquista il nuovo record del mondo di velocità raggiungendo con l'M.39 la velocità massima di 258,7 mph (416,618 km/h) e facendo registrare, in un passaggio sulla base cronometrata di tre chilometri, la punta massima di 272 mph (437,648 km/h). Tornando in patria, il team italiano è accolto da manifestazioni di entusiasmo e ambiti riconoscimenti. A Mario De Bernardi è consegnato il 10 Trofeo Harnon concesso dalla Lega Internazionale degli Aviatori. Gli idrocorsa M.39 sono invece assegnati prima alla Schiranna per l'allenamento dei piloti, poi al Reparto Alta Velocità con sede all'idroscalo di Desenzano del Garda. La vittoria italiana del 1926 rimane comunque scritta negli annali della storia aeronautica internazionale e uno dei cinque idrocorsa M.39 lo si può ancor ammirare nella sua livrea color rosso presso il Museo Storico dell' Aeronautica Militare di Vigna di Valle. Rivista Aeronautica Novembre 1996
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A pranzo con il comandante All'esame del brevetto di pilota privato ho sbalordito i miei esaminatori. Da tempo, mi ha detto l'esaminatore, non trovava uno bravo come me. lo, quando mi metto in testa una cosa, la devo fare al meglio. Così, sabato scorso, ho organizzato un bel viaggetto con la mia ragazza e due nostri amici. Stabilita la meta, un piccolo aeroporto in pianura (meglio evitare le montagne, la prima volta) con un ottimo ristorante, mi metto subito a studiare la rotta, i tempi di volo, i possibili alternati, le quote da mantenere nelle zone regolamentate e tutto quello che ci vuole per un volo sicuro e... per non fare una brutta figura. Il giorno stabilito non è poi così bello come era previsto: niente di preoccupante però, solo un po' di foschia e nubi basse. Mi danno un ceiling di 2.000 piedi, che per me è più che sufficiente. Meticolosa la preparazione dell'aeroplano. I check-list li faccio davvero, e non una sola volta. Per poco, non mi dimenticavo dell'olio al motore; ne mancava, e ne ho aggiunto un litro. Forse troppo, ora che ci ripenso. Sarebbe stato meglio controllare con l'astina, prima di versare l'intera confezione. Ma che può succedere? Meglio di più che di meno... Finalmente gli amici arrivano (per sfottermi mi chiamano comandante), saliamo a bordo e siamo pronti al decollo. La mia ragazza, Luciana, mi farà da navigatore Il decollo è perfetto; un solo errore: dimentico di inserire la pompa elettrica. Nulla di grave, ma mi da un po' fastidio, visto che nelle cose che faccio cerco sempre la perfezione. Penso di essere scusabile: è la prima volta che porto passeggeri a bordo. Devo essere calmo e lo sono, anche se mi tremano un po' le mani, che forse stringono troppo il volantino. Ma la prua? Quale prua devo mettere dopo il decollo? 120 gradi, mi dice Luciana. Ma per qualche minuto sono andato per 90°; ora forse è il caso di correggere. Mettiamo 135 per rientrare in rotta, e vediamo di riconoscere i posti che sorvoliamo. Come sono diversi, visti dall'alto, i paesi, le strade, i fiumi. Intanto occorre tener presente l'ora di partenza, perché, mantenendo la velocità stabilita, ai 23' dobbiamo sorvolare il primo punto di riporto. Ma arrivano i 23', poi i 24', i 25' (intendo minuti dopo l'ora), ma sotto è campagna. Meglio rientrare in rotta (ricordate? 120 gradi) e aspettare il prossimo punto di riporto sul quale dovrò passare ai 44'. Eccolo, siamo sulla verticale. Non potete immaginare la mia soddisfazione; ma sono soltanto i 39'. Vuoi dire che abbiamo vento in coda e dobbiamo rivedere il tempo sul prossimo punto. Stiamo volando da circa 40 minuti (avrei dovuto cambiare serbatoio alla mezz'ora, ma non l'ho fatto) e l'aeroporto d'arrivo non dovrebbe essere lontano. Finalmente qualcuno da dietro dice di vederlo, avanti sulla sinistra. Anche a me sembra che quello sia l'aeroporto. Mi dirigo verso quel posto, e comincio a prepararmi all'atterraggio. Tiro intanto fuori il carrello. Man mano che mi avvicino, però, mi rendo conto che si tratta soltanto di un prato di colore diverso dagli altri. Niente da fare; ritorno indietro. Mi accorgo di avere una prua di 270 gradi. Guardiamo bene la carta di navigazione, dico, cercando di mantenere una certa calma forzata. Tutti e quattro guardiamo la carta e ognuno di noi dice la sua: è più avanti, più a destra, dobbiamo tornare indietro. Non c'è un punto di riferimento, un qualcosa che ci indichi dove siamo. Sto facendo dei larghi "trecentosessanta", senza alcun risultato. Ora ricordo che l'istruttore mi aveva detto che per vedere di più in caso di difficoltà, bisogna salire. Sono a 500 piedi dal suolo, solo ora me ne accorgo. Dò potenza e cerco di salire. Con la potenza che ho dato (25 di pressione e 2.500 giri), l'aereo dovrebbe salire almeno a 500 piedi al minuto, sale invece a poco più di duecento e la velocità diminuisce. C'è qualcosa che non va. Ora saliamo in lenta spirale e purtroppo, dopo qualche minuto, mi trovo in nube. Fermo la salita, ma non riesco a tenere fermo l'aeroplano: la velocità aumenta paurosamente, tiro il volantino e sento subito il suono dell'avvisatore di stallo. Lo spingo in avanti, poi ancora indietro. Non so come, proprio non so come, a un certo punto usciamo dalle nubi in virata stretta (60 gradi o forse più). Raddrizzo l'aeroplano, riduco potenza e... sotto di noi un piccolo aeroporto, cioè il miracolo. Non ho più la voce per parlare alla radio, ormai devo atterrare a qualunque costo. Fuori il carrello: dannazione il carrello è già fuori, ecco perché l'aereo non saliva. Flap, eccetera e via all'atterraggio: perfetto, ma in senso inverso alla pista in uso. Un altro piccolo aereo ha dovuto riattaccare all'ultimo momento. Pazienza, anche se sopporteremo qualche rimprovero siamo finalmente a terra. Oltre tutto questo non è il nostro aeroporto di destinazione. E non ha ristorante. Volare settembre 1999
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Fu Sir Frank Whittle a far compiere all'aviazione il più grosso salto di qualità del XX secolo, dopo quello iniziale dei fratelli Wright. E' vero che il turbogetto era stato inventato, nello stesso periodo, dal giovane ingegnere tedesco Pabst von Ohain e realizzato da Heinkel, ma il destino delle nazioni, facendo prevalere gli alleati occidentali sulla Germania nella seconda guerra mondiale, influenzò anche il destino delle invenzioni e degli inventori. Sicché il turbogetto concepito e faticosamente realizzato da Whittle divenne il capostipite di quella numerosa famiglia di turbine a gas, che oggi fanno volare tutti gli aeroplani (tranne i più piccoli esemplari da turismo e da primo periodo) e hanno altre ) e hanno altre applicazioni navali e industriali. Geniale, dotato di vasta cultura tecnica e di grande abilità manuale, tenace fino all'ostinazione, l'inventore inglese scomparso a 89 anni a Columbia Maryland, USA il 9 agosto 1996; portò al successo la sua iinvenzione nonostante le numerose difficoltà.Ciò anche perché fu favorito dalla sorte in molte occasioni, a cominciare da quella che lo fece diventare ufficiale pilota della RAF, sebbene fosse stato scartato alla prima visita medica per insufficienza toracica e bassa statura. «Non voglio che si dimentichi che un tempo ho avuto qualche abilità come pilota» scrive nella prefazione del suo libro "Jet" (Londra 1953); e aggiunge «il fatto non è senza importanza e io ho sempre sostenuto che la mia esperienza di pilota ha contribuito immensamente al mio lavoro sul motore a getto». Frank Whittle nacque a Coventry il 10 giugno 1907 in una famiglia di modeste condizioni: suo padre era un meccanico abile e ingegnoso, che nel 1916 si mise "in proprio" acquistando una piccola industria dal nome imponente, Leamington Valve and Piston Ring Company dove però, almeno agli inizi, costituiva da solo tutta la forza lavoro. Fu lì che il piccolo Frank imparò a servirsi delle mani e delle macchine utensili, compreso il tornio. Andava anche a scuola e vinse una borsa di studio che gli permise di andare a Leamington College. Fu in quel periodo che incominciò ad appassionarsi all' aviazione, solo sui libri però, perché non aveva alcuna occasione di avvicinarsi a un aeroplano. Nel 1922 provò ad arruolarsi nella RAF, respinto una prima volta alla visita medica, ritentò l'anno dopo, e nel 1923 entrava finalmente a Cranwell come allievo specialista. Durante i tre anni di quel corso, in cui trovò anche il tempo e il modo di dedicarsi agli aeromodelli, il suo comandante lo segnalò per il corso allievi ufficiali piloti. Dal 1926 al 1928 Whittle imparò a volare sull' Avro 504K a motore rotativo e sul caccia Bristol. Sul suo libretto un istruttore scrisse con inchiostro rosso: «Over-confidence (ha troppa fiducia in se stesso). Dà troppa importanza all'acrobazia e trascura la precisione; deve imparare a volare con più disciplina. Vuol dare spettacolo e vola troppo basso». Ma alla fine il giudizio fu molto positivo, classificandolo "al di sopra della media" Prima idea del turbo getto Ogni semestre gli allievi dovevano presentare una tesi; per il quarto semestre Whittle scelse come tema "Sviluppi futuri della progettazione degli aeroplani", in cui diceva fra l'altro che per raggiungere le alte velocità sarebbe stato necessario volare ad altissima quota, dove la resistenza dell'aria è minore; il motore a pistoni era inadatto per le alte velocità e Whittle proponeva la propulsione a razzo o per mezzo di eliche mosse da motori a turbina. Sul momento la tesi non suscitò molto interesse. Alla fine del corso Whittle, finalmente ufficiale pilota, fu assegnato al 111° Squadrone da caccia e poi divenne istruttore di volo, continuando a pensare a un nuovo propulsore per aeroplani. Per qualche tempo pensò di utilizzare un motore a pistoni per azionare il compressore (soluzione adottata poi in Italia dall'ing. Campini), successivamente gli venne in mente che la soluzione ideale poteva essere una turbina, e pensò quindi di fare a meno dell'elica e di sfruttare per la propulsione la spinta del gas. E' bene chiarire subito che Whittle non è l'inventore della turbina a gas, che esisteva già ma aveva scarse applicazioni pratiche, perché i compressori e le camere di combustione erano inadeguati. Sugli aeroplani era impiegato già da tempo (era apparso in Francia nel 1916) il turbocompressore, una piccola turbina mossa dai gas di scarico che azionava un compressore centrifugo per compensare la minor densità dell'atmosfera alle alte quote. Il motore a scoppio, specie se sovralimentato, è piuttosto complicato e le masse in moto alternativo (pistoni) sono un eterno problema: con il turbogetto il motore a combustione interna ripeteva ciò che era già accaduto al motore a vapore dove alla soluzione a cilindro e stantuffo inventata da Watt nel XVIII secolo si era sostituita la turbina inventata da Parson verso la fine del XIX. Il turbogetto, un motore semplice e leggero, fu quindi quasi il frutto di un'evoluzione naturale; ma se concettualmente è molto semplice, la sua realizzazione fu resa difficile dall' altissima temperatura dei gas uscenti dalla camera di combustione e dall'altissima velocità di rotazione della turbina e del compressore. In quegli anni si correva la Coppa Schneider, gara di velocità per idrovolanti, e nel 1928 De Bernardi su Macchi M.52R superava i 500 km l'ora; negli ambienti più informati si capiva che il sistema motore a pistoni/elica stava raggiungendo i limiti delle sue prestazioni. Ma ancora nessuno dava retta a Whittle allorché parlava del suo motore a reazione e alcuni, anzi, lo consideravano un po' svitato; con la sola eccezione di un suo collega istruttore, C.F.S. Johnson, che nella vita civile era un esperto di brevetti. Con lui il giovane inventore preparò i documenti per la domanda di brevetto del turbogetto, che fu presentata il 16 gennaio 1930. Il ministero dell' aria ne fu informato. Ma considerando l'invenzione di nessun interesse, non la fece mettere neppure sulla secret list. Il che comportava che il brevetto sarebbe stato reso pubblico in tutto il mondo diciotto mesi dopo la concessione. Dopo un rischioso periodo da pilota di portaerei, durante il quale eseguì numerosi lanci con la catapulta di cui ne studiò e propose un nuovo tipo (che non fu accettato), Whittle fu inviato presso l'Università di Cambridge per frequentare i corsi di laurea in ingegneria meccanica. Fu questa una svolta essenziale nella sua vita, che gli consentì di mettere finalmente una solida base culturale sotto le sue capacità pratiche di inventore. Il brevetto scaduto Nel gennaio 1935 venne a scadenza il suo brevetto preso nel 1930, per rinnovarlo occorrevano 5 sterline; il ministero dell'aria informò Whittle che non avrebbe pagato quella somma. Cinque sterline, anche se allora valevano molto più di adesso, non erano poi una cifra astronomica per un ufficiale pilota: il fatto che l'inventore abbia lasciato scadere il brevetto dimostra fino a qual punto avesse perduto le speranze di vedere realizzata la sua invenzione. Forse, come gli avevano detto in tanti, aveva precorso i tempi: la metallurgia non era in grado di fornire palette di turbina in grado di resistere al calore e allo sforzo. E da buon tecnico qual era riconosceva che l'obiezione era fondata. Ma nel maggio dello stesso anno gli arrivò una lettera che avrebbe cambiato la sua vita. Un suo compagno di corso di Cranwell gli scriveva che un uomo "molto importante" in una grossa industria aveva dimostrato un vivo interesse per quell'invenzione relativa all'aeroplano senza elica. Whittle, senza molte speranze, decise di provare. L'uomo molto importante era tal J.C.B. Tinling, ex ufficiale pilota, che aveva dovuto abbandonare l'aeronautica in seguito a un incidente di volo che l'aveva lasciato invalido. Si intesero presto, il brevetto fu rinnovato con qualche modifica e formarono nel marzo 1936 una società che si chiamava Power Jets Ltd., con un capitale di 10.000 sterline. Whittle ebbe le qualifiche di Honorary Chief Engineer e consulente tecnico. Il ministero dell' aria stabilì senza ombra di dubbio che, in qualità di ufficiale in servizio permanente, avrebbe potuto dedicarsi alla sua invenzione soltanto nel tempo libero. Cominciò poi una collaborazione con la British Thomson Houston, che produsse il primo motore a getto quasi gratis. I problemi metallurgici e di combustione erano tremendi; a complicare le cose ci si mise l'IRA, l'organizzazione dei terroristi irlandesi, che nel 1938 fece esplodere un certo numero di bombe. La polizia era molto insospettita da quel nucleo di persone che lavorava in segreto su un progetto, di cui non era consentito rivelare nulla se non a pochissimi autorizzati a saperlo. Con un po' di fortuna e forse con un intervento in alto loco, Scotland Yard fu placata e non diede altre preoccupazioni. Il motore cominciò a funzionare nell'aprile 1937, precedendo quello tedesco, che girò per la prima volta in una notte del settembre dello stesso anno; il destino dei due turbogetti è parallelo ma presenta importanti differenze che è opportuno sottolineare. Pabst von Ohain ebbe la fortuna di convincere Ernst Heinkel della bontà del suo progetto in occasione del suo primo incontro con lui, nel marzo 1936. Heinkel, che era un geniale industriale aeronautico e anche un uomo onesto, sfruttò l'invenzione del giovane berlinese, assistente di fisica all'Università di Gottigan, impegnando nella difficile realizzazione di quel progetto le imponenti risorse della sua industria, senza però liquidare l'inventore, affidandogli responsabilità e lasciandogli la sua parte di gloria e di compenso materiale. Whittle, mentre da un lato aveva una visione di prima mano dei problemi aeronautici, dall'altro dovette lottare contro una quantità di ostacoli e limitazioni e non ebbe dietro di sé l'indispensabile organizzazione tecnico-scientifica e la potenza finanziaria di una grande industria, se non quando entrò in campo la Rolls-Royce nel giugno 1941. Il primo volo Nel 1940 il ministero dell' aria cominciava a mostrare un maggiore interesse a fornire aiuti economici, ordinando alla Power Jets un secondo motore, il W.2, e alla Gloster Aircraft Company un aereo sperimentale per tentare il primo volo a getto: fu il Gloster F.28/39, che volò per la prima volta il 15 aprile 1941. Sebbene l'Heinkel He.178 avesse già volato, fu comunque una gran soddisfazione per Whittle vedere la sua creatura nell'aria. L'amico Pat Johnson, quello che aveva fatto brevettare la sua invenzione del 1930, gli batté una mano sulla spalla e gli disse «Frank, il tuo aeroplano vola», al che Whittle rispose: «Well, that was what it was bloody well designed to do, wasn't it?», che si potrebbe tradurre, smorzando i toni, «non era forse stato progettato per questo?». Il primo volo a getto fu indubbiamente una grande vittoria per tutti coloro che avevano creduto nel nuovo tipo di propulsore, specialmente per quelli che ci avevano lavorato senza risparmiarsi; ma non era un punto di arrivo e non rappresentava la fine delle difficoltà. Anzi, si può dire che le difficoltà cominciavano proprio allora, trattandosi di passare da un prototipo di motore sperimentale a un propulsore capace di fornire una spinta adeguata agli usi bellici, adatto ad essere prodotto in serie, e tanto sicuro da convincere lo stato maggiore della RAF a dirottare sulla sua produzione le risorse impegnate a potenziare i reparti e a reintegrare le perdite degli aerei convenzionali. Il W.1 dava 800 libbre di spinta, bisognava arrivare al doppio. Whittle si mise subito a progettare il W.2, da 1.600 libbre, che sarebbe stato montato sul primo caccia a reazione, il Gloster F.9/40, che poi fu battezzato "Meteor" e fu ordinato dal ministero dell' aria nel settembre 1940. Ma questo motore prima di raggiungere la massima potenza impazziva, presentando il fenomeno del "surging" (stallo al compressore); la direzione del flusso si rovesciava, gas caldi e persino fiamme tornavano indietro sul compressore. Il motore rischiava di distruggersi. C'erano poi gli eterni problemi delle palette, che continuavano a rompersi. Era chiaro che la piccola ditta Power Jets non aveva i mezzi per fronteggiare questi problemi, intervennero quindi la Rover e la Rolls-Royce che, grazie al buon senso e alla lealtà di Stanley Hooker, non misero da parte Whittle, ma tennero sempre .nel massimo conto il suo apporto e i suoi consigli. L'inventore lasciò la realizzazione del W.2 alla Rolls-Royce e si mise a progettare il W2/500 e il W2/700, da cui poi derivarono il Derwent e il Nene. Nel maggio 1943 il W2.B raggiunse le 1.600 libbre di spinta e le mantenne per 100 ore. Nel 1943 Frank Whittle fu promosso Air Commodore e l'anno successivo egli ebbe la soddisfazione di sapere che i "Meteor" del 616° Squadrone stavano facendo strage delle bombe volanti tedesche V 1 In America Intanto, nel settembre del '41, tre persone della Power Jets avevano attraversato l'Atlantico in aeroplano, un fatto eccezionale in quell'epoca, per portare in America una serie completa di disegni costruttivi del motore W2.B. Anche Whittle andò in America; vi giunse in idrovolante il4 giugno 1942. In quell' occasione la General Electric decise di produrre un nuovo motore, simile al W2/500, che in quel periodo sviluppò al banco 1.750 lb di spinta. La versione americana del W.2, chiamata 1-16, fu montata sul bimotore Bell XP-59, che fece il primo volo nell'ottobre 1942, prima del "Meteor" britannico. La General Electric si mise subito a progettare un turbogetto con compressore assiale da 4.000 lb di spinta, che divenne poi il TG-180. Più faticoso era convincere i progettisti inglesi e pensare in termini di aviogetti; i più famosi, cioè Sydney Camm, che aveva fra l'altro progettato l "'Hurricane", e Joe Smith, che alla Supermarine aveva preso il posto di Mitchell, erano impegnati fino al collo per migliorare le prestazioni degli aerei affermati, come "Hurricane, "Spitfire", "Tempest". e "Typhoon". Sir Roy Fedden, capo della divisione motori della Bristol, scrisse che i caccia di quel tipo avrebbero potuto raggiungere le 400 mph (644 km/h) al livello del mare con un motore a pistoni. In quell'epoca la velocità era il requisito più importante per gli aerei da caccia. Stanley Hooker della Rolls-Royce dimostrò che per raggiungere quelle velocità ci voleva un motore della potenza di 4.000 HP, il doppio di quelli allora in produzione, e dato che la potenza fornita da un cilindro non poteva superare i limiti già raggiunti per difficoltà di raffreddamento, il numero dei cilindri sarebbe dovuto salire a 36, decisamente troppi, «d'altra parte il motore Whittle poteva esser portato a 2.000 lb di spinta, e con quello il "Meteor " avrebbe potuto facilmente raggiungere le 500 mph (804 km/h) al livello del mare». Previsione puntualmente verificata. Il "Meteor" nell'ottobre 1945 portò il record mondiale di velocità a 606 mph e il 7 settembre 1946 a 615 mph (990 km/h). Ai comandi c'era il Group Capt. E.M. Donaldson; i motori erano Derwent V da 3.500 lb di spinta e pesavano appena 1.250 libbre. Si era già in zona transonica; venti giorni dopo quel record il velivolo da ricerca De Havilland "Swallow", pilotato da Geoffrey De Havilland jr., capo pilota collaudatore della ditta, si disintegrava in volo sull'estuario del Tamigi mentre tentava di stabilire un nuovo primato di velocità. Un'illustre vittima del "muro del suono", i cui fenomeni erano ancora troppo poco conosciuti Il jet in guerra Ma stiamo precorrendo i tempi: abbiamo detto che i "Meteor" abbatterono alcune "bombe volanti" V1. Muniti di motore Derwent (uno sviluppo del W2.B che forniva 2.000 lb di spinta), i "Meteor" III furono impiegati in guerra nel 1944 e aiutarono Montgomery nella sua avanzata attraverso l'Olanda fino al Reno. Ma la presenza degli aviogetti sui fronti di guerra da parte alleata fu trascurabile, mentre quella tedesca fu molto importante. Il 28 luglio 1944 cinque aereirazzo "Komet" Me.163 attaccarono una formazione di bombardieri americani, infliggendo loro delle perdite. Quel tipo di aeroplano però era più pericoloso per chi lo pilota va che per i nemici e aveva cinque minuti di autonomia il che, pur raggiungendo gli 800 km/h, non era abbastanza Ben diverso il caso dei Me.262, bireattori di cui furono costruiti ben 1.294 esemplari. Nelle ultime settimane della guerra furono muniti di razzi aria-aria. Racconta l'asso tedesco Galland che un solo colpo giusto di questi razzi bastava per far precipitare un quadrimotore. Ma era troppo tardi per rovesciare le sorti della guerra e intaccare sensibilmente la preponderante superiorità aerea alleata. Fu proprio questa superiorità che tolse ogni fretta agli alleati nella realizzazione di aerei a getto da inviare in combattimento. Pochi mesi dopo la fine della guerra un paio di aerei a reazione tedeschi furono portati in Gran Bretagna e presentati a Farnborough agli esperti britannici, fra cui Whittle. Quando il Me .262 decollò, mangiandosi quasi tutta la pista nella corsa di decollo e passando di misura sulle cime degli alberi, il Wing Commander A.E. Louks, che stava vicino a Whittle, osservò: «Adesso capisco perché Hitler voleva estendere il Terzo Reich». Whittle notò che i tedeschi erano stati penalizzati dalla mancanza di metalli adatti alla produzione di palette di turbina e cercarono di compensare questa inferiorità raffreddando con aria le palette stesse (un accorgimento cui oggi tutti ricorrono). La necessità di mettere presto in linea i nuovi aeroplani costrinse i tedeschi, notava Whittle, «a imbarcarsi nella produzione industriale prima di aver raggiunto quello stato di sviluppo che noi avremmo considerato soddisfacente;essi ridussero il fattore sicurezza». Ai comandi Sul "Meteor" Whittle poté levarsi finalmente la soddisfazione di pilotare un aereo a reazione; fino ad allora gli era stato impedito, in quanto la sua vita era troppo preziosa perché si potesse rischiarla senza assoluta necessità. Accadde nel mese di ottobre 1945. Era un "Meteor" I con due motori W2/700 della Power Jets. Lo fece di straforo, senza chiedere alcuna autorizzazione. Ma lasciamo la parola a lui. «Il mattino del 19 ottobre mi recai al nostro campo d'aviazione di Bruntingthorpe per fare una delle mie solite ispezioni. Sentii improvvisamente l'impulso di fare alcune prove di rullaggio col "Meteor". Dopo una ventina di minuti me ne andai al lunch, poi tornai al campo. Dopo due voli su un "Tiger Moth", decisi di fare altre prove di rullaggio. Avevo una buona familiarità con gli strumenti e i comandi e, spinto l'aeroplano fino alla velocità di decollo, cedetti alla tentazione e decollai. Atterrai dopo pochi minuti a velocità contenuta. Quella esperienza mi dette molta soddisfazione, perché avendo fatto solo un paio d'ore di volo su piccoli aerei da scuola nei dodici mesi precedenti, mi trovai molto più a mio agio su quell'aeroplano di quanto non mi sarei aspettato, e anche perché quel "Meteor" montava due motori W.2/700 progettati e costruiti dalla Power Jets. Le occasioni in cui un progettista di motori ha pilotato un aeroplano mosso dai suoi propulsori debbono essere state molto poche dopo i voli dei fratelli Wright nel 1903. Tre giorni dopo ho pilotato nuovamente il "Meteor": questa volta il volo è durato 45 minuti e ho raggiunto quote e velocità più alte. Mi ha fatto molto impressione la semplicità dei comandi, la completa assenza di vibrazioni, la grande visibilità». Whittle andò in pensione nel 1948, per ragioni di salute. Subito dopo gli fu assegnato un premio di 100.000 sterline dalla commissione per i premi agli inventori e il titolo di Sir. Ebbe poi altre onorificenze, divenne membro della Royal Society e della Royal Aeronautical Society. Si trasferì in America nel 1976. Veniva talvolta a Farnborough e lì mi capitò di vederlo vicino a uno degli immensi motori pronipoti del suo W.1 Rivista Aeronautica 4/ 1997
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Come alla corte di Re Artù Assonnato ed ancora in parte addormentato,all'alba del 28 luglio 1943 ero salito sul mio Macchi 200 in posizione di primo allarme. Era il mio turno, per quella mattina, insieme a due sottufficiali piloti della 92a Squadriglia. I solerti specialisti avevano già scaldato i motori dei tre velivoli che avrebbero costituito la prima difesa contro gli attacchi dei bombardieri americani diretti verso la nostra flotta ancorata a La Spezia. La nostra base era sul corto campo di Sarzana. Il particolare non trascurabile era costituito dal fatto che normalmente (ormai quasi ogni giorno) la formazione che ci attaccava era di almeno una cinquantina di bombardieri, due "squadron". La squadriglia di “secondo allarme", di appoggio alla pattuglia di primo, era di nove o dieci velivoli. Tutta qui la "difesa aerea della piazzaforte”. Tralasciamo, poi, il commento relativo all’insufficienza di armamento, velocità e quota di tangengenza del nostro Macchi 200: ma questo passava il convento, visto che i superstiti Macchi 202 e qualche 205 dovevano,per forza di cose, combattere in Sicilia e Calabria. Ma la storia è nota. Seduto al posto di pilotaggio, protetto da un ombrellone dal cocente sole di luglio appena sorto,mi ero dolcemente addormentato, nonostante il fastidio costituito dal salvagente, il battellino pneumatico sotto il sedere, il paracadute e la “Marus" pesante. Improvvisamente il trillo del telefono, piazzato nella “tenda d'allarme" vicina agli aerei mi risvegliò. Giusto in tempo per vedere partire dalla torre di controllo un razzo rosso e basta, ossia: "decollo immediato per un solo velivolo". Misi in moto e, senza fare alcuna prova (erano state fatte dagli specialisti una mezz' ora prima) diedi tutta manetta e decollai. A tutto motore, in salita, mi misi in contatto radio con il carro "1.000", centro operativo collegato col radio-localizzatore "Freja" tedesco, piazzato sull'isola del Tino. Un aereo isolato, ad alta quota, si stava avvicinando con provenienza da sud, probabilmente verso Pisa e Livorno. Mi diressi verso la zona segnalata, salendo a tutto motore fino alla quota massima operativa del Macchi (circa 7.000 m), dove la manovrabilità era ancora accettabile. Arrivato in zona, col sole ancora relativamente basso, mi misi a girare in tondo per tentare di avvistare l'aereo segnalato. Di tanto in tanto il sole mi abbagliava, rendendomi il compito ancora più difficile. Dopo un paio di giri, un attimo prima di fare la trasmissione che avevo deciso ("qui non c'è nessuno") abbassai lo sguardo e lo vidi un paio di mila metri sotto di me. Era un veloce bimotore, di un tipo a me sconosciuto, ma con le coccarde rosso-blu ben visibili sulle ali. Feci un rovesciamento e gli piombai in testa, mentre trasmettevo a "Gloria" (il carro 1.000) il necessario messaggio. Il mio avversario mi vide all'ultimo momento, quando avevo già iniziato a sparare: ma era un bel pilota perchè sfuggì alla mia prima raffica con una strettissima virata a destra. Aveva le idee chiare sul combattimento aereo, manovrando il suo pesante bimotore quasi come un caccia. Mentre l'armiere dalla torretta posteriore mi indirizzava serrate raffiche con le due Browning 0,50 (altro che le nostre povere Safat!) per fortuna senza colpirmi. Da vicino lo riconobbi, confrontandolo con le sagomine che erano in mostra al nostro ufficio operazioni: era un "Baltimore". Strinsi la virata e mi ritrovai in posizione per sparare ancora. Dall' ala destra cominciò a perdere del carburante. Fece un rovesciamento a sinistra tentando di passarmi sotto: riuscii a stargli in coda, e gli indirizzai una terza raffica sui piani di coda. Avevano perduto molta quota e nella foschia sul mare improvvisamente lo persi. Eravamo appena fuori del porto di Livorno: girai, girai, ma non riuscii a ritrovarlo. Riatterrai e tornai al mio posto d'allarme, dopo aver fatto un salto all'Ufficio operazioni per stendere il rapporto sull'accaduto. Verso mezzogiorno terminò il mio turno: andai alla mensa a mangiare un boccone (i bombardieri quella mattina forse erano di riposo) e poi nelle nostre stanze (di legno) a tentare di fare un pò di "pennica". Mi ero appena addormentato che il piantone entrò senza bussare. «Signor tenente, il comandante Bacich la vuole subito nel suo ufficio». E seppi che l'equipaggio del "Baltimore" era stato recuperato, incolume, sul battellino pneumatico, da un nostro "MAS", e lo stavano trasportando all' aeroporto di Pisa. Bacich, generosamente, mi autorizzò ad usare il "Caproncino" del Gruppo per correre a Pisa. Li ritrovai, tutti e quattro (un Flight Lieutenant inglese, pilota, un secondo Flight Lieutenant canadese, navigatore, i sottufficiali armiere e marconista inglesi) fradici ed inffreddoliti, al corpo di guardia, in prigione. Mi precipitai dal colonnello ed ottenni per loro del vestiario asciutto. Poi li portai a pranzo alla mensa. Il pilota inglese aveva capito al volo che io ero "quello". Non me lo disse, ma capii che stavano facendo fotografie su Pisa, base dei nostri aerosiluranti (fu bombardata dopo qualche giorno). In breve, diventammo amici: con un pò di francese e qualche parola di inglese, parlammo a lungo e mi impegnai su loro richiesta di fare in modo che non fossero consegnati ai tedeschi. Ci lasciammo al tramonto stringendoci amichevolmente e lealmente la mano. Ripresi il "Caproncino" e rientrai, con un po di tristezza, a Sarzana. Venticinque anni dopo, ormai pacifico pilota di linea, una notte senza una precisa ragione mi tornò in mente il tutto. Appena arrivato a Fiumicino, mi precipitai a telefonare per tentare di recuperare il mio vecchio valoroso avversario. Attraverso il nostro ufficio storico e quello della RAF in un paio di settimane, con telex e telefonate a Londra, riuscii ad avere il suo indirizzo e numero telefonico. Ormai per ragioni professionali masticavo l'inglese abbastanza bene e lo chiamai. In un primo tempo lui non capì ma poi fu felice di aver¬mi ritrovato: «as a brother», disse con la voce rotta dalla commozione. Decidemmo di incontrarci al più presto. E dopo un paio di settimane mi arrivò l'invito per un pranzo all’ “Officers Club" della RAF, a Piccadilly. Furono ore bellissime. I vecchi avversari, come ai tempi Re Artù, erano uno nelle braccia dell' altro, uniti in una confraternita sconosciuta a chi non ha lealmente combattuto. Anche le mogli parlavano come due amiche. La consorte inglese disse ad un certo punto: «Ma veramente erano nemici questi due ?». Al termine, il mio amico disse una frase che non dimenticherò: «Oggi qui noi non dovevamo esserci. Le premesse per cui non dovevamo essere qui c'erano tutte. E invece ci siamo. Di fronte a questo, tutte le difficoltà sono un’ inezia, confrontate con l'insperato dono della vita». Rivista Aeronautica 1/1998
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Non si può volare cosi !! non ho mai tenuto conto delle restrizioni di volo riportate dalle carte di navigazione. Se uno tiene conto delle zone proibite, regolamentate, ristrette, limitate, non va da nessuna parte, datemi retta. Certo, una volta era più facile; nessuno ti chiedeva niente: non c'era il transponder, non c'erano i radar militari. Oggi, dannazione, ti vedono e cominciano a rognare. Per andare da Milano a Venezia, ho sempre messo in prua 90 gradi e sono sempre arrivato tranquillamente. E se qualche volta "Garda" rognava, facevo finta di non sentire, poi chiudevo la radio e buonanotte. Ma l'altra settimana non è andata così. Intanto tenete conto che c'era un bel po' di foschia. Se devo essere sincero, non si vedeva proprio niente; ma anche quando non vedo, volo guardando gli strumenti anche se non ho mai fatto l'abilitazione strumentale. Siccome però non sono proprio nato ieri, mi tengo ben lontano dalle montagne. Nel volo di cui vi parlo ho lasciato ben a sinistra Brescia, sono passato a Sud di Verona per poi puntare dritto verso Venezia. Avevo la frequenza di Milano Informazioni aperta soltanto perché mi ero dimenticato di spegnere la radio Che vogliono da me? Sento che mi stanno chiamando; voglio non rispondere, ma quelli insistono. Che cosa diavolo vogliono da me, che già faccio fatica a tener dritto l'aeroplano in quelle condizioni di visibilità? Rispondo. Apriti cielo: non soltanto sono passato sull'aeroporto di Ghedi, ma sto ora tranquillamente avviandomi su quello di Verona Villafranca dove, in attesa del mio passaggio, il traffico è stato sospeso. Cioè aerei militari e civili non decollano né atterrano perché io sto andando a intercettare il loro circuito. Insomma, ho interrotto la guerra alla Jugoslavia. Visto? Avrei fatto bene a tenere la radio spenta. Per rispondere, per cercare di capire cosa devo fare e per dire loro quello che penso, per poco non perdo il controllo dell'aeroplano. Questi controllori non vogliono capire che loro sono comodamente seduti e noi piloti invece siamo sospesi in aria con mille cose da accudire. Così mi sono trovato tutto inclinato e a velocità non dico prossima, ma quasi, allo stallo. E loro a parlare, parlare... Finalmente, dopo avermene dette di tutti i colori (loro faranno rapporto, ma lo farò anch'io, ribatto) mi passano con l'Avvicinamento di Treviso. Questa volta so di essere sotto tiro e dunque mi collego con il controllo di Treviso. Treviso mi dice di seguire le rotte standard per Venezia Lido. E che cosa sono le rotte standard? Loro candidamente mi spiegano, come se fosse la cosa più semplice del mondo, che per andare da Vicenza a Venezia devo scendere a una certa quota, andare prima su Padova, poi su Piove di Sacco, poi su Chioggia, poi su Malamocco. Che cosa? E chi li trova questi paesi mai sentiti nominare? Dice che devo saperle, queste cose, per volare VFR. Davvero? Allora che cosa significa volare a vista? Per evitare discussioni, dico che farò come mi chiedono. Invece vado diritto e per fregarli scendo a 500 piedi. Sono finalmente tranquillo quando a pochi metri, dico proprio metri, mi passa davanti un aereo militare velocissimo. Non so che tipo di aereo fosse, ma era tanto vicino che ho visto la faccia del pilota. Ero a cinquecento piedi; bisogna essere proprio pazzi per volare con un aereo militare a cinquecento piedi. Non avevo finito di fare queste considerazioni quando un altro e un altro ancora mi attraversano la rotta. Annegato nelle nuvole Accidenti ai militari. Questa volta chiamo io Treviso Avvicinamento. Chiedo che cosa sta accadendo.. Mi chiedono se sto seguendo le rotte e le quote stabilite. Dico di sì. Negativo, mi rispondono. Lei è a 500 piedi esattamente nella traiettoria di avvicinamento all'aeroporto militare di Aviano. Ora saremo costretti a interrompere l'esercitazione militare. Intanto salga a 3.000 piedi e assuma una prua di... Dò tutta potenza e in poco tempo mi ritrovo a 3.000 piedi. Ma a 3.000 sono dentro uno strato di nubi... comincio ad aver paura e le mie mani sono bagnate. Prima ero in vista dei piloti militari, ora non vorrei che non mi vedessero e... E poi le nubi sono peggio della foschia: non riesco a tenere dritto l'aeroplano. Proprio non ci riesco; ma non oso parlare. Speriamo che mi facciano scendere. Ma quanto tempo è passato? A quest'ora dovrei essere vicino alla Jugoslavia piuttosto che a Venezia. Mi tremano le mani tanto che non riesco a prendere la frequenza VOR di Venezia. Ho a bordo anche un GPS, ma non sono ancora riuscito bene a capire come funziona. Provo ad accenderlo, ma senza antenna sarà difficile che funzioni. Perché non mi chiamano? Ora sono io a chiamare. Recupero il microfono che era caduto sotto il sedile e chiamo Treviso. Nessuno risponde. La radio non va. Sembrava così facile arrivare a Venezia. Ci sono venuto mille volte. Leggo l'altimetro: sono a 4.600 piedi. Devo scendere, devo scendere e vedere il terreno. Scendo, anzi precipito; la velocità è eccessiva, tolgo tutto motore. Mille piedi,cinquecento, trecento. Devo fermare a tutti i costi la discesa. Sono a duecento piedi e ancora non vedo niente. O sì; forse sotto di me c'è il mare. Non ho più alcun riferimento; non so più dove andare. Metto una prua di 90 gradi senza sapere perché. Ma, se sono sull'Adriatico, devo mettere il contrario, cioè 270 gradi per ritornare sulla terra. Viro per 270 e mi accorgo di essere a meno di cento piedi dal mare. Ho perso la nozione del tempo: non so da quanto sono in volo, ma mi sembra un secolo. Non avevo fatto carburante e vedo che i televel segnano appena. Provo ancora a usare la radio e finalmente qualcuno risponde. Anche questo protesta perché non avevo più chiamato. Non è il momento di rispondere. Adesso mi porti a terra, poi ne parliamo. Per andare sull'aeroporto del Lido dovevo mettere una prua di 340 Arrivato finalmente a terra, ho una crisi di nervi. Non si può volare in questo modo, non si può... farò rapporto, scriverò ai giornali. Considerazioni La pianificazione Il volo non era stato preparato; quello non era un volo, ma un tentativo di suicidio. E se uno ha deciso di ammazzarsi, fatti suoi. Ma la verità è che con una programmazione di volo così disastrosa i rischi non li corre solo l'aspirante suicida, ma tutti quelli che, sfortunatamente, si trovano a volare in quella zona, militari o civili che siano. Il pilota del racconto non deve essere molto giovane. Deve essere un pilota abituato a volare in altri tempi e dunque difficilmente adattabile alle nuove realtà. Un giovane non avrebbe mai commesso quella serie di errori. Il volo VFR è diventato certamente più complesso negli ultimi anni, ma anche più facilitato dalle strumentazioni di terra e di bordo. Ma proprio per questo va pianificato attentamente. L'uso dell'aeroplano come un'automobile è un non senso e da tempo i piloti con qualche esperienza l'hanno capito. Oltre a tutto, il volo VFR è più complesso e più difficile di quello IFR. Lo spazio è quello che è e soprattutto nessuno è padrone dello spazio. Le zone proibite, regolamentate e via dicendo devono essere rigorosamente osservate. Non si può fare il furbo, come una volta si faceva, senza mettere in pericolo se stessi e gli altri. Una volta, tra l'altro, nessuno ti vedeva, mentre oggi i radar militari sono in grado di osservare piccoli aerei anche a bassissima quota. Dunque, specialmente volando da soli, bisogna avere bene in mente un "piano di volo" e le relative azioni di scampo prevedibili; bisogna conoscere le rotte di ingresso e attraversamento delle diverse zone, quelle famose "rotte standard" che sono chiaramente indicate sulle carte di navigazione. L'uso della radio Non si trasmettono messaggi radio per fare un piacere al Controllo; si tengono contatti per la nostra sicurezza e per quelli che in quel momento volano interessando la stessa zona. In un caso come questo, poi, l'uso intelligente della radio - o meglio il rapporto con il controllore - è determinante. Non è vero che i controllori sono chiusi nelle loro sale e non si curano dei piloti. Chi si è trovato anche una sola volta in difficoltà a bordo di un aeroplano sa bene con quanta attenzione i controllori partecipano al suo problema. Mancanza di visibilità Qui nel Nord a volte vi sono condizioni di visibilità molto vicine allo zero anche in piena estate. E un pilota di buon senso non deve trovarsi mai in condizioni di assenza di visibilità: per nessun motivo si deve far confusione tra volo a vista e volo strumentale. Il nostro, come abbiamo visto, perde il contatto con il terreno salendo a 3.000 piedi e tenta di volare con l'ausilio degli strumenti, ma con risultati disastrosi. Non ci stancheremo mai di dire che senza abilitazione strumentale (non la carta, ma l'addestramento) volare in assenza di visibilità è come guidare un'automobile a occhi chiusi. Il che crea sia problemi al pilota, che fatica a "tener dritto l'aeroplano", sia agli altri. Il pilota, praticamente senza vedere niente, è passato su due aeroporti in piena attività. Altro che protestare e fare rapporti. In qualunque paese al mondo, chi commette un'infrazione del genere perde il brevetto per molti mesi. Dopo aver combinato questi guai, era certamente in tensione e quindi non più in condizioni di volare serenamente. L'unica possibilità di fare una cosa giusta, a questo punto, era atterrare al più vicino aeroporto. Un'altra occasione perduta. Abbiamo riportato questo esempio per ricordare a noi che voliamo che a volte la mancanza di preparazione del volo ha portato a conseguenze tragiche. Soltanto per non aver saputo pianificare. Pianificare significa anche sapere che a Venezia (Tessera e Lido) non vi sono VOR. Volare Settembre 1996
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Io e L'Effe Ho lasciato i 42.000 piedi dopo un rapido rovesciamento e con tutta la manetta dentro,vengo giù "pulito", in perfettatta verticale. Il mondo si avvicina come dentro una "zoomata". La lancetta del machmetro avanza; indica già 1.0, ed ecco – sento soltanto un impercettibile scuotimento,mentre un tuono (che io non odo) si spande sull'Adriatico. Passo Mach 1,05, quasi arrivo a 1,1... E’ ora di uscire senza indugio da questa situazione da meteorite. Via il motore, fuori gli aerofreni e una decisa "tirata" costante a 5 g. Non di più (per non entrare in stallo di alta velocità), ma non di meno: una richiamata insufficiente è uguale fare un bel buco per terra! E’ il 14 maggio 1959. Sono uno dei tanti piloti militari di vent'anni, ed è il mio secondo volo del giorno (designazione "Mix 14") in questa settimana intensa di addestramento alla base di Rimini Miramare della 5° Aerobrigata. Sto effettuando la transizione sull' F 84F, il primo supersonico (seppure in picchiata) in servizio nell'Aeronautica Militare Italiana. Un aereo molto all'avanguardia, a quel tempo, per concezione e versatilità. Se solo avesse avuto un motore più potente di quel Wright J 65 (che poi altro non era che il Bristol Siddeley Sapphire,inglese)... Un aereo bellissimo nelle linee e fantastico da pilotare, progettato dal mitico Kurt Kartveli, (il "papà" del P 47' Thunderbolt della II guerra mondiale) e discendente diretto dell' F 84G Thunderjet, suo predecessore nell'AMI. Ali a freccia accentuata, diedro negativo, amplissima carreggiata del carrello con ruotino anteriore in posizione estrema in prua; e poi: griglie retrattili di protezione al compressore anti FOI (Foreign Object Ingestion); velocità massima indicata (VNE, o placard airspeed) di 610 nodi (1.130 km/h); Mne il Mach massimo consentito 1,15; e 9,33 g di fattore di carico massimo! E ancora: auto pilota e capacità di rifornimento in volo (ma i nostri aerei non montavano questi optional); autonomia sterminata con serbatoi ausiliari, esterni (due taniconi da 450 galloni o quattro da 230) - aggiungendo da 3.400 a 3.480 litri ai 2.150 interni - garantivano un'autonomia fino a 1.800 miglia nautiche (oltre 3.300 km) con profili di missione tabulati (una grande innovazione) che prevedevano salite a gradini(step climb) E, per finire servocomandi idraulici;trim elettrico su due assi; spoiler differenziali sulle ali, paracadute freno; razzi JATO per il "decollo corto assistito"; e impressionanti velocità caratteristiche: 150 nodi (278 km/h) in decollo, 300 (556) in apertura, 180 (333) in avvicinamento e richiamata finale a 160 (296). Una macchina da strike Il velivolo era stato concepito con capacità di strike (attacco, anche nucleare) e close support (appoggio tattico ravvicinato alle forze di superficie). Per questo si facevano un sacco di missioni di "aerocooperazione" con Esercito e con la Marina. Ma la sua vera specialità era "interdizione profonda, alla quale ci si allenava in missioni solitarie che ci portavano in luoghi remoti con armamento costituito da bombe e razzi oltre che dalle sei mitragliatrici da mezzo pollice (12,7 mm). Il collimatore era dotato di radar-telemetro. Così caricato, l’aereo poteva sembrare un "ferro da stiro", ma se veniva liberato dai pod (i travetti per i carichi esterni), l'F 84 tirava fuori una grinta d'intercettore per missioni air watch (sorveglianza aerea) con capacità di strip alert (intervento su allarme in volo o a terra.su.piazzole di pronto intervento). I carichi bellici erano impressionanti per l'epoca: bombe sui due pod centrali fino a 900 kg e fino a 450 sui due laterali, oppure spezzoniere di pari peso; 24 razzi HVAR (High-Velocity Air Racket) con selezioni salva,sequenza o intervallo; sei mitragliatrici da 12,7 con riscaldamento; collimatore multifunzione GBR (Guns,Bombs,Rockets); e infine predisposizione per armamenti speciali. Dell' Effe c'era poi , in dotazione alla 3° Aerobrigata la bellissima versione da ricognizione fotografica RF 84F, che aveva le prese d’aria laterali e i gruppi di fotocamere installati nel muso affusolato Ma come si pilotafa un’ Effe ? Tanto per cominciare, niente biposto trainer, quindi niente doppi comandi. Dopo un rullaggio, un’accelerazione – frenata sulla lunga pista, si decollava tutti soli, seguiti da un pilota esperto su un secondo velivolo di sorveglianza (chase) per la prima missione. L’Effe non aveva freni di parcheggio, né sterzo al ruotino. Tolti i tacchi, ci si muoveva dal parcheggio, dirigendosi in rullaggio con leggeri tocchi differenziali dei freni. Altrettanto si faceva all’inizio della corsa di decollo, fino a quando il timone di coda (dopo i 60 Kts) diventava efficace. Qualche volta, per addestramento, il decollo si faceva con i razzi ausiliari JATO, ed era come avere più di un post bruciatore. Al peso medio di 21.000 libbre (9.5 ton) si riusciva a decollare in 3.000 ft (meno di 1 km). Durante la corsa, si poteva controllare l’accelerazione, comparando velocità precalcolate con i segnali di lunghezza della pista, piazzati ad intervalli regolari. Lo stacco avveniva a velocità tra i 140 e i 170 nodi (260-315 km/h), in funzione del peso. Il peso massimo raggiungeva il ragguardevole valore di 12.200 Kg (27.000 libbre), 3.806 dei quali costituito da carichi esterni (serbatoi di carburante e armamento). Sin dalle prime missioni di familiarizzazione si aveva il piacere della maneggevolezza e della precisione dei comandi idraulici (ma se questi andavano in avaria l’aereo diventava un macigno), delle elevate velocità, dell’efficacia degli aerofreni, della risposta potente nelle manovre acrobatiche. Lo stallo di bassa era controllabilissimo, ma bisognava stare molto attenti alla velocità di caduta verticale; il variometro andava subito giù a valori impressionanti malgrado la sensazione falsamente rassicurante di tener dritta la macchina. Anche lo stallo di altà (velocità' e fattore di carico) era riconoscibile in tempo,ma qui le precauzioni erano di altro genere,per il pitch-up improvviso (una tremenda spanciata) che poteva scattare, se si trascuravano i segnali di buffeting (scuotimento). Erano ,allora, G in abbondanza che potevano raggiungere e persino eccedere i massimi strutturali. Per la vite, la manovra di uscita era del tutto anti-istintiva e opposta a quanto si era appreso sugli altri aerei: Portare tutta la barra indietro, dando un terzo di alettoni nello stesso senso (in spin) ed infine (finalente) piede contrario. Così recitava il manuale di volo. Un syllabus massacrante L'addestramento nell' Effe, come su tutti i mezzi operativi militari, era intenso,e impegnativo. Dopo le 18 missioni di transizione, che coprivano la gamma completa di manovre in volo: stalli, virate strette,Flame out simulati ,(si planava con variometri tra i 4.000/5.000 piedi al minuto), atterraggi con parafreno, Acrobazia, tutta: da soli, in coppia e in formazione., Molto volo notturno navigazione e avvicinamenti strumenti e GCA. Dopo tutto questo cominciava l'addestramento bellico, con vere abbuffate di navigazione a bassa quota, visual recce (riconoscimento a vista), coppie tattiche e formazioni, missioni profilo" e navigazione long range, di giorno , di notte , in lFR reale E poi intercettazioni di aerei; aerocooperazioni; e infine i poligoni di tiro BAA e BBA (bombardamenti ad alto e basso angolo); MBA (mitragliamenti); RX 4-8-12 (attacchi, con varie configurazioni di razzi); e fine i LABS (simulazione di lanci di bombe nucleari con il Low-Altitude Bombing System), progenitori dell'attacco stand-off. La manovra consisteva in un mezzo "otto cubano" con sgancio nella parte alta, e via a tutta manetta in direzione opposta!' Alla fine di una elettrizzante ed esteuante serie di "stazioni", arrivavano i tiri aria-aria sul poligono di Brindisi, e finalmente si diventava Combat Ready, e cioè pronto all'impiego operativo. Volare, Aprile 1997
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SOLO - Okay, Zap! You may go solo – Le parole dell'istruttore mi giungono come musica via interfono dal cockpit posteriore del Canadian T 6 Harvard fermo sulla linea di parcheggio col motore ancora in moto. Any questions, any problems before I climb oft,Zap?, aggiunge. No Sir! No questions, no problems, mi affretto a rispondere. Sono emozionato, felice, eccitato. È il 13 ottobre 1954, il più bel giorno della mia vita! L'istruttore armeggia ancora un po', in piedi là dietro: sta bloccando le cinghie del sedile. Non vedo l'ora che scenda, che se ne vada. Dai, esci, scendi, lasciami solo. Ecco, finalmente: lo vedo scavalcare il bordo dell'abitacolo e chiudere con un colpo secco il tettuccio posteriore. You may go Zap, mi urla nel frastuono. Mi batte sulla spalla e salta a terra, investito dal flusso dell'elica che fa svolazzare il suo equipaggiamento. Si allontana di qualche passo e si volta, mostrandomi il pollice della mano destra alzato. Sono solo a bordo. Solo! È una sensazione di grande sollievo; piacevole, indescrivibile. Di colpo mi sento diventato importante. Anche il velivolo, ora che è tutto in mano mia, mi sembra più importante, più grande. Dovrò fare un decollo, un circuito intorno al campo e un atterraggio: dieci minuti in tutto, forse meno. Andrà tutto bene - lo sento - e saranno i minuti più belli, più emozionanti della mia vita! Un po' teso sui comandi, ma con l'animo più leggero che mai, chiedo alla torre di controllo di rullare. Mi rispondono che sono autorizzato a portarmi al run up point, alla piazzola prima dell'ingresso alla pista 30. Alzando contemporaneamente le punte dei piedi, mollo i freni sulla pedaliera e inizio il rullaggio. Il musone alto non mi permette di vedere davanti, perciò devo avanzare a serpentina, sporgendo la testa fuori dall'abitacolo, un po' a sinistra e un po' a destra. Eccomi al punto attesa. Non devo fare la prova motore perché l'ho già fatta con l'istruttore prima del Solo check, quella bella serie di decolli e atterraggi che lo hanno convinto a lasciarmi andare da solo. A memoria eseguo il Before take-off check: H, T, M, P, F, F, G ,G, S (Hydraulic, Harness, Hood, Trim, Tension, Mixture, Pitch, Flaps, Fuel, Gills, Gyros, Switches.). Per ogni lettera, uno o più controlli. Premo il pulsante radio sulla barra: "Claresholm Tower, Yellow One-Three, line-up and take-off" chiamo. Sanno che sono l'Italiano al suo primo "solo" e mi rispondono staccando bene le parole. "Roger, One-Three. Clear to line-up and takeoff. Wind 330 degrees, 5 to 7 knots. After take-off report on circuit, over" Confermo ed entro in pista. Freno il velivolo ben allineato sulla riga bianca della mezzeria sotto la fusoliera. Non la vedo più, segno che sono proprio al centro. Con i piedi che pigiano forte sui freni, do tutto motore: è il grande momento. Un ultimo sguardo agli strumenti e mollo i freni: vado Sento un immenso fragore di lamiere. I seicento cavalli in risonanza fanno vibrare la barra nelle mie mani. Tirano da tutte le parti tranne che diritto. Sono concentrato al massimo, un corpo unico col velivolo. Lo sento mio: col fondo schiena, con le mani, con i piedi, con lo sguardo, con tutto me stesso. So che devo esser pronto a domare, a correggere ogni tentativo di deviazione di questa bestiaccia! Ho visto T 6 decollare dopo una serie di zig-zag sulla pista; alcuni dopo averla attraversata in diagonale; altri dopo aver rimbalzato sull'erba a lato; e purtroppo uno, dopo aver staccato prematuramente, ricadere con conseguenze mortali, primo caduto del nostro corso "NATO 5313". E in un lampo vedo con la mente quel Senior Cadet costretto a girare per la base a mensa, al circolo, perfino al cinema con appeso al collo un bel pezzo di lamiera del timone di un T 6. È una punizione, ma soprattutto un monito adottato dalla Scuola per ricordare a lui e a noi il danno provocato rullando con il muso troppo a ridosso del velivolo di un collega. Scaccio i pensieri-lampo mentre l'aereo accelera. L'anemometro segna 20, 30 nodi. Spingo la barra in avanti per fare alzare il ruotino di coda. Ecco, 40, 50 nodi: il musone si abbassa e davanti mi appare la riga bianca della mezzeria e così riesco a controllare meglio la mia traiettoria. Sono tutt'uno con comandi e correggo in anticipo qualsiasi accenno di deviazione provocato dalla coppia di reazione del motore e dal flusso dell'elica. A 70 tiro leggermente la barra e stacco. Sono in volo, e sono "solo". Evviva! 80 nodi, su il carrello. OK, retratto e bloccato. 90 nodi, su i flap. Che pace! Nonostante il rombo del motore mi sembra di salire nel silenzio. Avverto solo il battito del cuore, il pulsare del sangue nelle vene del collo e delle tempie. Mi sento padrone del mondo e salgo leggero nell'aria limpida e pura. Là dietro non c'è nessuno che mi dica che cosa devo fare, ma come un robot programmato mi inserisco nel circuito right hand, a destra. Riduco un po' la manifold e salgo, virando nel braccio al traverso e poi ancora per mettermi in sottovento livellato a 1.000 piedi di altezza Siamo sull'altopiano a est delle Rockies, 4.330 piedi sul QNH (livello del mare). La giornata è "gloriosa" con un cielo azzurro intenso. Lontano, a occidente, si distinguono le grandi macchie verdi dei parchi nazionali Banff e Glacier. A sud-est ecco Calgary e aldilà la grande prateria costellata di laghetti, villaggi e silos per il grano. I campi arati si estendono a perdita d'occhio fino ai confini con il Montana. Le strade diritte sembrano i meridiani e paralleli di una carta geografica. Ma non posso distrarmi: devo fare i controlli sotto vento. Metto giù la leva del carrello e do un po' di potenza. Faccio la chiamata d'obbligo "Claresholm Tower Yellow One-Three, down-wind, over". Subito mi autorizzano a riportare in finale per pista 30, numero uno all'atterraggio. Decido di allungare il braccio sottovento: mi servirà un bel finale. Mi sento abbastanza tranquillo, rilassato mi permetto addirittura di pensare ad altro in particolare a tre persone che ci tengono molto che io riesca a concludere felicemente il corso piloti. Una è l'addetto aeronautico all'ambasciata a Ottawa. Allarmato per la falcidia di allievi italiani dimessi dal corso ( i famosi CT, Ceased Trainee), sapendomi l'ultimo italiano rimasto, mi ha mandato una lettera affettuosa, esortandomi a non mollare, per il buon nome dell'Aeronautica E poi mio padre: mi ha scritto che desiderava tanto vedermi tornare con l’ Aquila sul petto, lui che partì volontario nel prinmo Battaglione Aviatori "Torino' alla vigilia della prima guerra mondiale, senza poi veder realizzato il suo sogno di diventare pilota. E infine il buon Flying Officer Webster della RCAF, il mio istruttore, che immagino in trepidante attesa sul piazzale. E un vero "manico", un veterano della guerra mondiale, che ha saputo trasmettermi il suo entusiasmo per il volo. Devo molto a lui se oggi sono qui, impegnato nel mio primo "solo". Ha persino trovato una soluzione per il mio stowmack, che non accetta la cucina canadese: infatti riesco a mandare giù soltanto la colazione, il breakfast all'inglese. Well Zap, mi ha detto, you say you like only breakfast?! All right then, eat three breakfasts per day! Pochi giorni fa, mentre eseguivo delle semplici virate in linea di volo, ha interrotto bruscamente la lezione e... Zap, mi dice all'interfono, I have controls. Lock your harness and gyros. Allentata la presa sui comandi, rispondo: Yes-sir, you have controls. Gyros and harnesses locked. Con piacevole sorpresa, molto in anticipo sui tempi del corso, mi ha portato alla low flying zone, un'area di laghetti pieni di anatre, e mi ha dimostrato come si fa il volo radente; soprattutto come devono essere eseguite in sicurezza e a perfezione le virate di 180 gradi, sorvolando avanti e indietro, a bassissima quota, un determinato obiettivo. Il Flying Officer Webster usava una tecnica che sin da ragazzo avevo osservato nel volo delle rondini quando pattugliano avanti e indietro a volo radente a caccia di insetti. Prima di invertire la direzione, fanno sempre una bella cabrata, e solo dopo aver guadagnato quota virano stretto e si rituffano a volo radente, in senso opposto. Che maestria di pilotaggio! Ora sapevo il perché Ore e ore di lezione di aerodinamica in aula e di studio sui libri, specialmente sui diagrammi di caduta della portanza in virata me le aveva condensate in quel volo. L'obiettivo prescelto era un laghetto pieno di anatre selvatiche. I nostri passaggi le costringevano a levarsi tutte insieme in volo, e a sbandare a destra e a manca per non essere affettate dall'elica del grande uccello a motore Quack, quack, quack! mi urlava interbordo Do you like this, Zap? Altre volte abbiamo rincorso branchi di antilopi che, sbandando, ci mostravano il "posteriore" bianco. Che pilota, il mio istruttore! Ora è qui sotto che mi sta aspettando. Mi pare di sentirlo: C'mon Zap, come down. You'll make it all right. Ubbidisco al suo richiamo: sono pronto a virare nel braccio base. Riduco un po' il motore e inizio a scendere, virando a destra per raccordarmi al finale. Ed eccomi, in lungo finale, a una distanza che mi permette di studiare gli effetti del vento laterale e di fare tutte le correzioni necessarie. Metto tutto flap. Che invenzione, i flap! Con la loro maggiore superficie portante allontanano lo stalla e con il loro momento cabrante permettono di abbassare notevolmente il muso del velivolo, aumentando la visuale. Chiamo la torre: "Claresholm tower, Yellow One-Three on final " un'occhiata al cruscotto "... Gear down and locked. Full stop landing,over". "Yellow One-Three, cleared to land. Wind Three hundred degrees, ten - twelve knots, over" rispondono asciutti. Che vento! Devo correggerlo con un po' di muso a destra e un po' d'ala inclinata nel vento per mantenere la retta del finale. La pista è vicina: fai il bravo mio bel bestione. Punto appena sopra la zebra pettine, tenendo un po' di motore, quel tanto che non dà trazione, ma aiuta. Ed eccomi al "dunque", al flare out, la richiamata finale a un palmo da terra. Mi sforzo di guardare lontano per volare parallelo al suolo, controllando solo con la coda dell'occhio quanta pista ho già "mangiato" prima di toccare. Sono importanti sia la traiettoria sia mantenersi sull'asse pista con una visione a tutto campo. Gradualmente, con quella tecnica di "assaggio, assaggio, assaggio", insegnatami dall'istruttore, e cioè con varie piccole correzioni sulla barra, metto l'aereo in assetto quasi seduto. Mi sembra di sentirlo: "Check it, check it, check it!". Tenendo l'ala destra nel vento tolgo motore e... Miaoooo!! La ruota destra "sgomma". Controllo di aver tolto tutto motore. Ed ecco che sgomma anche l'altra ruota. Sono soddisfatto, ma c'è ancora qualche istante di suspence, prima di sentire toccare il ruotino di coda, quello che dà maggiori problemi. Ecco: la coda si abbassa e il muso si alza, coprendo la visione dell'asse pista. Non mi rimane che la visione laterale Non appena il ruotino tocca il suolo, il velivolo sembra voler ubbidire più al vento che a me: imbarda a destra e sento forti sbatti menti in coda, che si ripercuotono sulla pedaliera. Il velivolo sente le mie correzioni, ma i colpi si ripetono con prepotenza, proprio come faceva l'istruttore. Che sia ancora a bordo? Il dubbio mi assale d'improvviso. Eppure sono sicuro di averlo visto scendere! Di colpo mi tranquillizzo. Ma certo! È lui, il mio aeroplano, che mi parla! Ora si che ti capisco, mio caro T 6! Ora ti conosco: sono veramente "solo" con te I dilemma è presto risolto: lo contrastavo troppo duramente, quasi con astio, con la pedaliera. Ora lo faccio più dolcemente, con amore. Ma quasi al termine della corsa, il T 6 riprende a imbardare a destra, e non basta "tutto piede" a sinistra per raddrizzarlo. Allora tento il tutto per tutto, e provo con le cattive. Azzardo a un col petto sul freno sinistro, a rischio di mette l'aereo "sugli attenti". Con un brusco scarto a sinistra, l'aereo accenna a mettere giù il muso, alzando la coda. Poi, con mio grande sollievo, si raddrizza, riabbassa la coda e continua a decelerare. Ha ubbidito! L'ho scampata bella! A tre quarti di pista, a velocità scaduta, posso azzardarmi a usare entrambi i freni della pedaliera: prima dolcemente, poi con più forza. "Claresholm tower, Yellow One-Three, request taxy instructions, over". "Roger One-Three, clear into the next left taxyway and proceed to E Flight". Apro il tettuccio e respiro a pieni polmoni. Ce l'ho fatta! Ci sarà ancora tanta strada da percorrere, ma io mi sento arrivato, come se avessi già conseguito il brevetto. Al parcheggio, sul tarmac, appena chiuso motore, sono circondato dai cadet del 5313. Uno di essi sale sull'ala sinistra brandendo minaccioso un forbicione lucente, afferra come può la mia cravatta e... zac! la taglia di netto. Scoppia un urlo e un applauso. Si stappano bottigliette di Coca-Cola, Ginger Ale, Seven-up. Il moncone della mia cravatta, con gli altri, rimarrà appeso al muro della saletta piloti con data, nome, cognome e ore d volo al "solo" fino alla fine del corso. Ne ho fatti di voli importanti, nella mia vita di pilota, ma quello rimarrà impresso per sempre nel mio cuore Volare Settembre 1996
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Fisiologia del volo Le nozioni che vengono trattate in questo capitolo hanno lo scopo di mettere in guardia il pilota contro gli effetti provocati sull’organismo umano da determinate situazioni che si possono verificare durante certe condizioni di volo, e di consigliarlo circa le contromisure da adottare. Anossia o Ipossia E’ la condizione che si verifica quando i tessuti del corpo non trovano a loro disposizione la sufficiente quantità di ossigeno. In aviazione questa condizione è generalmente provocata dal fatto che si respira l’aria meno densa che si trova alle alte quote. Altre cause che possono provocare l'anossia sono le malattie che riducono la quantità dei globuli rossi nel sangue Questi fattori si possono combinare, così da variare di volta in volta la capacità di uno stesso pilota di sopportare l’alta quota La caratteristica più pericolosa dell'anossia è il modo insidioso in cui comincia a manifestarsi.Essa produce infatti generalmente un senso di benessere, che può anche giungere a rendere il pilota euforico, così da appannare le sue capacità di giudizio e di valutazione. Poiché egli non è in grado di riconoscere il suo stato di anossia, il pilota è portato a credere che le cose stiano andando nel migliore dei modi, mentre invece il suo stato si avvicina alla totale incapacità mentale e fisica. L’insorgere dello stato anossico non si manifesta per tutti nello stesso modo; comunque si possono avere uno o più dei seguenti sintomi :~ - attenuata capacità di giudizio, - aumento del ritmo respiratorio, - sensazioni di leggerezza o capogiri, - formicolio o sensazioni di calore, - traspirazione, - riduzione del senso della vista, - cefalee (mal di testa), - sonnolenza, - cianosi (colorazione bluastra della pelle,delle unghie, delle labbra), - mutevole umore. Immaginando di poter osservare ciò che accade a una persona posta a bordo di un aereo non pressurizzato che continuasse salire, potremmo osservare il passaggio delle sue condizioni attraverso i seguenti stadi: - Stadio della normalità fino a circa 7.000 piedi. - Stadio della depressione dei riflessi, intorno ai 10.000 piedi. Quando l'organismo comincia a mettere in atto le reazioni a carattere compensatorio. - Stadio della esaltazione dei riflessi. intorno ai 15.000 piedi. - Stadio degli spasmi e delle convulsioni,intorno ai 20.000 piedi. che conduce alla incoordinazione dei riflessi. e. perdurando lo stato di anossia. porta rapidamente alla paralisi. Molti piloti ritengono erroneamente che sia possibile avvertire i sintomi dell'insorgere dell'anossia, e quindi intraprendere le azioni correttive necessarie. E', questa, una teoria estremamente pericolosa, proprio perché uno dei primi sintomi dell'anossia è la diminuita capacità di valutazione: e quindi, anche se si riesce ad avvertire un sintomo rivelatore, esso viene facilmente trascurato o sottovalutato. Quando l'anossia è provocata dal volo ad alta quota. la si può combattere o scendendo a quota inferiore. o respirando ossigeno prelevato da altra fonte. Gli aerei che hanno quote di tangenza elevate vengono in genere equipaggiati con impianti per la distribuzione e l'erogazione dell'ossigeno, i quali possono essere fissi e/o portatili. Le quote al di sopra delle quali è sconsigliabile volare a lungo con aerei non pressurizzati e senza fare uso di ossigeno supplementare possono essere indicativamente fissate a 12.000 piedi se di giorno e a 10.000 piedi di notte. Effetti delle variazioni di pressione Come sappiamo, il volume di un gas varia in modo inversamente proporzionale alla pressione cui il gas è soggetto. Indicativamente, il volume di una certa quantità di gas al livello del mare, si raddoppia a 18 000 piedi e si triplica a 25.000. Quando dei gas sono racchiusi nelle cavità, quali l'orecchio medio, i seni nasali,le variazioni di volume cui vanno soggetti con la quota possono provocare quella dolorosa condizione che va sotto il nome di DISBARISMO. Tale condizione può essere provocata sia da una variazione di quota in un velivolo non pressurizzato, che dalla decompressione di un aereo pressurizzato. Orecchio Medio L’orecchio medio una cavità occupata dall'aria, che è in comunicazione con l’esterno attraverso la Tromba di Eustacchio.Essa termina sulla parte posteriore della gola, ed è assimilabile a una valvola che permette all'aria di defluire dall'orecchio molto più facilmente di quanto non le sia concesso di fare in senso inverso. Pertanto, durante le salite il timpano va soggetto a maggior pressione sulla sua superficie interna. e si gonfia verso l'esterno finché l'aria non defluisce attraverso la Tromba di Eustacchio ristabilendo la pressione. Per la sopracitata caratteristica della valvola, la pressione si ristabilisce sempre rapidamente. e quindi non si avvertono disturbi particolari. Durante le discese la situazione si inverte,e il timpano si gonfia verso l'interno. I sintomi conseguenti che si avvertono sono la tensione del timpano stesso,una parziale perdita dell'udito e un senso di disagio che si può trasformare in una sensazione dolorosa se la valvola non permette all'aria di arrivare all'orecchio medio. Per facilitare l'apertura della valvola si consiglia di masticare. deglutire. o sbadigliare in modo che si muovano i piccoli muscoli che comandano l'apertura della Tromba di Eustacchio. Se ciò non dà risultati, è consigliabile usare il metodo detto di Valsava, che consiste nel tapparsi le narici e soffiare nel naso in modo da far aumentare la pressione internamente per forzare l'aria nell'orecchio medio. Quando si va in volo afflitti da raffreddore si è molto più soggetti a questo tipo di inconveniente. Il pilota deve tenerne conto, oltre che per sé stesso, per i passeggeri. R.Trebbi
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Altri Tempi Nella primavera del 1952, dopo straordinarie vicissitudini di ordine burocratico che non è il caso qui di raccontare, cominciò finalmente il corso di pilotaggio per allievi ufficiali di complemento, il 4° per l'esattezza, cioè uno dei primi organizzati nel dopoguerra. Siamo a Gioia del Colle (in provincia di Bari) e il nostro corso viene diviso in due scaglioni. Il primo inizia a volare con il "vecchio" Stinson L-5 (l'età dei velivoli è una cosa abbastanza singolare: chiamavamo "vecchio", già allora, lo Stinson, mai più pensando di trovarlo in linea ancora oggi presso gli aero club per il traino alianti), mentre il secondo è destinato a volare sui nuovissimi Macchi 416 (versione italiana dell'olandese Fokker S.ll Instructor). lo faccio parte di quest'ultimo scaglione. Particolare curioso dei 416 era che la ditta costruttrice delle gambe del carrello, fuse in lega leggera e dalla caratteristica forma "a ginocchio", non aveva messo a punto la combinazione materiale-procedimento di fusione, cosa che provocava soventi rotture, tali da far "inginocchiare" per terra gli aeroplani, per fortuna senza causare gravi incidenti. Ma parliamo dell' addestramento. Ogni istruttore aveva una squadra di cinque allievi. Alla mia squadra viene assegnato un maresciallo bonaccione, abbastanza simpatico ma con due particolarità: 1°) aveva una "panza" tale che la barra a cabrare non arrivava a fondo corsa, ciò .nonostante si riusciva ugualmente a fare la vite; 2°) non ci ha mai, dico mai, lasciato neanche per un istante i comandi, per cui la prima volta che ho avuto la sensazione di pilotare il 416 è stato quando ho fatto il controllo predecollo col tenente designato per l'esame e quindi, subito dopo, quando sono decollato da solo. Altro aereo per me indimenticabile è stato il North American T-6 Texan, di cui ancora oggi volano nel mondo diversi esemplari. A quei tempi, vi assicuro, era visto come un grosso aeroplano "da guerra", con quell'enorme motore stellare da 600 cavalli, i due cruscotti zeppi di strumenti e addirittura,.gli esemplari più vecchi, con l'incavo per la mitragliatrice anteriore e il seggiolino posteriore ruotabile di 180 gradi per poter operare la mitragliatrice posteriore, entrambe tolte. Che ne dite? Una settimana di corso macchina a terra prima di volarci sopra potrebbe andar bene? Aprite bene le orecchie e sentite invece cosa capitava a noi allievi. Avevamo intravisto fugacemente, per la prima volta, un T-6 atterrato a Gioia, senza però poterci avvicinare a più di 10 metri. La seconda volta in assoluto che io vidi il T-6 fu la mattina dopo essere arrivato ad Alghero, dove si svolgeva la fase avanzata dell' addestramento. L'aeroplano in questione si era fermato presso la biga, col motore in moto, ne era saltato fuori l'allievo che mi precedeva ed io fui aiutato velocemente a prendere il suo posto. Mentre ancora stavo collegando le spine della cuffia e del laringofono, l'istruttore (anche questo mai visto prima) diede motore, rullò in pista e mi disse: "Dai, decolla". Diedi motore, mi trovai per aria alla meno peggio e quindi, arrivati mi pare a 5.000 piedi o giù di lì sentii l'istruttore dirmi: "Forza, fai un looping". "Ma io... - risposi - veramente...". "Dai, dai - mi incalzò - non fare il timido, sei un pilota da caccia" (avevo sì e no 50 ore di volo!). Non me lo feci dire due volte e cercando di indovinare il comportamento dell'aeroplano, naturalmente con l'aiuto dall'istruttore, feci in circa 20 minuti tutta l'acrobazia possibile, per poi tornare in circuito ed effettuare due atterraggi. Non faccio per vantarmi, ma allora bisognava essere un tantino svegli, altrimenti ti rimandavano a casa con molta facilità. L'addestramento Ma forse vi avranno spiegato qualcosa dopo, durante il corso, direte voi. La 'risposta è: assolutamente no! L'istruzione avveniva esclusivamente "per aria"; le parole briefing e debriefing sarebbero nate parecchio tempo dopo! Frequentammo sì delle lezioni teoriche in aula, ma queste riguardavano soltanto le arti militari, i regolamenti e altre materie più o meno complesse, ma per quanto riguarda la conoscenza delle macchine su cui volavamo e la tecnica di pilotaggio non ci fu mai spiegato, ripeto, assolutamente nulla, salvo che per il P.51 Mustang. Del T-6, per esempio, di tutti gli strumenti ne conoscevamo ben pochi, come pure non potevamo mai selezionare il serbatoio, manovra demandata esclusivamente al motorista di terra, dato che facevamo solo voli di durata non superiore,.. all'ora. Non adoperavamo mai i trim (sic!) e via dicendo... Qualche esempio di istruttore competente dal punto di vista teorico, a dir la verità, c'era, ma ciò costituiva un'estrema rarità: verso la fine del corso, ad Elmas, quando già si volava sul Mustang, si completava il volo notturno con un raid sul T-6 Elmas-Alghero- Elmas. Un giorno mi capita di fare tale volo notturno con l'allora capitano Mura, diventato poi famoso generale (e col quale non avevo mai volato prima). Al punto attesa, dopo la prova motore, che per noi consisteva solo nel provare i magneti, il capitano mi dice nell' interfonico: "Ora proviamo l'aria calda al carburatore" panico assoluto! Dopo qualche secondo di una mia febbrile quanto inutile ricerca per fare qualcosa... "Allora? Non sa come si prova l' aria calda?" “nnnno, comandante! Non lo so". "Guardi in basso a sinistra, sotto il cruscotto, vi è un manettino verde con un pulsantino in cima, schiacci il pulsantino e tiri tutto indietro il manettino ..fatto? Si' ! Adesso controlli la temperatura dell' aria al carburatore". La mia vergogna (sono l'unico perito aeronautico del corso) è alle stelle. Dove la leggo questa maledetta temperatura? Chi mi ha mai parlato di simili diavolerie? E dopo altri spasmodici secondi la voce seccata del capitano mi dice di guardare quello strumentino che si trova in quella certa posizione: "Cosa segna?" "Quaranta gradi" rispondo io. "Bene, ora riporti il manettino nella posizione di prima e osservi lo strumento, cosa segna ora?" "E' sceso a 15, comandante". "Bene, ora possiamo decollare!" Per la cronaca non ricevetti alcun rimbrotto, perché il capitano sapeva che in proposito non ci aveva insegnato niente nessuno. Volete un'altro esempio? Eccolo! Una mattina piovigginosa devo fare un volo strumentale sul T-6 (a metà corso circa) e mi capita (non vi meravigliate, gli istruttori cambiavano quasi continuamente) il tenente B., che conoscevo benissimo essendo stato il mio istruttore all' aero club, ma ad Elmas era la prima volta che volavo con lui! Appena a bordo, lui davanti ed io dietro in "tendina" (cioè senza visibilità esterna), il dialogo all' interfonico fu pressapoco questo: "Bergomi, che lezione devi fare?" "La xx signor tenente" . "Ah, bene, quella di inizio del volo radioguidato, allora accendi l'ADF e sintonizzalo sul radiofaro di Elmas". Per me tutto ciò era arabo completo! "Guardi, signor tenente, che non so niente di tutto ciò". "Come, non ti hanno insegnato !'impiego dell' ADF?" "Assolutamente no!" "Beh, guarda davanti a te, sotto il cruscotto, proprio al centro in basso c'è un apparato quadrato, nero, grande circa una spanna, l' hai trovato?" "Sì, sì". "Allora, in alto a destra vedrai una finestrella semicircolare con sei numerini, l' hai vista? Cosa leggi sui numerini?" "1.500 signor tenente". "Bene, allora sotto la finestrella vi è una specie di chiavetta, girala finché leggerai circa 300... fatto? Sì? Allora vedi che a sinistra vi è un' altra chiavetta con un indice e le scritte OFF-ANT-ADF-LOOP eccetera... trovata? Mettila su ANT'. Insomma, per farla breve, io ho imparato ad accendere e sintonizzare l'apparato ADF, che allora non era per nulla automatico, nei pochi minuti in cui il motore si scaldava (meno male che era il primo volo del mattino) ed ho appreso le prime nozioni per l'intercettazione dei rilevamenti immediatamente dopo andando in volo. Vi prego di credere che tutto ciò è vero, tutt' al più posso essere incorso in qualche piccolissima imprecisione dovuta alla memoria. Ma ora basta parlare di tutte queste cose negative, perché c'è anche la parte positiva, e come! Gli attacchi al suolo Nonostante le difficoltà teoriche, devo sinceramente dire che il corso era condotto con uno spirito, un entusiasmo e con soddisfazioni tali che per molti di noi è stato uno dei periodi più belli ed eccitanti di tutta la nostra vita in assoluto! Poi, dopo il nostro corso, le cose cambiarono, adeguandosi, sotto certi aspetti immediatamente e sotto certi altri piano piano, ai sistemi di tipo americano, cioè con studio, controlli, programmi precisi, sicurezza, ecc. Una delle cose che cambiarono subito fu questa: durante l'addestramento cosiddetto "bellico", gli attacchi al suolo li facevamo in modo molto realistico. Volavamo in coppia paralleli ad una strada e quando scorgevamo una macchina o un camion (allora il traffico stradale era estremamente raro), con un quasi rovesciamento ci buttavamo in picchiata, puntando il bersaglio come per effettuare un attacco reale. Considerando che i nostri erano i primi aeroplani dall' aspetto indiscutibilmente bellicoso che volavano di nuovo in Sardegna dalla fine della guerra, per gli ignari autisti era un autentico shock, tale da provocare anche alcuni incidenti stradali, come capitò a quel poveraccio che, per guardare gli aeroplani che "lo attaccavano", non si accorse di una curva finendo in un fosso. Un altro autista, invece, ebbe il tetto della macchina quasi sfondato dal ruotino di coda di un T-6, che aveva richiamato un po' troppo tardi. lo ricordo personalmente di aver visto schizzar fuori da una autobotte - che stavo puntando con determinazione - i due autisti, che se la diedero a gambe per i campi, convinti che fosse di nuovo scoppiata la guerra! I nostri istruttori, che avevano fatto tutti la guerra, magari non conoscevano la formula della portanza, ma ci insegnavano, per esempio, a fare il volo radente in modo tale che, se sotto c'era l'acqua del mare l'elica sollevava una scia di vapore quasi come un motoscafo: ovvio che l'altezza non era questione di metri, ma di pochi centimetri... I finti combattimenti aerei, poi, si facevano senza alcuna limitazione di assetti e di "G", pur di riuscire a vincere sul collega avversario. Come ho già detto, i termini briefing, check list, virate di sicurezza e simili erano completamente sconosciuti. Col Fiat G.59, che saliva molto rapidamente, la media dei voli era di 20/25 minuti, comprendenti: decollo, salita in zona, tutta l'acrobazia, discesa e due circuiti con relativi atterraggi. Insomma, una autentica orgia, in cui si sfogava tutta la nostra (e la loro, cioè degli istruttori) passione per il volo. Con la sola eccezione per quelli che andavano male e che prima o poi dovevano prendere la strada di casa. Che per fortuna, nel nostro corso, non furono numerosi. Altri tempi! (o altri allievi?) Pegaso luglio 1996
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Manuali di volo degli aerei
Dave97 ha risposto a maverick13 nella discussione Libri & Riviste Aeronautiche
Qui puoi scaricare il manuale di volo in inglese del Cap10C akrotech in formato pdf Manuale di volo -
Staccando l'ombra da terra
Dave97 ha risposto a Dave97 nella discussione Libri & Riviste Aeronautiche
Edito da Einaudi, 1994 133 pagine, € 11,36 -
Può accadere un giorno di dover volare da soli, e di perdersi come ci si perde nella vita, Sarà necessario allora conoscere l'entità dell'errore, bilanciarsi tra istinto e manovre, vertigine ed equilibrio, In questo spazio si muovono le figure di Staccando l'ombra da terra: Bruno, che è il sapere del volo; l'anziano che racconta la sua storia di aerosilurante; piloti vivi o scomparsi; il protagonista narrato dal suo doppio, E l'aeroplano, unico testimone nelle pagine su Ustica. Chi narra è sempre in una posizione estrema, obbligato a fare ogni volta il punto su se stesso, come richiede il sapere aeronautico ma anche quello di un antico andare, della navigazione e della peripezia attraverso il mondo, che si fanno qui caldo e appassionato racconto. Ma la parola, come il volo o la vita, racchiude in sé un lato di non detto, percorso vergine dove ognuno calca la propria impronta come in un manuale dell'esistenza, in una personale meteorologia. Indice p. 3 Per l'errore 15 Tra il secondo 1423 e il secondo 1797 23 E tutto il resto? 36 Pauci sed semper immites 67 Fino al punto di rugiada 85 Manovre di volo 97 Unreported inbound Palermo 105 Doppio decollo all'alba
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Riattaccata ll pilota in corto finale ha due scelte alternative a sua disposizione: atterrare o riattaccare. Purtroppo i piloti sono spesso impreparati ad affrontare la riattaccata, sia dal punto di vista tecnico, sia e soprattutto dal punto di vista psicologico. In non pochi casi questa impreparazione, oltre ad aerei distrutti, causa morti e feriti gravi. In base alle statistiche, gli incidenti di questo tipo che hanno le conseguenze più gravi sono quelli dovuti a riattaccate intraprese in ritardo, quando i piloti tentano di riportare in volo gli aerei, o di mantenerveli, dopo che ciò non è più aerodinamicamente possibile, per cui il conseguente impatto con il terreno o con gli ostacoli avviene a velocità elevate. Quando invece i piloti non eseguono affatto l'indispensabile riattaccata, le conseguenze sono sovente meno gravi perché l'aereo riesce in qualche modo a essere rallentato prima di finire fuori pista o contro qualche ostacolo. La decisione se riattaccare o atterrare deve essere presa tempestivamente e non oltre un certo punto dell'avvicinamento, punto la cui ubicazione è di volta in volta determinata da variabili come il tipo dell'aeromobile, la lunghezza della pista, lo stato della sua superficie, il vento, eccetera. Quando si deve riattaccare Ma per essere realmente in grado di prendere la decisione giusta al momento giusto bisogna essere psicologicamente pronti ad accettare il fatto che ogni avvicinamento può terminare non con un atterraggio, bensì con una riattaccata. Ci sono alcune situazioni nelle quali la necessità di riattaccare si impone da sé, percui il prendere la decisione giusta non presenta difficoltà. Ciò succede, per esempio, quando il pilota in corto finale (in genere su un aeroporto non controllato o su un'aviosuperficie) vede un altro aereo a terra che va a occupare la pista per decollare, oppure quando si trova davanti un altro aereo in procinto di atterrare sulla stessa pista. Su un aeroporto controllato, la riattaccata può essere anche ordinata dalla Torre, a volte per motivi che non sono immediatamente evidenti al pilota in avvicinamento. Ci sono altre situazioni in cui la scelta fra atterraggio e riattaccata è meno facile, come per esempio durante gli avvicinamenti con forte vento, la cui componente al traverso è prossima al valore massimo stabilito dal costruttore, o comunque tale da mettere a dura prova l'abilità del pilota nel contrastarla. Oppure come durante gli avvicinamenti eseguiti in sequenza ad aerei di grandi dimensioni, dei quali va evitata la turbolenza di scia. In queste situazioni, anche se la scelta è resa più ardua dalle valutazioni di ordine tecnico che il pilota è costretto a fare, la decisione di riattaccare risulta comunque agevolata dalla presenza di "cause esterne" che offrono la giustificazione per eseguire la manovra, a torto e troppo spesso considerata come qualcosa di poco dignitoso o disonorevole. Ci sono infine le situazioni che più di frequente richiedono la riattaccata, e nelle quali i piloti sono purtroppo indotti a fare la scelta sbagliata: si tratta dei casi in cui la decisione di riattaccare è resa necessaria dall'errata pianificazione e/o esecuzione dell'avvicinamento. Non avendo a disposizione "valide scuse" per giustificare il mancato atterraggio a se stessi, ai passeggeri, o a chi essi credono li stia osservando da terra, questi piloti si sentono feriti nell'orgoglio e tentano perciò in ogni modo di salvare l'atterraggio, con conseguenze a volte tragiche. Le motivazioni psicologiche che rendono i piloti restii ad ammettere di aver impostato male l'avvicinamento, e quindi a riattaccare, spiegano perché gli incidenti di questo genere succedono non solo agli allievi e ai novellini ma anche, e forse soprattutto, a piloti di notevole esperienza, non di rado professionisti. La situazione che più di frequente richiede la riattaccata è l'avvicinamento a una pista corta impostato alto e veloce, magari con un po' di vento in coda. Il termine pista corta" è ovviamente relativo: la stessa pista può infatti essere di lunghezza esuberante per un certo tipo di aereo e assolutamente insufficiente per un altro Prima di eseguire l'avvicinamento, perciò il pilota deve calcolare la lunghezza di pista necessaria per l'atterraggio, usando i dati di prestazione forniti dal manuale di volo e tenendo conto delle condizioni ambientali nelle quali avrà luogo la manovra (ostacoli,altitudine di densità, natura e condizioni del fondo della pista, vento, ecc.). Come si deve riattaccare Troppo spesso si vedono piloti che tentano di accorciare la traiettoria di avvicinamento spingendo avanti la barra per abbassare il muso dell'aereo. Tale manovra è inutile e pericolosa perché induce un aumento di velocità anemometrica che deve poi essere smaltita prima del contatto. Il risultato è che l'aereo, dopo la richiamata, galleggia molto più a lungo del solito, e perciò appoggia le ruote molto più avanti del punto in cui il pilota avrebbe desiderato atterrare. L'unica manovra che consentirebbe di accorciare la traiettoria di avvicinamento senza aumentare la velocità anemometrica è la scivolata. La cui esecuzione durante l'avvicinamento ad una pista corta è però in genere sconsigliabile, in quanto potrebbe rendere impossibile la corretta valutazione degli effetti della manovra stessa e costringere poi a riattaccare ugualmente, ma in condizioni più precarie e con margini di sicurezza ridotti. Una volta presa la decisione di riattaccare, senza esitazione si deve far erogare al motore la massima potenza (manetta tutta avanti o al valore massimo di MAP se il motore è sovralimentato, elica al passo minimo, miscela ricca, ed eventuale aria al carburatore fredda), e contemporaneamente alzare il muso dell'aereo di poco sopra l'orizzonte, cioè nell'assetto che consente di azzerare il rateo di discesa. Questa è la fase più delicata della manovra, in quanto l'aereo deve essere fatto transitare da una traiettoria in discesa percorsa in configurazione di elevata resistenza aerodinamica e con il motore al minimo o quasi, a una traiettoria prima orizzontale e poi in salita con il propulsore alla massima potenza. La variazione di assetto deve perciò essere eseguita in modo graduale, sollevando il muso solo dopo che la velocità anemometrica lo consente senza rischio di stallo. Non appena l'aereo ha raggiunto la velocità sufficiente, la configurazione dei flap va progressivamente ridotta per diminuire la resistenza e consentire all'aereo prima di accelerare ulteriormente, e poi di salire. È fondamentale comprendere che, sebbene i flap vadano tolti quanto più presto possibile perché negli assetti elevati generano resistenze tali che potrebbero addirittura impedire all'aereo di salire, la loro retrazione non deve comunque essere iniziata prima che la velocità abbia superato il valore che consente all'ala di generare la sufficiente portanza senza raggiungere l'angolo di incidenza di stallo. Diversi incidenti in riattaccata avvengono per la retrazione prematura dei flap. Se il carrello è retrattile, la retrazione delle ruote va iniziata solo dopo che l'aereo abbia cominciato a salire stabilmente, così da non correre il rischio di toccare la pista con la pancia dell'aereo o con l'elica. La retrazione del carrello deve seguire quella dei flap perché le ruote abbassate generano molta meno resistenza dei flap alla massima estensione. Quando l'aereo è stato "pulito" e trimmato per l'assetto che consente la velocità più idonea per la salita (la velocità di salita ripida Vx se ci sono ostacoli da superare, e la velocità di salita rapida Vy in ogni altro caso), la riattaccata può essere considerata conclusa. A questo punto, se la riattaccata si è resa necessaria per l'ingresso in pista di un aereo in decollo o per la presenza di un altro aereo in finale, è opportuno che il pilota che ha riattaccato accosti sulla propria destra, in modo da lasciarsi la pista a sinistra e poter tenere d'occhio il traffico "intruso". Salvo situazioni particolari, l'uscita di pista va eseguita solo a riattaccata ultimata perché il manovrare a bassa quota con l'aereo in condizioni di sostentamento precario potrebbe provocare uno stallo dal quale sarebbe poi assai arduo uscire. La riattaccata, specialmente con gli aerei leggeri, non è una manovra difficile, ma per essere eseguita senza problemi richiede che il pilota sia sempre pronto e deciso a effettuarla. Per prepararsi psicologicamente, egli dovrebbe eseguire ogni avvicinamento come se l'esito normale dovesse essere la riattaccata, e alla fine decidere di atterrare solo quando tutto va bene. Per prepararsi tecnicamente e mantenersi sempre in grado di eseguirla con sicurezza all'occorrenza, invece, così come avviene per ogni altra manovra che la normale attività di volo richiede solo saltuariamente, il pilota dovrebbe allenarsi a compierla in situazioni di necessità simulata. È pertanto consigliabile che ogni pilota salga di tanto in tanto a bordo con un istruttore ed effettui qualche riattaccata, possibilmente cercando di ricreare le diverse situazioni in cui la manovra si può rendere necessaria nella realtà. R.Trebbi
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Che Fastidio il Cicalino Sono sicuro che i nostri errori di pilotaggio, opportunamente riconosciuti, possono aiutare altri piloti e quindi ritengo sia giusto rendere "pubblico" il fatto, senza nominare chi lo ha commesso. Per questo non rivelerò l'aeroporto di partenza, il tipo di aeroplano, eccetera; perché mi sento più libero di raccontare tutto, senza attenuanti. Venivo da un aeroporto del Nord Europa e avevo fatto il pieno di passeggeri e carburante. O meglio, avevo fatto il pieno di carburante perché oltre a noi due piloti, in un primo momento, ci era stato detto che vi sarebbero stati soltanto due passeggeri. Si presentarono invece in sei. Avevo qualche libbra in più del peso massimo al decollo, ma non feci storie e accettai di partire lo stesso. Tutto si svolse in modo tranquillo fino a 20.000 piedi e, arrivato alla quota di crociera in linea di volo, mi stavo rilassando, anche perché ormai ero rientrato nel peso. C'erano davanti, proprio sulle Alpi, nubi sottili a strati, ma nessun problema; la temperatura non avrebbe consentito la formazione di ghiaccio. Insomma, un volo come tanti altri su un aeroplano che ormai, dopo 150 ore di volo, conoscevo benissimo. Entrammo nelle nubi e in questa atmosfera ovattata mi sentii tranquillo come nel salotto di casa. Fu il mio secondo a riportarmi alla realtà con una notizia tutt'altro che confortante: si era accorto che, di tanto in tanto, uscivano delle nuvolette di fumo dal motore destro, cioè dalla sua parte. Allentai le cinture e mi portai quasi sopra il mio compagno per vedere che cosa stesse accadendo. In effetti, dal motore usciva, ora non più a tratti ma continua e densa, una scia di fumo biancastro. Era una perdita di olio, non c'era alcun dubbio. Non avevo scelta, dovevo "tagliare" il motore in avaria prima di guai peggiori. Avvertii i passeggeri che avevamo un "piccolo" problema, (tra l'altro, qualcuno di loro aveva già visto il fumo), ma che non correvamo alcun pericolo. lo peraltro mi sentivo tranquillo e perfettamente lucido. Eseguii, come da manuale, la chiusura del motore, trimmai l'aeroplano e cominciai la discesa alla quota di tangenza di un solo motore, che era di 18.000 piedi. Lo potevo fare perché ero ritornato nel chiaro e avevo superato la punta delle Alpi più alta lungo la mia rotta. Avvertii il Controllo della mia situazione, che non era di vera emergenza, ma chiesi priorità in atterraggio. Con la manetta del motore sinistro in off suonava fastidiosa e petulante la sirena che avvertiva che avevo il motore chiuso e il carrello dentro. Un avviso di sicurezza per evitare di dimenticare di estrarre il carrello in atterraggio. Per fermare quel suono, tirai fuori quasi istintivamente il breaker e finalmente ritornò il silenzio. L'atmosfera dentro l'aeroplano, se non serena, era ritornata abbastanza tranquilla, nonostante una ragazza tra i passeggeri mi sembrasse piuttosto nervosa. Dissi, rivolgendomi ai passeggeri, qualche battuta senza senso per sdrammatizzare, ma mi resi conto che era meglio non parlare. L'assistenza del Controllo fu veramente ottima; da lontano, mi posizionarono direttamente per la pista 18, in modo da arrivare direttamente all'atterraggio. Mi chiesero se dichiaravo emergenza per allertare i Vigili del fuoco; risposi che non ce n'era bisogno. Manovravo perfettamente e già ero in vista dell'aeroporto. Cominciai a mettere i flap e, alla velocità richiesta, tirai fuori il carrello. Non sentii il classico rumore del blocco,forse ero distratto da altro, pensai. Ma subito il mio secondo mi disse che non si erano accese le tre luci verdi, quelle che danno la conferma che le ruote sono fuori. Era così. Il carrello non usciva. Non persi tempo, ero quasi in finale e non pensavo certo di riattaccare; feci la manovra di estrazione d'emergenza. Nulla di fatto; le luci rimasero inesorabilmente spente. Ero in finale e già autorizzato ad atterrare. Fu un attimo; pensai che, se fossi atterrato sull'asfalto, avrei corso il rischio di provocare un incendio con tutto il carburante che avevo, avrei potuto provocare una strage. Decisi allora di continuare l'avvicinamento, ma di deviare leggermente a destra e atterrare sull'erba a fianco della pista. Il pericolo di incendio sarebbe stato così molto ridotto. Toccai al limite dello stallo e fu un atterraggio perfetto. Perfetto perché il carrello era completamente fuori. Ne fui così sorpreso che non feci in tempo a frenare prima che un maledetto fossato spaccasse il ruotino anteriore e l'aeroplano si cappottasse. Non ci furono né morti né feriti. L'aeroplano però subì gravissimi danni. Le luci del carrello erano collegate al breaker che avevo staccato per non sentire l'avviso del "carrello su". Tratto da Volare luglio 1999
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AUGURI !!!!!!!!!!!!!! Happy Birthday