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TENENTE HANS-JOACHIM MARSEILLE - LUFTWAFFE - Di tutti i piloti della caccia tedesca nella seconda guerra mondiale, quello che più decisamente eccitò la fantasia e l'immaginativa dei suoi concittadini, e che doveva divenire una leggenda paragonabile a quella di Douglas Bader nella RAF, fu Hans-Joachim Marseille. Oggi viene considerato come il più grande di tutti i piloti della caccia della Luftwaffe da autorità come Adolf Galland, Hans Ring e da altri suoi camerati che volarono in Africa insieme con lui. Alcuni degli avvenimenti a lui occorsi sono talmente incredibili che gli scettici delle nazioni alleate rifiutarono per molti anni di accettame la documentazione o anche soltanto di controllarla. Quelli che ebbero modo di vederlo in azione lo classificarono già in una categoria a parte quale magnifico tiratore aereo; la sua mira era cosi precisa che il suo gregario, che assisteva alle sue vittorie, veniva chiamato col soprannome di fliegendes Zahlwerk ( macchina addizionatrice volante). Il suo comandante in Africa, il colonnello Eduard Neumann : «Non c'era nessun altro come lui; riuscivo sempre a riconoscerlo dal modo in cui volava". Il suo gregario, Reiner Poettgen,:«Era il più grande di tutti i nostri piloti». Galland lo definisce: "un virtuoso, ineguagliato tra tutti i piloti da caccia della seconda guerra mondiale. I risultati che ha ottenuto sarebbero stati definiti impossibili, prima che lui vi riuscisse". Hans Ring, che ha parlato con un gran numero di piloti tedeschi che avevano volato con Marseille, dice che era il « più grande » di tutti gli « Experten» tedeschi. La missione di volo descritta in questo capitolo è l'unico racconto di questo libro che si riferisca a un pilota scomparso; è stato possibile ricostruirla unicamente perché esistono ancora moltissime informazioni particolareggiate e testimoni oculari del volo che andremo a esaminare. Il suo gregario è ancora vivo e abita a Colonia; il suo comandante è anch'egli tuttora in vita, a Monaco: ambedue erano in volo con lui durante quel memorabile episodio di cui ci si occupa in questo capitolo e ricordano, ancora oggi, persino qualcuna delle parole che allora furono scambiate. Oltre a questo, uno dei piloti abbattuti in quel giorno da Marseille ha dato la conferma degli avvenimenti, visti dall'altra parte, mentre uno sguardo alle perdite che la RAF ha subito in quella data ha dimostrato che le vittorie pretese da Marseille sono del tutto vere. Mi sono servito dei resoconti tedeschi di quel combattimento oltre che dei riconoscimenti confermati sulla base di quei rapporti, giungendo alla conclusione che le dichiarazioni di Marseille non sono state affatto gonfiate. Quando ci si riferisce alle vittorie di guerra è ovvio che vi sia sempre la possibilità che le informazioni, che è poi possibile ottenere dall'altra parte alla fine delle ostilità, debbano alterare alquanto il quadro e perciò il risultato ottenuto da Marseille deve essere considerato tenendo presente questa eventualità, che è valida per qualunque altro pilota da caccia. La carriera di Marseille fu molto breve. Nato a Berlino nel 1919 frequentò le scuole nella capitale e aveva diciannove anni quando scoppiò la guerra. Suo padre aveva prestato servizio, anch'egli nell'aeronautica, durante la prima guerra mondiale, e la famiglia discendeva da antenati di buona origine di ugonotti francesi. Marseille prese il brevetto di pilota ed era già un giovane sottotenente sul fronte occidentale quando, il 10 maggio 1940, cominciò l'offensiva tedesca contro la Francia e i Paesi Bassi. Era allora in forza al 52° Stormo da caccia e abbatté sette velivoli durante la campagna francese; trascorse quindi un breve periodo al 5° Stormo e poi venne trasferito al 27° Stormo poco prima della partenza per l'Africa di un gruppo dei suoi piloti; arrivò con loro nell'aprile del 1941 e, in qualcosa come poco più di un anno di guerra, abbatté centocinquantuno avversari. La sua morte, avvenuta il 30 settembre 1942, giunse quando la Luftwaffe era pervenuta al massimo del suo sforzo in Libia. Quanto valesse come pilota, per la Luftwaffe e per l'Africa Korps, può essere facilmente immaginato quando si pensi che soltanto nelle ultime quattro settimane di combattimenti, nel settembre del 1942, aveva abbattuto cinquantasette aeroplani nemici. In questo ultimo mese ebbe la sua più grande giornata abbattendo diciassette velivoli in tre voli successivi; dopo la guerra vi sono state delle contestazioni riguardo a queste conferme e vale la pena di dare una scorsa agli avvenimenti di quel giorno. Marseille raccontò di avere abbattuto due Spitfire e due Curtiss nella prima missione di volo del mattino; altri otto Curtiss (sia Tomahawk sia Kittyhawk) in un altro volo compiuto nella tarda mattinata su Alam el-Halfa e altri cinque Curtiss ,nel tardo pomeriggio, a sud di Imayid. È stato detto che ha abbattuto gli otto Curtiss del mattino in dieci minuti e gli altri cinque in sei; i quattro del primo volo richiesero undici minuti. Una così rapida e totale distruzione non era mai stata ottenuta prima di allora e sorsero interrogativi sia nella Luftwaffe, in quell'epoca, sia tra gli Alleati, dopo. A guerra finita fu detto, controbattuto da parte tedesca, che la RAF non aveva perso tanti velivoli in tutto il Medio Oriente, in quel giorno, quanti Marseille pretendeva di averne abbattuti. Tuttavia, la documentazione ufficiale registra tredici velivoli della RAF abbattuti e altri sei atterrati fuori campo perché danneggiati in combattimento: un totale cioè di diciannove; oltre a questi, altri caccia furono colpiti. Dei diciannove, due erano Spitfire, otto erano Curtiss e nove Hurricane; dato che i tedeschi confondevano spesso gli Hurricane con i Curtiss non è possibile essere eccessivamente pignoli finché tutte le perdite della RAF nel Medio Oriente non siano state accuratamente controllate sia come tempi sia come località. In altre occasioni, Marseille abbatté diversi velivoli del tipo dei Curtiss con grande rapidità e con pochissimi colpi: non sembra quindi logico concludere che non fosse possibile che avesse abbattuto parecchi Curtiss in pochi minuti. L'evidenza dei fatti accertati dimostra che non solo avrebbe potuto farlo, ma che anzi lo foce in diverse occasioni; non bisogna dimenticare che il Me 109 sul quale Marseille volava era un caccia di tipo decisamente superiore ai Curtiss o agli Hurricane che erano allora impiegati nel Medio Oriente. Le conferme date dalla Luftwaffe, oltre ai concordi pareri dei piloti che volavano con Marseille, sono elementi assolutamente positivi per affermare che le sue dichiarazioni erano del tutto realistiche Soltanto pochi, tra i piloti alleati, tra i quali David McCampbell, della Marina degli Stati Uniti, e G.H. Dyson, della RAF, furono capaci di distruzioni paragonabili a quelle di Marseille, in un solo volo, McCampbell abbatté nove Zeke e ne danneggiò altri due nello stesso volo, nell'ottobre del 1944; come Marseille, McCampbell volava con un caccia di caratteristiche superiori, l’ F 6F, e gli Zeke avevano assunto una formazione difensiva non molto diversa dalla similitare adottata dai Curtiss nel Medio Oriente contro i 109, quella contro la quale la tattica di Marseille ebbe risultati cosi efficaci. Dyson, impegnato nella prima campagna africana, nel dicembre del 1940, abbatté sei Fiat CR 42, uno dei quali precipitò su un bombardiere SM 79 facendolo a sua volta precipitare, dando così alla RAF il massimo ottenuto in un solo volo: sette abbattimenti. La formazione denominata «Lufbery», che ebbe tanto successo nella prima guerra mondiale, sembra sia stata piuttosto vulnerabile, come manovra difensiva, contro piloti decisi e montati su velivoli molto più veloci di allora. Una delle principali ragioni per i successi di Marseille, secondo quel che hanno raccontato coloro che hanno assistito al suo sviluppo, fu la cura tutta particolare che il colonnello Eduard Neumann, suo comandante al 27° Stormo caccia, mise nell'assisterlo nella sua audacia e nel trattenere le sue esuberanze. Marseille fu trasferito al reparto proprio prima della sua partenza per l'Africa e aveva avuto qualche grana di carattere disciplinare sia al 2° sia al 5° Stormo; Neumann, che era allora comandante del gruppo e che divenne poi il Kommodore dello stormo quando questo fu riunito, ebbe molta pazienza nel seguire Marseille, il cui carattere si presentava decisamente riottoso. Aveva allora ventun anni e, come già durante le scuole e la campagna di Francia, era ancora un tipo fuori del normale sia nel comportamento sia nell'aspetto; anche nel volo e nelle relative tattiche si comportava in maniera fuori dell'usuale commettendo spesso infrazioni a quelle che erano le norme ufficialmente ammesse. Vestiva in maniera del tutto personale, era un appassionato del jazz, delle danze all'ultima moda, delle ragazze e, tutto sommato, avrebbe potuto divenire un grave problema sia nel campo disciplinare sia in quello morale. Una volta, in Germania, aveva atterrato su un'autostrada; in Africa, preso dalla rabbia, era andato in volo e aveva sparato una raffica mirando nei pressi della tenda dove viveva un suo superiore che si era rifiutato di dargli degli incarichi per delle missioni di combattimento. Recentemente, parlando di Marseille, il colonnello Neumann osservava: «Col suo coraggio avrebbe potuto essere un grave problema oppure un magnifico pilota da caccia. Nei primi tempi la sua personalità, oltre che la sua mancanza di disciplina, gli alienarono i sentimenti dei compagni. Però, quando si resero conto delle sue doti, della sua abilità e videro i risultati che otteneva, capirono le sue capacità di combattente, di comandante » Neumann si ,rifiutò di lasciarsi dominare dall'irrequietezza della persona e fece uno sforzo, opportunamente calcolato, per guadagnarsi il rispetto e la confidenza di Marseille, riuscendo perfettamente nel suo tentativo. È quello che accadde nella RAF con Bob Tuck, salvato da un probabile esonero dal pilotaggio, quando era ancora alla scuola di primo periodo, dalla comprensione dei superiori: anche il successo di Marseille fu probabilmente dovuto soltanto al fatto che Neumann intuì la poderosa capacità dell'individuo con il quale aveva a che fare. Secondo quanto narrano i suoi compagni sopravvissuti, le tattiche di combattimento di Marseille erano estremamente audaci; attaccava anche in condizioni o in circostanze che, universalmente, sarebbero state riconosciute come sfavorevoli. Quando i piloti nemici si chiudevano nella «Lufbery» per potersi difendere, lui non esitava a lanciarsi contro di loro; la teoria da tutti accettata era che chiunque attaccasse uno dei velivoli così circolanti sarebbe stato a sua volta attaccato dal pilota che era dietro .al velivolo minacciato. Marseille era cosi esperto nel tiro che effettuava le sue puntate in picchiata oppure risalendo dal basso dopo una candela con la quale aveva preso velocità; molto spesso abbatteva uno dei velivoli in difensiva al solo primo passaggio, con una raffica di nemmeno un paio di secondi. Qualche volta entrava addirittura nella fila del circolo nemico. Un altro tipo di formazione che aveva l'abitudine di attaccare in quella che era considerata una posizione estremamente svantaggiosa era la «V» Si avvicinava dalla coda, esponendosi così al fuoco dei gregari per poter colpire il capo, che si trovava al centro; piombava con velocità sufficiente per sfuggire alla reazione dei caccia nemici che venivano a trovarsi sui suoi fianchi e strappava la vittoria con una veloce, ben mirata raffica; questa tattica fu da lui impiegata in più di un'occasione. La chiave del successo di Marseille era la quasi perfezione nel tiro aereo; abbatteva i nemici con un minimo spreco di munizionamento; il calcolo delle correzioni da apportare mentre picchiava, o mentre cabrava per colpire dal basso, era una sua specialità. Esercitandosi continuamente era divenuto talmente preciso (e fiducioso in se stesso) nel tiro in manovra, che aveva studiato un sistema in base al quale sparava mentre il velivolo nemico, che virava davanti a lui, stava sparendogli sotto il muso del 109; dopo una breve raffica non prestava più attenzione alla vittima che aveva avuto davanti e si concentrava nella mira contro il caccia che lo seguiva nel circolo che aveva davanti a sé. La sua abilità di pilotaggio era, ovviamente, fuori del normale. Durante tutto quello che fu il suo ultimo anno di combattimenti, nel quale raggiunse più di centocinquanta vittorie e divenne il più grande asso del fronte occidentale di tutta la guerra, il suo velivolo non venne mai colpito. Le sue manovre erano più veloci di quelle della media dei vari piloti e, nonostante che la cosa possa apparire più una leggenda che una realtà, i suoi compagni di volo ancora viventi sono concordi nell'affermare, senza ombra di dubbio, che il Me 109 di Marseille originava una scia di condensazione dall'estremità delle ali quando nessun altro nella formazione faceva altrettanto: tra quelli che confermano un simile fatto citiamo Neumann e Poettgen. Aveva una vista acutissima,e le ottime condizioni meteorologiche e l'eccellente visibilità che usualmente si presentavano in Africa lo mettevano in condizioni di volare con regolarità e di mirare esattamente nel punto prescelto. Data la superiorità del suo velivolo,e la fiducia che aveva in se stesso, trovatosi sotto la guida di un esperto comandante, Marseille poté impiegare le sue capacità per dare un formidabile apporto allo sforzo che il suo paese stava facendo in campo aereo I suoi compagni di volo, qualche volta con simpatia e qualche altra in ben diversa guisa, furono .le vittime del suo continuo esercitarsi nelle puntate per il tiro quando la squadriglia rientrava dalle sue missioni di volo.
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La bomba U Sembra tuttavia che gli esperimenti di Bikini abbiano rappresentato un ulteriore passo innanzi verso la realizzazione di un nuovo tipo di bomba, designato come bomba U. Infatti il 2 giugno 1955 il prof. Willard Libby, dell'Atomic Energy Commission degli Stati Uniti, parlando in un Congresso scientifico a Chicago , accennò all'esistenza di una bomba a fissione di 10 megaton, di tipo diverso dalla bomba H. Essa comprenderebbe un meccanismo esplosivo che si svolge in tre fasi: si comincerebbe con una fissione nucleare, si continuerebbe con una fusione termonucleare del tipo della bomba H, si terminerebbe infine con una seconda fissione nucleare. Nella bomba U un nucleo di plutonio funziona da miccia, e la sua esplosione produce l'altissima temperatura richiesta per provocare la reazione termonucleare , per fusione , di una miscela di deuterio e di litio che è disposta intorno al nocciolo; si ha perciò una seconda esplosione, del tipo H e in questa si ha, tra l'altro, la produzione di tutta una serie di neutroni ad alta energia, atti a provocare, dando origine ad una terza esplosione, la fissione di una certa quantità di uranio U238 che circonda a sua volta quella miscela. Con dette esplosioni concatenate, si accresce notevolmente il rendimento della bomba; così mentre con ogni reazione di fusione si può avere una quantità di energia variante tra i 4 e i 17 MeV (a seconda del tipo di reazione impiegato), ciascun neutrone liberato da essa e producente la fissione dell'uranio 238, sprigiona una energia di ben 200 MeV. Tra l'altro, da detto insieme di processi, vien fuori una grande quantità di fall-out. La bomba U risulta altresì relativamente poco costosa per il fatto di adoperare, nella fase finale, soltanto dell'uranio 238, abbondante in natura. Gli effetti delle esplosioni nucleari. Con le esplosioni di appena 20 kiloton verificatesi sulle città giapponesi, il raggio delle scottature pericolose, da vampata, raggiunse i 3 chilometri ; ebbene, detto raggio sale ad oltre 20 chilometri per le bombe termonucleari. Ma non meno temibile è il pericolo rappresentato dalla radioattività sia istantanea che residua; quest'ultima è dovuta soprattutto ai neutroni che vengono dispersi nell'esplosione. Questa è accompagnata, infatti, dalla emissione di una radiazione abbastanza complessa, consistente di raggi gamma, neutroni, particelle beta ossia elettroni e, in piccola percentuale, particelle alfa. Ora, mentre i neutroni e alcuni raggi gamma sono emessi nel processo iniziale di fissione, e perciò istantaneamente, i restanti raggi gamma e le particelle beta vengono liberati come decadimento dei prodotti di fissione, e perciò gradualmente. Le particelle alfa, invece, provengono dalla radioattività del plutonio 239 e dell'uranio 235 rimasti indenni, ossia che non hanno subito fissione. In linea di massima, si può considerare come radiazione istantanea quella emessa entro un minuto dalla esplosione; ma per il fatto che le particelle alfa e beta hanno un percorso brevissimo, le radiazioni istantanee, in pratica, consistono esclusivamente di raggi gamma e di neutroni: questi hanno un elevato potere penetrante e perciò producono effetti dannosissimi sugli organismi viventi. Tuttavia, dei raggi gamma prodotti (il 3 per cento dell' energia totale), soltanto la terza parte perviene a notevole distanza dalla zona dello scoppio, ma vi provoca gli effetti più disastrosi per il fatto che a contatto con la materia vivente causa dei processi di alterazione per l'espulsione di elettroni dalle molecole che la costituiscono, ciò che produce la distruzione dei legami chimici che presiedono alla compagine delle molecole stesse e perciò la loro disgregazione; ne restano alterate le cellule e si hanno gravi danni fisiologici. Questi raggi gamma emessi istantaneamente, provengono dal decadimento dei prodotti di fissione, o dalla diseccitazione di nuclei non fissionabili ma che hanno catturato qualche neutrone proveniente dal processo di fissione o, infine, dalla diseccitazione di nuclei eccitati per semplice urto da parte dei neutroni. Ma oltre quelli, vi sono i gamma emessi successivamente, costituenti la radiazione residua: questa deriva, principalmente, dai prodotti di fissione, dai nuclei di plutonio e uranio 235 non fissionati, e dalla radioattività indotta provocata dai neutroni sui vari elementi colpiti sulla superficie terrestre o nel mare. Ma ugualmente pericolosi, oltre i gamma, sono i neutroni, anch'essi raggiungenti, in proporzione dell'1 per cento, una distanza considerevole dalla zona colpita, e dai quali è ancora più difficile proteggersi. Anch'essi provocano rilevanti danni fisiologici, ed è difficile proteggersene per il fatto che gli schermi eventualmente frapposti divengono a loro volta radioattivi allorchè ne vengono colpiti, emettendo nuovi raggi gamma altrettanto pericolosi. Risponde bene come schermo protettivo il calcestruzzo perchè contiene l'idrogeno, il quale, come è noto, rallenta e cattura i neutroni, e contenendo altresì calcio, silicio e ossigeno, riesce ad assorbire i raggi gamma eventualmente prodotti per la cattura di neutroni. L'enorme energia sprigionata da una esplosione nucleare genera un altro grave pericolo; essa provoca la trasformazione in vapore di una grande quantità di materiale polverulento, che viene lanciato e innalzato a velocità grandissima, formando il caratteristico, gigantesco fungo, che si eleva anche ad oltre 20 chilometri. Anche detti materiali vengono resi fortemente radioattivi dagli stessi neutroni, e provocano le conseguenze più deleterie sugli organismi viventi allorchè ricadono, lentamente e anche in zone molto distanti, sulla Terra. I neutroni che si disperdono allorchè si verificano dei processi di fissione, provocano la comparsa di grandi quantità di sostanze radioattive in zone che restano così contaminate. A tale riguardo risultano molto più pericolose le bombe termonucleari che quelle atomiche, per il fatto che per queste v'è un limite per la massa del materiale impiegabile, mentre per le prime non v'è limitazione di sorta. Specie le bombe al litio, liberano enormi quantità di neutroni. Basta pertanto la cattura di neutroni da parte degli atomi dei gas atmosferici per avere l'accrescimento della radioattività complessiva dell' aria; soprattutto l' azoto ha grande attitudine a catturare detti neutroni, trasformandosi in carbonio radioattivo con l'espulsione di un protone. I nuclei degli altri gas atmosferici non intervengono che in misura trascurabilissima nella cattura dei neutroni: l'ossigeno è quasi completamente inerte per detto processo, mentre è limitatissima la possibilità di formazione dell'idrogeno tre (tritio). Resta dunque l'effetto sul.. l'azoto. Il C14 prodotto è radioattivo, con un tempo di dimezzamento elevatissimo, ciò che gli consente di esercitare la sua influenza per lunghe e successive generazioni umane. D'altra parte, esso si combina subito, nella libera atmosfera, con l'ossigeno, formando anidride carbonica radioattiva, la quale, insieme a quella ordinaria, interviene in tanti processi vitali. La sua esistenza e il suo ciclo sarebbero le cause delle mutazioni spontanee sia per le radiazioni che emette nel disintegrarsi, sia perchè un atomo di carbonio radioattivo può essere incorporato in un gene, che si trasformerebbe così per radioattività propria. Resterebbe spiegato in tal modo come un aumento della radioattività atmosferica porti ad un aumento della frequenza delle mutazioni spontanee. Per gli effetti deleteri capaci di provocare, la più pericolosa è la bomba U, ossia una varietà di bomba H a tre stadi; anch'essa sfrutta le altissime temperature sviluppate dalla reazione di fissione del plutonio, per innescare una reazione di fusione di una miscela di deuterio e tritio, e utilizzando i neutroni generati in questa per provocare nuove reazioni di fissione nell'uranio. Ebbene, una di queste bombe, della potenza di 20 megaton (equivalente cioè a 20 milioni di tonnellate di tritolo), può provocare precipitazioni radioattive tanto gravi da causare danni seri e immediati alle persone, fino a qualche centinaio di chilometri dal punto d'esplosione. L'energia Atomica al servizio dell'umanità
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La bomba all'idrogeno. La bomba atomica è fondata su un processo di scomposizione (ossia la fissione) di un nucleo atomico complesso; ebbene, per la bomba all'idrogeno o bomba H, realizzata soltanto nel 1951, benchè ideata contemporaneamente a quella atomica, si impiega invece un processo inverso, ossia di sintesi; più particelle nucleari si uniscono per formare un nucleo composto, con una certa perdita di massa e conseguente liberazione di energia. Questi due tipi fondamentali ma opposti di processi si verificano, con una certa similarità, nelle comuni reazioni chimiche: così, l'esplosione del tritolo avviene appunto a causa della scissione delle sue molecole in vari componenti; mentre un esempio comune di sintesi si verifica nella combinazione del carbonio con l'ossigeno, che dà luogo alla combustione; anche questa reazione è accompagnata dallo sprigionamento di energia. È da notare però che questo secondo processo richiede, per l'innesco, una energia iniziale, atta a vincere la repulsione tra il carbonio e l'ossigeno; ebbene, altrettanto è necessario affinchè si manifesti la sintesi tra più particelle atomiche; occorre un calore iniziale elevatissimo, e perciò tali reazioni vengono dette termonucleari. Nel caso della bomba all'idrogeno, detto calore è fornito dallo scoppio di una comune bomba atomica. Mentre per le bombe atomiche non è possibile superare una certa potenza, correlativa alle dimensioni critiche; se queste venissero superate nell'accumulare il materiale fissionabile, se ne avrebbe lo scoppio spontaneo, con le conseguenze catastrofiche inerenti; invece, per le bombe termonucleari è possibile raggiungere delle potenze illimitate, ed è questa la caratteristica essenziale che le rende di tanto più temibili. Per valutare l'energia prodotta dalle bombe termonucleari ,si assume come unità di misura il megaton, equivalente ad 1 milione di tonnellate di tritolo, mentre un chilogrammo di uranio 235 è equivalente a circa 20 mila tonnellate di detto esplosivo: dunque già il megaton, ossia l'unità di misura per la potenza delle bombe termonucleari, supera di cinquanta volte l'energia liberata da 1 chilogrammo di uranio. La progettazione della bomba H Nella progettazione e nella successiva realizzazione della bomba termonucleare, ebbe una parte preminente il dottor Edward Teller, della Università di California, il quale è stato talvolta definito «il padre della bomba all'idrogeno », sebbene, come di già per quella atomica, la complessa realizzazione sia stata il frutto di un lavoro collettivo reso possibile da una meravigliosa organizzazione, alle dipendenze del governo di un grande Paese, ma libera da ogni intralcio di carattere burocratico. Ciò, del resto, è stato obiettivamente riconosciuto, con ammirevole lealtà, dallo stesso dottor Teller che ha voluto pubblicare qualche cenno intorno alla storia della grande impresa. Si è venuti così a conoscenza che fu Enrico Fermi a suggerire per primo a Teller l'osservazione che, facendo esplodere una bomba a fissione (all'uranio),prima ancora che questa venisse costruita , si sarebbe sviluppato calore sufficiente per provocare la sintesi di più atomi di idrogeno, ossia la loro fusione. E aggiunse ancora che l'idrogeno pesante o deuterio sarebbe stato, per tale processo, più adatto dell'idrogeno normale. E queste osservazioni risalgono al 1942, allorchè quei due fisici si trovavano ancora alla Columbia University, ove era stato iniziato il lavoro per realizzare la bomba a fissione. Tuttavia, per quanto quell'idea potesse sembrare attraente, non furono pochi i dubbi al riguardo, e un certo scetticismo perdurò sino al 1949. Lasciata la Columbia, il Teller passò all'Università di Chicago, ove trovò il fisico Emil Konopinski, già noto negli ambienti scientifici, e pare sia stato proprio questi a formulare le teorie che, dimostrate infondate tutte le riserve, portarono alla realizzazione della bomba all'idrogeno. Al Teller e al Konopinski si unì nelle ricerche il Bethe, autore di una famosa teoria ciclica della radiazione solare, ma fu il secondo di questa triade che ebbe l'idea originalissima di adoperare per quello scopo il tritio invece del deuterio. Ma in quegli anni urgeva concludere il lavoro intorno alla bomba atomica, lavoro risultato molto più complesso del previsto, per le eccezionali difficoltà tecniche che fu necessario superare, e perciò non si potè lavorare, contemporaneamente anche nell' altra direzione; d'altra parte, si imponeva nel nuovo indirizzo la disponibilità iniziale di una elevatissima sorgente di calore che avrebbe potuto essere realizzata soltanto con la bomba a fissione. Fu non prima del 1945, ormai al termine del conflitto, che gli studi relativi poterono essere ripresi. Altri ricercatori abilissimi si unirono ai pionieri: fra essi Rolf Landshoff, i matematici Stan Ulam e Jack Calkin, lo stesso Enrico Fermi e John von Neumann che dalle vette sublimi dell'alta matematica sapeva abbassarsi , come scrisse il Teller , «al livello di un fisico». Il risultato di quello sforzo collettivo fu la sicurezza tecnica conseguita della possibilità della pratica realizzazione della bomba H. Si era ancora nell'estate del 1945. Ma per passare sul terreno delle realizzazioni, s' imponeva un esperimento che presentava eccezionali difficoltà; l'esplosione provocata sarebbe durata soltanto una infinitesima frazione di secondo, e in quello stesso attimo gli strumenti destinati all'accertamento dei fenomeni correlativi sarebbero stati distrutti; si rendeva necessario escogitare un dispositivo atto a registrare cosa accadeva prima della vaporizzazione; ebbene, dopo estenuanti ricerche, venne costruito a Eniwetock un complicato laboratorio, nel quale l'esperimento sarebbe stato tentato; il risultato positivo della operazione definita «Greenhouse », compiuta nel 1951, dimostrò che le previsioni e i calcoli erano stati proficui; la combustione dell'idrogeno era anch'essa un fatto compiuto e dischiudeva all'uomo nuove possibilità, sia nel campo della capacità distruttiva che in quello delle possibilità applicative. Le reazioni termonucleari Di bombe all'idrogeno ne sono state costruite di più tipi, adoperando per la sintesi elementi leggeri diversi. Così, sembra che gli Americani ne abbiano sperimentate almeno di tre tipi differenti, a partire dal 1952, allorchè venne eseguito il primo lancio. Il primo tipo è basato sulla sintesi di due deutoni, secondo la reazione: D + D --> He4 che dà origine, dunque, ad un nucleo di elio, di massa atomica 4, mentre, come si ricorderà, la massa di ciascun deutone è uguale a 2 (un protone e un neutrone) . Il tritio, altro isotopo dell'idrogeno, ha massa atomica 3 ed è costituito da un protone e da due neutroni. Ebbene, con la sintesi di un tritio e di un protone è stato ottenuto un secondo tipo di fusione, secondo lo schema H3 + H1 --> He4 che conduce, evidentemente, allo stesso risultato. Infine sarebbe stata realizzata anche una bomba al litio, secondo la reazione: L7 + H1 --> 2 He4 Ma sulla stessa strada hanno operato i Russi, e sembra con risultati ugualmente concreti. Pare che essi abbiano ottenuto una bomba all'azoto, secondo la reazione: N14 + D --> C12 + He4 È da rilevare però che, mentre le due prime reazioni, quella con due deutoni e l'altra, con un tritio e un protone, avvengono a temperature relativamente basse, per le altre due (cioè col litio e con l'azoto) si richiedono dai 20 ai 50 milioni di gradi. Per tutte, si adopera come spoletta una bomba atomica, capace di fornire le temperature richieste. Enormemente più elevati sono gli effetti distruttivi delle bombe termonucleari, rispetto a quelli provocati dalle bombe atomiche, e ciò per la loro inaudita potenza. Esse raggiungono ormai i 12 megaton (ossia pari a 12 milioni di tonnellate di tritolo): perciò una potenza di circa seicento volte maggiore di quelle della bomba atomica adoperata alla fine della guerra. La prima bomba termonucleare fu fatta esplodere nel 1952 dagli Americani. La decisione della costruzione era stata presa dal Presidente Truman il 31 gennaio 1950, cioè sei mesi dopo che i Russi avevano fatto esplodere la loro prima bomba atomica (agosto 1949); l'ordigno tremendo fu allestito in uno dei più grandi stabilimenti atomici, nella Carolina del Sud, impiantato lungo il fiume Savannah, le cui acque provvedevano al raffreddamento dei reattori. Ma i Russi, il 3 agosto 1953, ne sperimentarono una di maggiore potenza, la cui esplosione pare avvenisse in tre fasi (di cui la prima è rappresentata dallo scoppio di una normale bomba atomica: la bomba,grilletto, che dà l'innesco alla reazione termonucleare). Ma il 10 marzo 1954 gli Americani sperimentarono a Bikini una più potente bomba all'idrogeno, alla quale ne seguirono altre due il 26 marzo e il 6 aprile, e pare che con esse abbiano riacquistato la superiorità atomica in fatto di bombe H. Tuttavia non si può non rilevare che i Russi lavorano con maggiore riservatezza e che gli Occidentali vengono a conoscenza delle esplosioni effettuate soltanto analizzando le nubi radioattive prodotte dalle esplosioni stesse e trasportate dal vento sino al Giappone, ove in altre occasioni successive sono andate distrutte delle coltivazioni a causa del pulviscolo micidiale piovuto dal cielo. Avrà termine, infine, questa gara tremenda? Non lo si può prevedere. Di certo vi è il fatto che si è giunti alla costruzione di bombe capaci di annientare, con lo scoppio, qualunque cosa in un'area di 15 chilometri di diametro (quella di una grande città) e di bruciar tutto, con la irrompente ondata di calore, in un'area di 5 mila chilometri quadrati. Tali effetti devastatori sono dovuti alla enorme quantità di energia che è in gioco. Un facile calcolo è possibile eseguire per la reazione H3 + H1 = He4: si sa che la massa del tritio è 3,0170 e quella del protone 1,0081: la loro somma darebbe 4,0251 mentre la massa atomica effettiva dell'elio è 4,0039: dunque si ha una perdita di massa atomica, la quale si trasforma in energia. Eseguiti i calcoli, si prova che per ottenere una bomba mille volte più potente di quella atomica normale (una potenza forse già raggiunta), sarebbe sufficiente la formazione per fusione di 40 chilogrammi di elio: ammesso che il rendimento del processo sia del 5 per cento, sarebbero necessari allo scopo dagli 800 ai 1000 chilogrammi di una miscela di tritio e idrogeno come materia prima, di certo disponibilissimi. È stato perfino calcolato , con una buona dose di cinismo , visto che tali bombe dovrebbero essere adoperate, essenzialmente, contro i grossi centri urbani, che non conviene costruire bombe più potenti di 20 megaton; una di queste già basterebbe per distruggere la più grande città ora esistente, provocando non meno di 11 milioni di morti: oltrepassando questo limite, una parte dell'energia verrebbe sciupata in quanto non sortirebbe un effetto utile ,e accrescerebbe il costo di ciascun individuo soppresso! Tutto questo dimostra come e quanto sia augurabile che non si faccia una ben triste esperienza di tale inaudita potenza distruttiva, e come sia urgente raggiungere un accordo internazionale per la messa al bando di cosi spaventosi ordigni. L'energia Atomica al servizio dell'umanità
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Rimase a terra soltanto dieci giorni. Poiché non era giunto nessun ordine che cambiasse la sua posizione di «comandante a terra» aveva cominciato a pensare alla possibiilità di «provare in volo» un 109 mentre vi fosse in atto una qualche incursione nemica. Così, il 2 luglio, mentre era in corso l'intercettazione di una grossa formazione avversaria, decollò per «fare una prova»; gli incursori erano ancora dei Blenheim scortati da Hurricane e Spit e, ancora una volta, Galland si buttò da solo all'attacco. Era una tattica pericolosa e avrebbe dovuto saperlo, ma non volava da una decina di giorni ed era eccitato per la frustrazione. Piombò sui bombardieri, ne abbatté uno e poi impegnò combattimento con uno Spitfire che riuscì a colpire; in quel momento, però, il 109 solitario fu danneggiato da un altro Spit che gli stava alle spalle. Si trovava di nuovo in un guaio serio e malamente ferito; fu soltanto la corazza che gli salvò la vita. Riuscì a cavarsela e ad atterrare, ma appena sceso dall'abitacolo, ebbe un collasso per lo shock e per il sangue perduto. La notizia di questo avvenimento arrivò ben presto al comando della Luftflotte e fu trasmessa a Berlino. Nel frattempo Galland era stato ricoverato in ospedale dove, a riceverlo, il chirurgo disse: «Jetzt werden wir Sie fur eine Weile nicht mehr fliegen lassen ». (Adesso le impediremo di volare per un pò di tempo.) Il Reichsmarschall Goring venne a sapere della disubbidienza di Galland e lo seppe anche Hitler; quando il primo telefonò per sapere come mai non aveva tenuto conto dell'ordine specifico emanato dal Fuhrer lui aveva risposto di essere stato in volo per una prova del velivolo; ma questo non aveva convinto nessuno «Sagen Sie es Hitler », aveva detto Goering e quello fu il primo accenno del suo doversi presentare a Hitler. Si era in luglio e la grandiosa offensiva tedesca contro la Russia era in piena avanzata verso l’est, ma Galland ricevette ugualmente l'ordine di recarsi dal capo, a Rastenberg, nella Prussia orientale. Vi andò in volo. Hitler lo accolse con un sorriso: «Bitte, wir lieben Sie; wir kunnen Sie nicht verlieren. Ich habe versucht,Sie zu schutzen. Sie haben gegen meine Befehle gehandelt, aber ich kann Sie verstehen. Wir haben nur Angst, Sie zu verlieren. Seien Sie vorsichtig!» (Prego, tutti noi le vogliamo bene e non possiamo perderla. lo ho cercato di proteggerla, ma lei ha agito in contrasto con i miei ordini, anche se io posso capirla. L'unica paura che noi abbiamo è quella di perderla. Stia accorto.) Questo era un rimprovero!!! Hitler volle decorarlo personalmente delle fronde di quercia e delle spade, poi Galland rimase ospite di Goring per diversi giorni prima di poter tornare sul fronte occidentale. Il totale delle vittorie di Galland si accrebbe rapidamente dalle settantuno del 2 luglio a oltre novanta verso la fine del 1941. Nella seconda metà dell'anno, in agosto, mentre stava salendo verso quella cifra, il tenente colonnello Douglas Bader fu abbattuto presso l'aeroporto della caccia dove lui risiedeva con il suo comando. Galland mandò una macchina da Bader perché venisse a prendere una tazza di tè da lui e lo ricevette come un nemico degno del massimo rispetto; quando fu invitato insistentemente a riferire il numero delle vittorie che aveva ottenuto (ventidue e mezzo) Bader, secondo quanto ha riferito Galland, non voleva dire la cifra: ricorda ancora la risposta, e cioè che il totale personale, in confronto di quello suo o di quello di Moelders, era una cosa modesta. Galland gli fece visitare la base accompagnandolo lui stesso e lo lasciò anche sedere nell'interno del proprio velivolo spiegandogliene gli strumenti; poi, su richiesta di Bader, gli presentò un giovane pilota dicendogli che quello era stato il suo abbattitore, anche se la cosa non era molto sicura perché Galland stesso aveva, quel giorno, abbattuto personalmente due Spitfire. L'incontro si ripeté, in seguito: i due cacciatori si trovavano però nella situazione inversa, dopo la guerra; allora era lui il prigioniero e Bader andò a interrogarlo. Ripagò in qualche modo l'ospitalità ricevuta offrendogli una scatola di sigari Alla fine del 1941 il totale delle vittorie di Galland era salito a novantaquattro e fu in quel momento che la morte del generale comandante dell' Arma della caccia, Werner Moelders, un altro dei maggiori piloti tedeschi, gli provocò il richiamo dal fronte perché Goering lo aveva nominato suo successore. Aveva trent'anni quando divenne, così, il più giovane generale germanico e ben presto fu nuovamente premiato da Hitler, questa volta con i diamanti sulle spade e sulle fronde di quercia, decorazione ricevuta in complesso da meno di una trentina degli appartenenti alle forze armate tedesche durante la guerra. Galland non era molto soddisfatto del suo lavoro di tavolino e s'interessò direttamente di qualche incarico speciale che, di tanto in tanto, potesse riportarlo al fronte. Cosi, fu lui che guidò personalmente le formazioni che protessero ,le navi tedesche nel loro ben riuscito passaggio attraverso la Manica nel 1942; nel 1943 fu ancora lui che si pose alla testa dei caccia che difendevano la Sicilia e poi a volare tra i primi sui nuovi aviogetti tedeschi, facendo quindi uso di tutta la sua influenza per l'armamento e la produzione di quei velivoli nel 1943 e nel 1944. Tuttavia i duri rapporti che preparava sulle spiacevoli verità che venivano a galla, e che indirettamente portavano a influire sulla posizione del Reichsmarschall Rermann Goring e su quanto questi diceva, lo mise in aperto conflitto sia con questo sia con Hitler e, alla fine del 1944, venne rimosso dall'incarico. Fu Hitler che mise fine a quella «sciocchezza, come lui la chiamava, dopo che il giovane generale era stato defenestrato e severamente ripreso da Goring; alla fine, anche questi si calmò, ma ormai si era giunti agli ultimi giorni e al collasso tedesco. Galland prese possesso del suo ultimo incarico nel gennaio del 1945; organizzò uno speciale reparto da caccia (TV 44) montato sui nuovi aviogetti Me 262 al quale fece affluire i più esperti piloti di tutti i fronti. Il velivolo portava dei grossi razzi, molto efficaci, ed era anche provvisto di un cannoncino: armi con le quali ottenne notevoli successi contro le formazioni di bombardieri e di caccia che in quell'epoca sciamavano giornalmente su tutta la Germania. Galland si batté fino all'ultimo (il suo libro è infatti intitolato Il primo e l'ultimo) e in questi combattimenti fu ferito di nuovo. Per sfuggire alla cattura, negli ultimi giorni della guerra aveva fatto trasferire i suoi aviogetti da Monaco a Salisburgo; ma li fece incendiare quando i primi carri armati statunitensi fecero la loro comparsa alla periferia della città. Fu poi catturato e tenuto due anni come prigioniero di guerra, quindi rilasciato; un anno dopo se ne andò in Argentina dove gli era stato offerto un posto. Nel gennaio del 1955 fece ritorno nella madrepatria. Se Galland non fosse stato richiamato dal fronte alla fine del 1941 sembra probabile che il numero delle sue vittorie sarebbe salito moltissimo, anche se l'incarico di generale dell' Arma della caccia possa forse avergli salvato la vita, tanta era la sua aggressività in combattimento. Due dei suoi tre fratelli, che furono anch'essi piloti da caccia nella Luftwaffe, rimasero uccisi durante la guerra dopo aver riportato rispettivamente cinquantuno e diciassette vittorie. Non vi sono dubbi che egli sia stato uno dei più grandi piloti da caccia della secoda guerra mondiale e, tenendo presente le sue capacità di comandante, di capo e di pilota, si può dire che sia,probabilmente, il più eminente “Esperten” sopravvissuto della Luftwaffe Tratto da : Sfide nei cieli
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