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VittorioVeneto

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  1. Ora l'equipaggio messo insieme da Mack stava per essere messo alla prova. Dopo una settimana di viaggio, al Lapon giunse il messaggio che Mack attendeva: il 16 settembre il SOSUS aveva individuato uno Yankee a nord della Norvegia. Stava facendo rotta verso la strettoia GIUK, provenendo dal mare di Barents. (Strettoia GIUK è un termine utilizzato in ambito militare (angloamericano e NATO), a partire dagli anni '40, per indicare un'area dell'Oceano Atlantico settentrionale che forma un punto di sbarramento per la guerra navale. GIUK è un acronimo per Groenlandia, Islanda e UK e il varco è costituito dall'oceano aperto posto tra queste tre masse di terra.) Un'altra rete di sensori SOSUS aveva poi scoperto lo Yankee mentre passava appena a nord dell'isola norvegese di Jan Mayen, all'imboccatura dello stretto di Danimarca che separa la Groenlandia dall'Islanda. Se Mack fosse riuscito a intercettarlo prima del suo passaggio dallo stretto al mare aperto, dove sarebbe stato molto più difficile trovarlo, il Lapon avrebbe potuto tentare un inseguimento. Mentre Mack dirigeva il Lapon a tutta velocità verso lo stretto di Danimarca, un aereo da pattugliamento antisommergibile P-3 Orion alleato confermò la rotta dello Yankee. Il Lapon arrivò il giorno dopo e iniziò il pattugliamento spostandosi lentamente avanti e indietro all'estremità meridionale dello stretto di Danimarca, appena a sudovest dell'Islanda. Dopo un solo giorno d'attesa, lo Yankee passò a est del Lapon. Il rumore di quel sottomarino era così debole che gli addetti ai sonar rischiarono di non individuarlo, nel frastuono dei pescherecci circostanti e del brulichio degli animali marini. Ma ecco un leggero barlume sull'oscilloscopio: l'immagine elettronica del sottomarino sovietico. Non sarebbe stato facile. Nelle acque rumorose antistantì la Groenlandia si poteva sentire quel sottomarino solo se si fosse avvicinato a meno di 1300 metri dal Lapon. Mack diresse il Lapon a sudest. Voleva tentare uno "sprint e deriva": il piano consisteva nello spingere il Lapon a venti nodi per una mezz'ora circa, fino al punto in cui prima o poi sarebbe dovuto passare lo Yankee se avesse mantenuto la rotta. Quindi il Lapon avrebbe rallentato a tre, cinque nodi, vagando qua e là in ascolto. Lo Yankee apparve per un po', poi sparì di nuovo. Mack era preoccupato: i sovietici non mantenevano la rotta prevista. Ogni volta il suono dello Yankee veniva captato per sparire subito dopo, soffocato dal rumore dell'Atlantico, reso ancora più forte dalle violente correnti provocate dalla tempesta che stava infuriando in superficie. Nei giorni successivi il Lapon trovò e perse più volte la sua preda Poi il quarto giorno , lo Yankee si mostrò ancora. Questa volta il Lapon gli tenne dietro per un'ora, poi per due, poi per tre. Le eliche dello Yankee giravano a ritmo regolare nelle cuffie degli addetti al sonar. Sei ore, dodici ore: lo Yankee seguiva ancora costantemente la sua rotta davanti al Lapon. Dopo diciotto ore, però, sparì dagli schermi del sonar, perso un'altra volta. La rappresentazione subacquea di Mack, così promettente, si era risolta in un fiasco. Nessuno disse la cosa più ovvia: nessuno voleva essere il primo a dire che forse era impossibile stare sulle tracce di quel nuovo sottomarino sovietico così silenzioso, in navigazione nel concerto cacofonico dell'oceano. Nessuno voleva gettare la spugna. La delusione di Mack era condivisa a Norfolk e a Washington, DC, dal comandante Bradley, dal viceammiraglio Arnold Schade, che comandava ancora i sottomarini dell'Atlantico, e dall'ammiraglio Moorer, il CNO. Tutti erano stati in costante contatto con Mack, che trasmetteva brevi messaggi in UHF sugli sviluppi della situazione agli aerei statunitensi in volo sulla zona. La Marina, a sua volta, trasmetteva gli aggiornamenti al presidente: Nixon seguiva quella caccia in tempo reale. Gli ammiragli ordinarono a tutte le installazioni SOSUS della zona di tentare di ascoltare lo Yankee. Anche i P-3 Orion facevano la guardia. Ma in entrambi i casi ogni sforzo si rivelò inutile. Mack decise di fare una scommessa avventata. Chiamò in quadrato i navigatori e gli ufficiali e annunciò che avrebbero rinunciato a cercare lo Yankee presso lo stretto di Danimarca: avrebbero invece tentato di capire dove si sarebbe diretto dopo, cercando di batterlo sul tempo, arrivando per primi a destinazione. Quindi Mack, il suo secondo Charles H. Brickell Jr., ufficiale tecnico Ralph L. Tindal e altri si chinarono sulle carte e cominciarono un gioco serrato di "e se...", mettendosi nei Panni del comandante dello Yankee. Sulla loro decisione finale pesarono in ugual misura la disperazione e la logica: avrebbero tentato di tagliare la strada allo Yankee molte centinaia di miglia più a sud, presso le Azzorre portoghesi. Il Lapon si precipitò laggiù e rimase a incrociare intorno al punto stabilito per tre giorni. Troppo tempo, pensava Mack innervosito. Spinto da un'altra idea, diresse il sottomarino verso ovest. Dodici ore dopo, apparve lo Yankee. Questa volta Mack era deciso a non lasciarselo sfuggire. Quella parte più meridionale dell'Atlantico non era rumorosa come le acque intorno alla Groenlandia, ma lo Yankee era comunque il sottomarino più silenzioso che un battello statunitense avesse mai tentato di seguire. Era il caso di adottare una nuova tattica, che Mack battezzò su due piedi "inseguimento ravvicinato". Il Lapon avrebbe tallonato lo Yankee seguendolo a meno di 3000 metri di distanza. A più di 3600,4500 metri di distanza lo Yankee sarebbe sfuggito. La strategia di Mack era rischiosa: lanciare quelle 4800 tonnellate così vicino all'enorme Yankee era pericoloso. Di solito perfino le unità di superficie tendono a mantenere una distanza superiore ai tre chilometri tra loro per evitare le collisioni, in più il Lapon aveva l'inconveniente aggiuntivo di non doversi lasciare scoprire. Mack sperava proprio che questo nuovo sottomarino non avesse un sonar migliore di quello dei suoi predecessori: il Lapon gli era così vicino che sarebbe bastato un pezzo dell'attrezzatura che cadeva sbattendo su un portello stagno nel momento sbagliato, e persino l'antiquato equipaggiamento sovietico avrebbe registrato l'inseguitore americano. A quel punto l'essenziale era capire che suono producesse il battello sovietico quando rallentava o quando virava. Finché gli addetti al sonar del Lapon non fossero riusciti a scoprire la combinazione di schiocchi e tonalità associata ai vari tipi di manovra, i due sottomarini correvano gravi rischi di collisione. CONTINUA SSN 661 Lapon fotografato nel 1967 Il Lapon alla Norfolk Naval Station nel dicembre 1968
  2. VittorioVeneto

    Corpi d'elité

    L'EQUIPAGGIAMENTO SUBACQUEO Gli incursori del Raggruppamento TESEO TESEI, da sempre si muovono sott'acqua, per cui, fin dalla II Guerra Mondiale, hanno utilizzato speciali indumenti protettivi, quali il vestito Belloni, una combinazione decisamente rigida e non adatta al nuoto, ma solo a piccoli spostamenti nei pressi dei mezzi d'assalto. In effetti gli incursori, quando ripresero l'attività, utilizzavano in modo molto più esteso la cosiddetta "tenuta Gamma", vale a dire una tuta in gomma in due pezzi ( "camiciaccio" e pantaloni completi di piedi), con al collo e polsini in gomma fine, chiudibili, il cui primo modello era stato utilizzato durante la II Guerra Mondiale. Sotto questa tenuta, venivano portate le "lane", vale a dire componenti in lana per meglio conservare il calore umano. Sul capo veniva portata una cuffia in lanetta, chiusa sotto il mento, così come in lanetta erano i guanti. In vita questa tenuta veniva chiusa con il "canguro", una sorta di cintura in gomma, semirigida, che ne avrebbe dovuto garantire la tenuta stagna. La "tenuta Gamma" era realizzata all'inizio dalla ditta Sanna e poi dalla Pirelli. Questo capo è rimasto in servizio fino a quando non è stato sostituito con tute in neoprene, di varia origine, sempre in colori opachi e in continuo perfezionate. Incursori in tenuta GAMMA armati di Beretta M-12 con spegnifiamma adottata dalla Marina Militare nei primi Anni '60. Oggi non è più in uso Il freddo è un avversario molto insidioso in acqua, per cui sono stati fatti continui sforzi per migliorare l'equipaggiamento, con mute e sottomute, completi di calzari e scarpino, utile quando ci si deve muovere sulla terra, in particolare sulle rocce. Anche per le pinne vi è stato un continuo processo di miglioramento, tenendo presente che non si possono utilizzare pinne troppo grandi quando ci si deve muovere su terra dopo l'avvicinamento, quando potrebbero dar noia (nel tempo sono stati studiati vari sistemi per trasportare le pinne e la maschera fuori dall'acqua). Dettaglio del boccaglio dell'autorespiratore Caimano IIC, con in evidenza anche la cuffia e il microfono individuale impermeabili, per essere in contatto con il resto della squadra Fuoriuscita dall'acqua di due operatori dotati di autorespiratore a circuito chiuso Caimano II, una delle più moderne realizzazioni in questo settore Dopo aver utilizzato pinne di varia foggia, attualmente si è ritornati a un modello più compatto, con estremità a coda di rondine, che ricorda alcuni dei modelli utilizzati durante la II Guerra Mondiale. Il sistema di bloccaggio è sempre stato a laccio regolabile posteriore, in modo da consentire di calzarle e toglierle velocemente. Se la missione proveniva dal mare ed era destinata in profondità, il personale si cambiava altrimenti operava sempre con la muta, magari fissando le pinne all'altezza delle cosce. In addestramento si è fatto e si fa ricorso anche a mute di tipo commerciale, in quanto meno costose di quelle militari. In questo modo si tende a risparmiarle, in quanto nella dura attività operativa, le mute tendono a lacerarsi con una certa frequenza. Qualcuno ricorderà quando il reparto sfilava su via dei Fori Imperiali, il 2 giugno. All'inizio lo fece con le tute Gamma, ma il calore rendeva la cosa veramente pesante, considerando che vi era anche l'apparato erogatore, con le bombole. Per questo furono realizzate delle tenute proprio per queste circostanze, identiche solo all'apparenza, molto più leggere. E anche gli erogatori furono realizzati con finte bombole in legno. Per quanto riguarda la maschera subacquea, anche qui si riparti con il materiale del periodo bellico recuperato. Al modello gran facciale, seguì la "Pinocchio", con alloggiamento per il naso che facilitava la manovra di compensazione in immersione. Per quanto riguarda l'importantissimo settore degli autorespiratori, il reparto ha sempre utilizzato apparati ARO (Auto Respiratori ad Ossigeno) a circuito chiuso, dalla lunga autonomia (ricicla l'area fissando l'anidride carbonica su di una cartuccia di calce sdodata) e senza rilascio alla superficie di bollicine rivelatrici. Le sue bombole contengono ossigeno in percentuale pari al 95-99%, con una pressione di 200 atmosfere (1 atsmosfera= 1 kg di pressione per centimetro quadrato). L'aria ispirata proviene da un sacco polmone dove, una volta espirata, viene filtrata. La presenza del sacco polmone, con il suo volume di aria, determina qualche problema di assetto e necessita di una buona tecnica. I respiratori ARO si dividono in "pendolari (se inspirazione e espirazione avvengono attraverso un solo tubo) oppure "ciclici" (quando vi è un tubo che porta l'aria fresca e uno in cui finisce quella emessa dall'operatore nel ciclo respiratorio). Gli autorespiratori ARO, vanno utilizzati solo da personale esperto. Per esempio non si può passare una quota d'immersione di 18 metri, pena grossi rischi. All'inizio vennero utilizzati gli autorespiratori Pirelli G-50, i medesimi del periodo bellico, utilizzati estesamente anche per l'attività di recupero successivi al periodo bellico, quando i porti erano ingombri di carcasse di navi. Successivamente si passò al Modello G-51 e poi al successivo G-52. Fu introdotto anche un sistema automatico per l'arricchimento della miscela respirata con ossigeno. Ci è stato detto che l'apparato dava dei problemi e si preferiva continuare a ricorrere all'arricchimento manuale dell'ossigeno, quando se ne avvertiva la necessità. In tempi più recenti è stato scelto il modello CAIMANO I, seguito poi dal CAIMANO II C, un apparato messo a punto con la collaborazione del COMSUBIN. E' in grado di funzionare correttamente in ogni tipo di ambiente (acque più calde e acque più fredde) ed è molto rustico; inoltre la sostituzione della pasticca di calce sodata è rapida e semplice. L'apporto dell'ossigeno avviene in modo manuale, in modo da consentire un dosaggio molto accurato, indispensabile per l'equilibratura in acqua, onde poter effettuare affioramenti precisi per poi sparire sotto la superficie con altrettanta facilità. E' dotato di un siste­ma di fissaggio al corpo di un robusto "jack", con cui ripartire il carico molto meglio che non con i vecchi sistemi di cinghie. Il "jack" contiene anche la zavorra, sistemata sulla schiena, in modo da affaticare molto meno le zone lombari rispetto alle classiche cinture, ed eventualmente sganciabile rapidamente in caso di necessità. In associazione a questo sistema di trasporto, si può inserire anche un collare salvagente autogonfiabile, a comando manuale, che consente il galleggiamento di un operatore anche se completamente equipaggiato, zavorra compresa, qualora non sia stato possibile sganciarla. L'affioramento può avvenire comunque anche sfruttando il sacco polmonare. Il peso del CAIMANO MkII C è di 14,8 kg (pronto all'immersione), con una autonomia in immersione di circa 5 ore. Lo schema di massima del sistema ARO Caimano II, realizzato da una ditta nazionale su specifica del GOI Il "jack" del sistema per l'autorespiratore Caimano II C, con le due tasche verdi con equipaggiamento per la sopravvivenza e i pesi sui fianchi e sulla schiena, i secondi facilmente sganciabili L'autorespiratore ARO Caimano IIC, con la robusta carenatura che ricopre la bombola con l' ossigeno e il contenitore per il filtro in calce sodata Operatore del GOI su di un molo del Varignano, con il "jack" e l'autorespiratore del sistema Caimano II, messo a punto in collaborazione con il centro studi del Comsubin Dettaglio della parte posteriore del sistema Caimano II, con in evidenza i pesi utilizzati per l'assetto, che possono essere sganciati in emergenza
  3. Il comandante Chester M. Mack, guardava attraverso il periscopio sul mare di Barents. Era là alla ricerca di un nuovo e micidiale sottomarino lanciamissili sovietico che la NATO aveva denominato, senza senso dell'umorismo, Yankee. Era il marzo del 1969 e i sovietici erano infine riusciti, con un balzo tecnologico straordinario, a realizzare un sottomarino nucleare lanciamissili il cui progetto ricordava molto da vicino i Polaris e che forse era in grado di colpire la Casa Bianca o il Pentagono da più di 1600 km di distanza. Mack doveva raccogliere ulteriori informazioni su quel battello. Aveva guidato il suo sottomarino direttamente nel mare di Barents, l'area di addestramento gelosamente sorvegliata della Flotta del Nord, la più avanzata e potente di tutta la Marina sovietica. Stava navigando con la sicurezza di chi sa di essere al comando di uno dei più recenti sottomarini della Marina, un battello d'attacco della classe Sturgeon dotato del sonar e dei sistemi d'ascolto più avanzati. Davanti al suo periscopio c'era uno Yankee, lungo 131 metri, largo 12 e pesante 9600 tonnellate. Mack portò furtivamente il Lapon a meno di cento metri di distanza e si fermò a osservare. Il sottomarino era identico a un Polaris, dalla forma dello scafo fino ai piani orizzontali installati sulla vela. Mack collegò una fotocamera monoreflex Hasselblad al periscopio e cominciò a scattare le foto. Ci sarebbero volute sette di quelle foto, incollate insieme per mostrare tutto lo Yankee. Sommergibili sovietici classe Yankee Negli anni in cui i primi Yankee erano in costruzione, l'intelligence USA aveva raccolto poco più che immagini confuse riprese dai satelliti spia: mostravano che i sovietici si accingevano a produrre in serie la nuova arma. Ma nel corso dell'ultimo anno, via via che gli Yankee si avventuravano in mare aperto per i collaudi, i sottomarini da sorveglianza statunitensi si erano mossi per dare un'occhiata più ravvicinata a questo mostro nucleare, la cui serie di sedici portelloni nascondeva altrettanti silos lanciamissili. Lo Yankee rappresentava un enorme progresso rispetto agli altri battelli lanciamissili balistici messi in mare dai sovietici: gli Zulù e i Golf a propulsione diesel e i primi sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare, gli Hotel. Nessuno di quei battelli ispirava lo stesso timore provocato adesso da questo Yankee. I sottomarini precedenti erano rumorosi e facilmente localizzabili con il SOSUS e il sonar. Le forze subacquee statunitensi si trovavano ora di fronte a un interrogativo cruciale: lo Yankee aveva copiato solo la forma del Polaris? Possibile che a soli sei anni dalla crisi dei missili di Cuba i sovietici fossero già in grado di lanciare un primo attacco, con un preavviso minimo o nullo? Se quei sottomarini fossero stati silenziosi e micidiali come sembravano, voleva dire che i sovietici erano finalmente riusciti a raggiungere gli Stati Uniti nella capacità di portare un secondo attacco: un modo di rispondere se tutti i loro missili basati a terra e i bombardieri fossero stati distrutti. Il comandante James Bradley sapeva che il suo programma di spionaggio aveva già prodotto una gran quantità di informazioni essenziali sullo sviluppo dei sottomarini e dei missili sovietici. Le riprese fotografiche del Golf affondato avevano rappresentato un colpo tecnologico da maestri. Ma i Golf costituivano una minaccia ben piccola se paragonati agli Yankee e ormai importava solamente capire come scoprire quei nuovi sottomarini e come distruggerli. Le fotografie di uno Yankee servivano benissimo allo scopo. Ma la l'US Navy e i suoi alleati della NÀTO avevano bisogno di vedere questi battelli in azione, di vedere come trasportavano i missili; avevano bisogno di raccogliere le loro tracce acustiche per essere sicuri che quei sottomarini non potessero mai superare le reti d'ascolto SOSUS inavvertiti e che i sottomarini da sorveglianza e le boe acustiche lanciate dai pattugliatori antisom P-3 Orion potessero riconoscere quella minaccia al suo passaggio. Qualcuno doveva avvicinarsi a uno Yankee in azione e doveva stargli vicino abbastanza a lungo da fornire agli Stati Uniti le informazioni per contrastare quella nuova minaccia. Un risultato del genere avrebbe giustificato qualunque rischio.L’ammiraglio che fosse riuscito nell’impresa sarebbe diventato la vera star dell’intera flotta subacquea , Mack lo sapeva. L'ammiraglio Chester M. Mack Mack aveva però altri concorrenti nella flotta dell'Atlantico. Uno era Alfred L. Kelln, ufficiale comandante dell'uss Ray (SSN-653), che aveva scattato la prima foto in assoluto di uno Yankee. Poi c'era il comandante Guy H.B. Shaffer dell'USS Greenling (SSN-614), che aveva fatto scivolare il suo sottomarino proprio sotto un Charlie e uno Yankee pochi mesi prima che Mack ne vedesse uno. In quel modo l'equipaggio del Greenling ebbe l'opportunità di registrare i livelli acustici e le armoniche prodotti in acqua da quei battelli e la possibilità di filmare lo scafo e l'elica sott'acqua, utilizzando il periscopio con una nuova telecamera adatta alle basse luminosità. In realtà il Greenling si avvicinò talmente alla chiglia dello Yankee che i sovietici, se avessero deciso di controllare l'ecoscandaglio, avrebbero pensato che l'oceano era veramente poco profondo in quel punto forse meno di quattro metri sotto di loro! Quella manovra, nota come "underhulling" ("passaggio sotto lo scafo" ), era estremamente pericolosa: in qualsiasi momento uno dei sottomarini avversari avrebbe potuto decidere di immergersi proprio sopra il Greenling. Ma i risultati furono eccezionali: gli Stati Uniti ebbero la prima impronta acustica di uno Yankee. Le registrazioni dei suoni effettuate dal Greenling furono rapidamente inserite nei computer del SOSUS. Restava un interrogativo: i dati raccolti dal Greenling sarebbero stati sufficienti a distinguere il passaggio degli Yankee in navigazione in mare aperto, nel frastuono dei pescherecci degli animali marini e delle correnti? Nessuno lo avrebbe saputo finché qualcuno non avesse compiuto un inseguimento prolungato nel corso di uno schieramento operativo. La corsa era iniziata. Mack e gli altri comandanti facevano i loro turni dirigendosi ancora oltre i cinquanta gradi di latitudine nord, fuori dalle acque statunitensi e fuori portata per comunicare con i comandanti della flotta basati in patria; fuori, verso il mare di Barents e le basi degli Yankee. L'occasione di Mack si presentò nel settembre del 1969. CONTINUA
  4. Mediaset-Mentana, è divorzio "Decisione di comune accordo" http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/p...a-mediaset.html
  5. VittorioVeneto

    Bird Strike!

    GENOVA Avaria costringe solista Frecce Tricolori a rientrare 05/06/2009 22:17 Una lieve avaria al suo jet ha costretto il solista della Pattuglia Acrobatica Nazionale dell'Aeronautica Militare ad abbandonare l'esibizione delle Frecce Tricolori nel cielo di Genova, oggi pomeriggio, e a rientrare all'aeroporto Cristoforo Colombo. L'avaria si è manifestata subito dopo il primo passaggio sulle navi Costa Pacifica e Costa Luminosa, di cui oggi si è festeggiato il "battesimo" contemporaneo, e non ha messo a repentaglio né il pilota né gli spettatori. I responsabili della Pattuglia Acrobatica non hanno voluto né confermare né smentire la voce raccolta in ambienti aeroportuali, secondo cui l'avaria sarebbe stata provocata dall'urto di un uccello, forse un gabbiano. http://www.primocanale.it/news.php?id=49796
  6. Mi scuso per la svista , corro a rettificare
  7. Fotografia dalla parata del 2 Giugno: Cos è un UAV quello ?
  8. Bravo Galland ! Ottima idea , ed ottimo topic , spero che dedicherai un post al più grande di tutti ...
  9. Se per "parti atomiche" intendi il materiale fissile , non è così semplice prenderlo e utilizzarlo ...
  10. VittorioVeneto

    2 Giugno

    Quoto ovviamente quanto detto precedentemente , la parata è parsa un pò sottotono , ma si sapeva visto che sono state tagliate le spese del 15 % , un pò esagerato secondo me far sfilare tutti quei tir col cartello "un cuore per l'abruzzo", quasi a voler giustificare i tagli ... Inoltre a me è parsa anche un tantino disorganizzata , emblematico in questo senso quello che è successo a P.zza Venezia a fine parata , dopo che il presidente era appena andato via un reparto a cavallo ancora sfilava quando già avevano aperto le transenne alla folla Ho notato che in molti reparti sfilavano uomini giovanissimi , non lo ricordavo questo fatto l'anno scorso ... Infine vorrei capire come mai quasi nessun reparto ha urlato il proprio nome (almeno dove ero io non l'ho sentito) ... Insomma avevo optato di venire alla parata invece che al Roma air show , forse ho fatto male Un pò di foto: Brigata Sassari GOI
  11. Ma ci fu un errore di calcolo e Clementine andò a sbattere contro il fondale. Ritirarono il braccio sollevandolo parzialmente e studiarono le immagini inviate alla nave. Nell'oceano scuro appena illuminato, il braccio sembrava sorprendentemente intatto, come se potesse ancora fare presa. Decisero di tentare un'altra volta con Clementine. La riorientarono e fecero cadere di nuovo la rete d'acciaio sulla torre di comando. Questa volta tutte e cinque le pinze erano in posizione. Sembrava che la Glomar stesse riuscendo a pescare la sua preda, dopo tutto. Meno di due metri ogni minuto: questa era la velocità alla quale il Golf saliva verso la superficie, con tutte le sue 5000 tonnellate d'acciaio pieno d'acqua. La Glomar cominciò a immergersi maggiormente per il peso, poi a sobbalzare per la tensione. Tra l'equipaggio le conversazioni passarono dalla cattura al ribaltamento. Passarono nove ore e il Golf si trovava a 900 metri sopra il fondale. Passò altro tempo e il sommergibile era salito a 1500 metri sopra il fondo dell'oceano e a 3600 metri dalla superficie. Ancora un minuto e ci sarebbe stato un altro progresso di quasi due metri. Invece, con uno strappo, venne la certezza che il Golf non sarebbe più risalito. Tre delle pinze si spezzarono di colpo e precipitarono verso il fondo, probabilmente erano rimaste danneggiate dall'urto contro il fondale avvenuto molte ore prima. A quel punto solo due pinze e la rete trattenevano la sezione prodiera del Golf: il resto del sommergibile dondolava in mezzo all'oceano e pochi attimi dopo dimostrò di essere fragile proprio come avevano previsto Bradley e Craven sei anni prima. L'acciaio del Golf cominciò a lacerarsi in corrispondenza delle giunzioni, finché gran parte del sommergibile si staccò dalla piccola sezione ancora trattenuta da Clementine e risprofondò negli abissi. Il missile nucleare intatto, i cifrari, le macchine di decodifica,i trasmettitori, tutti gli elementi che più stavano a cuore alla CIA insomma, tornarono sul fondale. Il Progetto Jennifer comunque era ben lungi dall'essere concluso. La CIA stava portando avanti i piani di un secondo tentativo di recupero: dopo il primo, terribile fallimento, i suoi esperti tecnici si erano convinti che la Glomar Explorer poteva ancora raggiungere i fondali e impadronirsi di parti essenziali del Golf. La nave di Hughes veniva già riequipaggiata e riparata in quei giorni, e il secondo tentativo era fissato per quell'estate. Nel frattempo però la storia evidentemente trapelata alla stampa fu pubblicata dal New Yok Times. Apparve con un titolo di tre righe su cinque colonne: "Nave di salvataggio della CIA ha riportato a galla un pezzo di sommergibile sovietico affondato nel 1968, ma non è riuscita a recuperare i missili atomici". E continuava: Secondo alti funzionari del governo, la Central Intelligence Agency ha finanziato la costruzione di un'unità di salvataggio per grandi profondità del costo di molti milioni di dollari e l'ha usata l'estate scorsa in un tentativo non riuscito di recuperare i missili con testate all'idrogeno e i codici di un sommergibile sovietico affondato nell'oceano Pacifico. L'amministrazione Ford oppose a ogni ulteriore domanda sulla Glomar un secco "no comment". Era esattamente quanto chiedevano i sovietici, che avevano cominciato a inviare freneticamente messaggi attraverso canali riservati di qualsiasi tipo, implorando il silenzio da parte statunitense: qualunque cosa pur di tenere nascosta quella storia ai cittadini sovietici, che ne erano ancora all'oscuro. I sovietici avevano le loro buone ragioni per seppellire immediatamente quella storia. Era già abbastanza brutto perdere un sommergibile senza riuscire a trovarlo. Ma fu anche peggio il fatto che gli americani lo avessero trovato e avessero tentato di recuperarlo dall'oceano; e peggio ancora che i migliori ufficiali dello spionaggio sovietico ne fossero venuti a conoscenza leggendo i giornali americani. Ma ciò che rendeva l'intera faccenda ancora più umiliante era il fatto che i sovietici erano stati preavvisati del progetto Jennifer e avevano ignorato l'allarme. Quando, agli inizi del 1974, la Glomar uscì per le prove in mare, Anatoliy Shtyrov, un giovane ufficiale sovietico aveva tentato di avvisare il suo superiore, l'ammiraglio N. Smirnov, comandante in capo della flotta del Pacifico. A quanto ne sapeva Shtyrov, il sommergibile affondato era l'unico oggetto di pregio nella zona di mare in cui era stata avvistata la Glomar Explorer. All'epoca i sovietici avevano tracciato sulle carte una zona generica dove ritenevano fosse affondato il loro battello. Nonostante le informazioni di Colby, secondo le quali nessuna unità navale ostile si era avvicinata alla Glomar, Smirnov aveva reagito immediatamente, inviando nella zona una velocissima unità di sorveglianza. Tale unità giunse però con mesi di anticipo, mesi prima del tentativo di recupero vero e proprio. Gli addetti alla sorveglianza riferirono a Mosca di avere notato solamente una nave statunitense "progettata in modo incomprensibile e grande come un campo di calcio con "tralicci simili alla torre di trivellazione dei pozzi di petrolio" ferma nella zona. Tre giorni dopo la Glomar si diresse verso le isole Hawaii e la nave di sorveglianza fece rotta verso casa. Quando la Glomar tornò sul posto per un altro ciclo di collaudi, nel marzo del 1974, Shtyrov convinse il suo superiore a inviare un'altra unità. Ma questa volta l'ammiraglio si rifiutò di arrischiare una delle sue navi meglio equipaggiate nelle acque tempestose del Pacifico settentrionale d'inverno;accettò solo di inviare una nave da ricerca idrografica che era già in navigazione. Il comandante di quella unità stabilì che la Glomar era alla ricerca di petrolio e lasciò presto la scena. La sorveglianza passò quindi a un vecchio rimorchiatore, che si trattenne però per soli dieci giorni. Quando finalmente, in luglio, la Glomar iniziò il tentativo di recupero, Shtyrov chiese ancora una nave di sorveglianza, ma a quel punto aveva perso credibilità presso l'ammiraglio. Inoltre il suo superiore non credeva proprio che gli americani avessero la tecnologia per cercare un sommergibile affondato. Smirnov si rifiutò di ascoltare ulteriormente quell'argomento, decidendo di non mettere a diposizione altre navi. Shtyrov tentò di rivolgersi a un livello superiore al suo comandante, ma ne ottenne un secco rifiuto di una sola riga: "La prego di volgere la sua attenzione all'ottenimento di migliori risultati nei compiti che le sono stati affidati". Shtyrov non venne mai a sapere che il suo superiore aveva, giacente in ufficio una prova decisiva a conferma della sua ipotesi. A Washington, sotto la porta dell'ambasciata sovietica, era stato infilato un messaggio che diceva:"Alcuni servizi speciali stanno tentando di recuperare il sommergibile sovietico affondato nel Pacifico" ed era firmato "Un amico". L'ambasciata inviò una copia cifrata del messaggio a Mosca, dove i funzionari la inviarono all'ammiraglio Smirnov, che la ripose in cassaforte, ignorandola. Questa storia restò sconosciuta fino a quando il quotidiano russo Izvestia ne pubblicò un resoconto il 6 luglio 1992. E così un addetto navale sovietico avvicinò un capitano del l’US-Navy durante un ricevimento e offrì un patto: se gli Stati uniti non avessero più sollevato pubblicamente la questione, i sovietici avrebbero fatto altrettanto.
  12. VittorioVeneto

    Corpi d'elité

    Oggi posto solamente una foto , ma che foto ! Operatori del GOI ed incursori del 9° Rgt. d'assalto paracadutisti (riconoscibili per i rispettivi baschi) durante l'operazione Nibbio in Afghanistan. Montano Land Rover Defender del Col Moschin E scusate se è poco ...
  13. VittorioVeneto

    Corpi d'elité

    ESPLOSIVI Un discorso particolare va fatto per il fondamentale settore degli esplosivi. Già all'epoca venivano realizzate cariche per i vari compiti, che andavano dal minamento subacqueo alle cariche cave contro strutture particolarmente resistenti (come le fortificazioni). Si lavorava molto intorno agli esplosivi al plastico, i più adatti per molti compiti, affiancandoli a cariche di tritolo (T-l, T-2, T-3, T-4, via, via che si rendevano disponibili), All'inizio i corsi di esplosivi si tenevano alla Cecchignola,presso la Scuola del Genio dell'Esercito. Anche in questo caso erano in servizio molti reduci del secondo conflitto mondiale, in grado di trasmettere un considerevole bagaglio di esperienze. Le caratteristiche degli esplosivi debbono variare in funzione dei bersagli da colpire. Per esempio, per quelli navali in genere devono avere azione estesa, per provocare cospicue vie d'acqua. Vi sono grosse differenze anche fra i diversi bersagli terrestri, per esempio strutture non protette, strutture protette o elementi in ferro e acciaio. Le cariche mutano anche sulla base del tempo che si ha a disposizione. Per esempio, se si hanno tempi ristretti su di un ponte, è molto meglio utilizzare "cariche taglianti", in pratica cariche cave lineari, che concentrano la loro azione in modo da tagliare le strutture. Anche contro i bersagli navali è importante disporre appropriatamente le cariche, sempre mirando all'opera viva, vale a dire la parte immersa. Le eliche, gli assi porta eliche, rappresentano punti altamente sensibili, così come quelli sottostanti i locali macchine (ampi spazi forzatamente a compartimentazione ridotta, con importanti macchinari). Sistemare una carica esplosiva sotto la chiglia di una unità, è molto meno semplice di quanto si pensi e di quanto si veda nei film. Sistemi magnetici sono validi solo per le cariche di potenza ridotta, comunque valide (specie se applicate in numero adeguato), contro le piccole unità navali militari e le navi mercantili, la cui compartimentazione è molto meno spinta. Per le cariche più pesanti, è necessario un'ancoraggio meccanico, generalmente con morsetti applicate alle alette antirollio, ai timoni o all'elica. Vi è da dire che l'attacco a bersagli maggiori, oltre le 10.000 tonnellate, si sono drasticamente ridotte Il GOI dispone di vari tipi di cariche da utilizzare contro bersagli navali ma anche questo è un settore su cui non trapela niente (per evitare di rendere più semplici le contromisure), salvo gualche immagine dove si vedono vecchi "bauletti" esplosivi, utilizzati per l'addestramento basico. Queste cariche hanno galleggiabilità neutra, in modo da non arrecare ulteriori complicazioni durante la navigazione subacquea. Il personale viene attentamente addestrato a piazzare e innescare correttamente le cariche, di notte e in condizioni climatiche difficili, per esempio nelle scure acque dei porti e d'inverno. Due incursori intenti a simulare un attacco a un bersaglio navale con una carica esplosiva Un tempo uno degli esercizi più spettacolari era far esplodere (nella sabbia) delle cariche belliche, con gli allievi disposti, nella opportuna posizione, a pochi metri di distanza, in modo da migliorare le proprie doti di autocontrollo. Non per niente, la cerimonia di consegna del brevetto d'incursore, è rimarcata dall'esplosione di un grosso petardo. Il personale si addestra all'impiego di cariche esplosive, di potenza ridotta, per la rimozione di ostacoli e l'apertura di porte di ogni tipo, magari nell'ambito di azioni volte al recupero di ostaggi prigionieri di terroristi. Dato che non è affatto escluso che gli incursori debbano affrontare campi minati e trappole esplosive di ogni tipo (specialmente nei nuovi teatri d'operazione), anche questo settore viene adeguatamente curato, sfruttando anche la grande esperienza italiana in questo campo. BOMBE A MANO La Marina Militare, mise a disposizione dei suoi incursori delle bombe a mano Mk.2 difensive statunitensi (le classiche "ananas" a dadoni) per l'impiego, andando ad affiancare le più leggere SRCM, utilizzate in gran numero durante gli addestramenti. In tempi successivi, furono adottate le granate offensive di produzione nazionale V-40. Bisogna ricordare che spesso, nei primi decenni del reparto, per i combattimenti ravvicinati, per esempio in ambito urbano, era previsto l'impiego di piccole "saponette" di tritolo da 100 grammi, innescate con capsula detonante da 8 mm, con una miccia a lenta combustione da 4-5 secondi. L'accensione avveniva tramite un accenditore a sfregamento, un oggetto abbastanza particolare. I problemi, con qualche incidente, nascevano dato i diversi tempi di combustione della miccia. Da sempre il reparto è dotato di grossi petardi, con accensione a sfregamento, utilizzati non solo per l'addestramento (e un tempo anche per alcuni scherzi decisamente rumorosi) ma anche per la cerimonia della consegna dei brevetti. Dalla fine degli Anni '70, sono in dotazione anche granate del tipo "flash bang", per stordire e accecare per esempio terroristi che tengono sotto le loro minacce uno o più ostaggi. LAME Gli incursori della Marina Militare hanno il pugnale nel loro simbolo, così come molte altre forze speciali, in quanto quest'arma è da sempre sinonimo di combattimento ravvicinato, dove più importanti sono le doti di coraggio e capacità professionali. All'inizio ci si arrangiava con pugnali residuati del periodo bellico, in particolare con quello dei paracadutisti. Successivamente venne realizzata una lama specifica, adatta all'impiego anche in ambiente marino, dove alcune componenti, come il cuoio, subiscono un rapido logoramento. Oggi ogni operatore riceve due lame in dotazione, incluso una daga della Gerber, con il relativo addestramento all'impiego adeguatamente curato, sfruttando anche la grande esperienza italiana in questo campo.
  14. La grande nave costruita per quel progetto non era ancora uscita in mare; ma era stata ultimata dalla Summa Corporation di Howard Hughes. Battezzata Glomar Explorer, era lunga come tre campi di calcio e aveva i ponti carichi di attrezzature controllate da computer, carrucole e gru, tutte progettate per inviare un gigantesco braccio dotato di pinze giù per quasi 5200 metri verso il fondo dell'oceano, dove avrebbe dovuto afferrare il sommergibile sovietico per riportarlo in superficie. Mancavano ormai pochissimi collaudi finali prima che la Glomar fosse pronta a uscire in mare per il Progetto Jennifer. Ancora cinque mesi e la CIA avrebbe potuto tentare il recupero. Glomar Explorer L'idea aveva già superato l'opposizione degli uomini che avevano avuto la responsabilità principale della scoperta del Golf, e soprattutto del capitano di vascello James Bradley, che sarebbe andato in pensione di lì a un mese, e di John Craven, già pensionato. Bradley e Craven erano ancora convinti che quel battello risalente alla fine degli anni cinquanta avesse una scarsa importanza ai fini dell' intelligence e che sicuramente non valesse i costi e le scarse probabilità di estrarlo dall'oceano con successo. Avevano invece proposto un piano molto più semplice e meno pericoloso per recuperare i tesori più preziosi del Golf: sviluppare minisommergibili teleguidati e attrezzati per praticare buchi nello scafo del Golf in modo da prelevare le testate dei missili, gli apparecchi di comunicazione e le macchine di decifrazione; cioè le sole cose di un qualche valore contenute nel sommergibile. Il buonsenso che sottendeva alla loro cautela emergeva ora con chiarezza anche maggiore. I sovietici non utilizzavano quasi più i Golf: avevano finito di costruire una flotta di trentaquattro Yankee e stavano per introdurre in servizio gli ancor più micidiali Delta. I primi Delta, già impegnati nelle prove in mare, avrebbero dovuto iniziare i pattugliamenti nel 1974 e i piani di produzione prevedevano la realizzazione di altre due o tre unità. I Delta trasportavano missili dotati di una gittata di 4200 miglia nautiche (7800 chilometri) che corrispondeva a sei volte quella dei vecchi missili contenuti nel relitto del Golf. Bradley e altri funzionari della Naval Intelligence sapevano inoltre che le forze subacquee stavano finalmente cominciando a seguire i sottomarini sovietici in navigazione, e non vedevano la necessità di compiere alcuna mossa disperata. Ormai due o tre Yankee stazionavano stabilmente nell'Atlantico e il SOSUS era stato calibrato in modo da rilevarli nei loro spostamenti a rotazione attraverso le zone di pattugliamento, note come "caselle Yankee", a sudest delle Bermuda e a occidente delle Azzorre. In effetti erano state allestite altre stazioni SOSUS e le navi da guerra statunitensi erano ormai dotate di sonar portatili a elementi trainati per coprire le aree in cui il SOSUS non funzionava. La Naval Intelligence aveva anche costituito su entrambe le coste e in Europa e Giappone alcuni centri di "intelligence operativa", che mettevano tutti i dati ricevuti sui movimenti dei sottomarini sovietici ed emanavano bollettini di aggiornamento quotidiani. Durante la guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur gli Stati Uniti erano riusciti a tenere sotto stretta sorveglianza ventisei sottomarini missilistici e d'attacco sovietici in Mediterraneo; i sottomarini d'attacco statunitensi si passavano l'un l'altro la responsabilità di mantenere un inseguimento costante di ciascun battello sovietico in quel mare affollato. Ma il complesso piano della CIA per recuperare l'intero Golf piaceva ancora a Nixon e a Kissinger, ormai diventato segretario di stato. I due appoggiavano con tanto vigore la decisione di impadronirsi dell'intero sommergibile, che le approvazioni finali arrivarono esattamente nei tempi previsti. Anche numerosi leader del Congresso erano stati messi al corrente della cosa. Il fatto che si fosse riusciti a mantenere il segreto per tutti gli anni richiesti dalla costruzione dell'enorme Glomar Explorer è senz'altro degno di nota. Pur essendo perfettamente visibile la nave era ben nascosta da una storia di copertura che la CIA considerava perfetta: il più famoso ed eccentrico magnate del paese stava costruendo la Glomar per conquistare il monopolio dei noduli di manganese, agglomerati di minerale delle dimensioni di palline da golf sparsi sul fondo dell'oceano. Una volta arrivata sopra il relitto nuove fotografie scattate dalle fotocamere appese alla Glomar mostravano che il Golf si trovava ancora nelle condizioni in cui lo aveva trovato l'Halibut, sei anni prima. Il sommergibile era inclinato sulla dritta. Le foto prese attraverso i boccaporti mancanti o danneggiati mostravano chiaramente che c'era ancora un missile nucleare intatto. Gli altri due erano rimasti danneggiati nell'affondamento del battello. A parte uno squarcio di circa tre metri subito dietro la torre di comando, prodotto probabilmente dall'esplosione che aveva causato l'affondamento, il Golf sembrava intatto. Era però assai probabile che fosse ormai fragile. La Marina aveva infatti calcolato che il Golf era andato a sbattere sul fondale dell'oceano a circa 200 nodi (370 km/h): un impatto di quella forza avrebbe potuto benissimo frantumarlo sotto il guscio d'acciaio esterno. Questa era stata una delle ragioni per cui Bradley e Craven avevano insistito per un tentativo di recupero più limitato. Per il momento, però, il problema maggiore era, in primo luogo, raggiungere il sommergibile. Stando alla persona che aveva reclutato l'equipaggio della Glomar, quel compito poteva essere paragonato al sollevamento da terra di un tubo d'acciaio lungo quasi otto metri con un cavo calato dalla sommità del 110° piano del World Trade Center, in una notte buia spazzata da forti venti. Mentre le pinze giganti cominciavano a scendere lentamente negli abissi, i computer della camera di manovra della Glomar iniziavano a inviare informazioni. Le pinze e il loro lungo braccio d'acciaio erano stati soprannominati "Clementine", dal nome del classico canto dei minatori. In effetti almeno i sovietici ritenevano che il loro battello fosse "perduto e scomparso per sempre". Il braccio sembrava un'enorme piovra che, alla fine, sarebbe dondolata appesa a un "guinzaglio" lungo chilometri. Aveva otto pinze serrabili, tre delle quali reggevano un'enorme rete d'acciaio. Il "guinzaglio" veniva costruito un pezzo alla volta dagli uomini della Glomar, che collegavano sezioni di tubo lunghe diciotto metri una dopo l'altra, come in un gigantesco gioco a incastro, creando un "guinzaglio" sempre più lungo penzolante verso il fondo dell'oceano. Poi, quando fosse giunto il momento di provare a sollevare il battello affondato, l'equipaggio avrebbe alzato pinze e sommergibile sollevando i pezzi di tubo dall'oceano e smontandoli uno alla volta. Ricostruzione del "Clementine" Occorsero giorni per far giungere Clementine sul fondo giorni prima che le pinze fossero posizionate esattamente sopra il sommergibile. Poi, quando il "guinzaglio" fu lungo quasi cinque chilometri, gli uomini e i computer della Glomar faticarono per compensare le correnti turbolente, in modo da stendere la rete d'acciaio agganciata a tre delle pinze sulla torre di comando del Golf. Alla fine, quando le telecamere mostrarono una delle pinze a contatto del sommergibile, l'equipaggio provò a spostare il braccio più vicino, affinché anche le altre pinze potessero disporsi intorno e afferrarlo. CONTINUA
  15. Recensione di 2012 di Giacobbo : http://www.malvestite.net/2009/05/14/rober...fine-del-mondo/
  16. VittorioVeneto

    Corpi d'elité

    ARMI ANTICARRO Come arma anticarro (utilizzabile anche contro altri bersagli, come cisterne di carburante, velivoli, trasformatori e via proseguendo), all'inizio fu scelto il Bazooka da 88 mm. L'arma però aveva un limite, derivante dal fatto che era a funzionamento elettrico, per cui, immerso in acqua, dava dei problemi. I tecnici del reparto si misero alla ricerca di qualcosa di più adatto alle loro necessità e lo trovarono nel lanciarazzi Mecar RL-83 da 83 mm, arma simile al Bazooka ma con congegno di sparo a percussione meccanica, per cui privo di quei problemi che hanno in mare le armi ad accensione elettrica. Dato che in Italia fu acquistato solo dalla Marina Militare, vogliamo ricordare che aveva una lunghezza di 170 cm, che si riducevano a 92 quando la canna era retratta (cosa che ne semplificava il trasporto) e bipede ribaltabile. Il peso massimo (a vuoto ma con ottica) era di 8,4 kg, con un raggio operativo massimo fra i 400 e i 900 metri (a secondo che impiegasse mire metalliche, ottiche o una mira ausiliaria). Poteva utilizzare vari tipi di proiettili, fra cui l'alto esplosivo (HE), il perforante a carica cava (HEAT), l'illuminante, l'incendiario e il fumogeno; la qual cosa ne esaltava la flessibilità operativa. Ancora oggi i veterani narrano della sua affidabilità: "Funzionava anche a martellate" ci hanno detto. Il lanciarazzi belga Mecar RL-83 da 83 mm Blindicide era un'arma ad accensione meccanica del razzo, quindi adatta all'impiego in mare. Non è più in servizio da tempo Con il passare del tempo, il BLINDICIDE invecchiava, sia sotto il profilo operativo che per quanto riguardava le capacità del munizionamento, in particolare le capacità di perforazione della testata HEAT. Il reparto fu dotato del piccolo cannone senza rinculo da 84 mm CARL GUSTAV, all'epoca realizzato dalla svedese FFV (oggi all'interno del Gruppo Bofors), arma affidabile e potente, con un ampio spettro di munizionamento. Lungo appena 113 cm, pesa 14,2 kg, con un raggio effettivo del munizionamento HEAT di 500 metri, 1.000 per gli altri tipi di proiettili utilizzabili escluso l'illuminante che arriva a 2.000 metri. Si tratta di un'arma molto interessante, pur nella sua semplicità, costantemente aggiornata fino ai nostri giorni, in particolare nel munizionamento e nei sistemi di mira. Quest'arma si prestava molto all'esigenze del GOI, in quanto si tratta di un piccolo cannone "tascabile". Ricordiamo che alla Georgia Australe, nel 1982, il piccolissimo reparto di Royal Marines che la presidiava, aveva proprio in un CARL GUSTAV l'arma più potente e riuscì a danneggiare una fregata argentina. Quest'arma potrebbe essere utilizzata per colpire bersagli (terrestri ma anche navali), che non sono assolutamente raggiungibili a causa della situazione tattica. Depositi di carburante, installazioni industriali, velivoli al parcheggio, depositi di munizioni, navi in prossimità delle coste e via proseguendo. In Italia è stata adottata solo dal GOI. Per la lotta controcarro, negli Anni '80 fu scelta un'altra arma rivoluzionaria, vale a dire il tedesco MBB ARMBRUST 300. Si tratta di un'arma "usa e getta", dalla bassa segnatura luminosa e acustica, in quanto il razzo, a carica HEAT, viene lanciato tramite una piccola carica che agisce sulla parte posteriore del razzo e su di una contromossa di materiale inerte, spinti da due pistoni che, a fine corsa, s'incastrano alle estremità della canna (che rimane in pressione). In questo modo, a differenza di tutti i lanciarazzi dell'epoca, può essere utilizzato sparando anche dall'interno di locali chiusi. Impermeabile, pesante appena 6,3 kg, realizzato in fibre di vetro, ha un raggio effettivo di 300 metri. Prodotto poi a Singapore, l'abbiamo incontrato durante il conflitto in Croazia. Attualmente non è più in servizio da alcuni anni con il reparto. A questo punto si rendevano necessarie nuove armi anticarro e per questo furono scelti due lanciarazzi, vale a dire il tedesco PANZERFAUST 3 e lo spagnolo Instalaza C-90, entrambi distribuiti poi anche al Reggimento SAN MARCO. Il PANZER-FAUST 3, ultimo erede di una famiglia iniziata dai Panzerfaust del periodo bellico (da cui si sono largamente ispirati i sovietici per i loro RPG-1, una copia del Panzerfaust 150, RPG-2 e RPG-7). è una delle armi più potenti della sua categoria, con un ampio spettro di munizionamento disponibile: anticarro (anche con testata perforante in tandem, per avere ragione anche delle protezioni reattive), HE, illuminante, fumogena. La gittata massima controcarro è di 300 m contro bersagli mobili che salgono a 500 contro bersagli fissi. Ottica di puntamento e impugnatura vengono applicate sul contenitore ermetico dell'arma, per poi essere riutilizzate. Il potere perforante della testata "basica" è di oltre 700 mm in acciaio omogeneo. Il C-90 è un lanciarazzi non ricaricabile, del calibro di 90 mm, con una lunghezza di 840 mm e un peso complessivo di 4,2 kg. La gittata utile nel tiro anticarro è di 200 metri ma esistono anche armi caricate con altri tipi di munizionamento (a frammentazione, illuminante ecc.), a secondo delle necessità operative. La capacità di penetrazione in acciaio omogeneo è di 400 mm ed è stato adottato anche dal Reggimento SAN MARCO. C-90 e PANZERFAUST 3, sono utilizzate anche per la difesa ravvicinata del naviglio militare italiano in acque costiere e ristrette, nonché nei porti, dove vi è il rischio di attacchi suicidi condotti da personale a bordo di naviglio leggero. Ovviamente alcuni elementi sono abilitati anche all'impiego dei sistemi missilistici filoguidati MILAN, non tanto nell'ipotesi di un impiego contro mezzi corazzati, abbastanza improbabile, quanto come arma per centrare, da distanza, particolari obiettivi, come depositi di munizione, depositi di carburante ma anche unità navale. E' facile ipotizzare cosa accadrebbe se una di queste armi raggiungesse uno dei contenitori/lanciatori per missili che si trovano sul ponte di molte unità da combattimento o la centrale di combattimento, dove fanno capo i sensori dell'unità. Il personale del reparto è addestrato anche all'impiego di lanciagranate da 40 mm monocolo HK-69 GRANATPISTOLE, e potrebbero essere in dotazione anche i nuovi lanciagranate automatici da 40 mm della HK, un'arma molto potente e precisa, con un sofisticato sistema di puntamento, che sarà installata anche a bordo dei nuovi fuoristrada e dei gommoni a chiglia rigida, conferendogli una potenza non indifferente. Appartenente al Reggimento con un lanciarazzi da 90 mm C-90, qui ripreso in Kosovo nel 1999. Quest'arma è stata adottata per prima in Italia dal GOI
  17. DUE CACCIA EUROFIGHTER INTERCETTANO AEREO MILITARE MONTENEGRO (AGI) - Roma, 27 mag. - Intercettato da due caccia Eurofighter del 4' Stormo di Grosseto un velivolo militare Cessna 551 del Montenegro in volo da Cannes (Francia) a Vienna (Austria) che attraversava lo spazio aereo italiano senza l'adeguata autorizzazione. Ne da' notizia l'Aeronautica Militare. L'operazione e' scattata questa mattina alle 11,.49 e i due caccia sono decollati, su ordine di 'scramble' dal Comando Operativo delle Forze Aeree (COFA)/CAOC 5 di Poggio Renatico (Ferrara) e sotto il controllo del 21' Gruppo Radar A.M. di Poggio Ballone (Grosseto) e dell'11' Gruppo Radar A.M. di Poggio Renatico. Per raggiungere il velivolo in transito e' stato necessario percorrere dalle 11.55 alle 12.04 un tratto a volo supersonico tra la zona a sud di Firenze e Reggio Emilia. L'intercettazione e' avvenuta alle ore 12.10 a 15 miglia ad ovest di Rovereto (Trento), dove il velivolo e' stato identificato. I caccia Eurofighter hanno scortato poi il velivolo fino al confine dello spazio aereo nazionale, a circa 30 miglia a nord di Belluno, per far successivamente rientro al 4' Stormo dove sono atterrati alle ore 13.03 locali. Lo 'scramble' e' in gergo tecnico il decollo immediato di caccia intercettori che sotto la guida dei controllori della difesa aerea si dirigono verso un velivolo 'sospetto' per accertare visivamente l'identita' e per scortarlo fino ai limiti dello spazio aereo italiano. Nella maggior parte dei casi, si tratta di aeromobili che non rispondono a prestabiliti requisiti, non hanno le previste autorizzazioni al sorvolo dello spazio aereo nazionale o perdono le comunicazioni con gli organi del controllo del traffico aereo o divergono dalla rotta prevista senza validi motivi. L'Aeronautica Militare assicura - dice il comunicato - la sorveglianza e la difesa dello spazio aereo nazionale per 365 giorni all'anno, 24 ore su 24, tramite un sistema di radar, velivoli e sistemi missilistici, integrato sin dal tempo di pace con quelli degli altri paesi appartenenti alla Nato. Oltre che dal 4' Stormo di Grosseto, il servizio di decollo immediato e di intercettazione nei casi di allarme e' svolto dal 36' Stormo di Gioia del Colle (Bari), pure equipaggiato con aerei Eurofighter, dal 5' Stormo di Cervia e dal 37' Stormo di Trapani, dotati invece di aerei F-16.
  18. Diciamo anche che con la Nord Corea si può fare la voce grossa , mentre i Cinesi se ne fanno allegramente un baffo ...
  19. Interessante su Wikipedia la pagina dedicata alle armi "sonore" http://it.wikipedia.org/wiki/Long_Range_Acoustic_Device
  20. Il B2 non blocca nessuna onda radar ( a dire il vero penso che nessun velivolo sia in grado di farlo) per poi restituirla ritardata , semplicemente la devia in direzioni diverse da quella di provenienza , quindi non da "una posizione del velivolo falsata" ma non rivela proprio la sua posizione se non quando è maledettamente tardi Da quello che hai scritto sembra che parlavi della cosidetta "cancellazione attiva" , una tecnica ancora sperimentale : http://it.wikipedia.org/wiki/Cancellazione_attiva
  21. VittorioVeneto

    Corpi d'elité

    MITRAGLIATRICI Passato il periodo dell'impiego di residuati del precedente conflitto come Bren, Breda 37 e Browning M2 in 12,7x99 mm (si pensi che alcuni reparti britannici avevano in dotazione il Bren anche durante la campagna per le Falklands/Malvinas nel 1982, seppur ricalibrato per il 7,62x51 mm), la prima mitragliatrice di nuova produzione ad essere adottata, fu la MG-42/59, che poi non era che una versione leggermente modificata della celeberrima MG-42 tedesca della II Guerra Mondiale, una vera leggenda del settore. Leggera, affidabile, facile da utilizzare, è in servizio ancora oggi, in quanto il munizionamento in 7,62x51 mm che utilizza in alcune circostanze è ritenuto più adatto che non il più piccolo 5,56x45 mm. Alla fine degli Anni '80, al reparto sono giunte le mitragliatrici FN MINIMI, in 5,56x45 mm, arma che si è nettamente affermata nel settore delle mitragliatrici leggere, venendo adottata anche negli Stati Uniti (M-249) e da molte forze armate. In Italia è stata scelta anche dall'Aeronautica e dall'Esercito. Funzionante a recupero di gas, con otturatore rotante, si è dimostrata adatta all'esigenze del reparto, pur se leggermente sottopotenziata per determinati compiti. La disponibilità del caricatore amovibile da 200 proiettili, consente una massiccia erogazione di fuoco anche alle squadre in movimento. Ogni distaccamento in media dispone di due di queste armi. Le Minimi sono in dotazione nella versione para, con calcio collassabile e canna ridotta a 375 mm di lunghezza, in modo da essere più maneggevole. Altra mitragliatrice leggera entrata in servizio è la HK-21, in 7,62 mm, arma precisa e accurata, grazie al sistema di chiusura a rulli di cui si avvale, dotata anche di una impugnatura anteriore verticale, per consentire anche il tiro dal fianco, potendo erogare fuoco anche in movimento, anche se con un'arma di questo tipo non è facile. Le operazioni in Afghanistan hanno visto l'esordio nel reparto di una nuova arma, vale a dire la mitragliatrice M-60 A4. Per la verità anche questa mitragliatrice tanto nuova non è, dato che è una evoluzione, per le forze speciali, della M-60 in 7,62x51 mm. Il GOI voleva una mitragliatrice realmente trasportabile e utilizzabile anche dal fianco, esigenza emersa anche presso i SEAL, i quali hanno fatto realizzare dalla Saco Defence questa nuova versione, con canna accorciata, impugnatura anteriore, con aggancio per una scatola amovibile contenente 50 o 100 proiettili. Controllare un'arma di questa potenza, tenendola al fianco, è compito solo per personale addestrato in quanto entrano in gioco potenze di tutto rilievo e non cartucce a carica ridotta (tanto i proiettili non devono partire) come si vede in certe scene dei film, dove il protagonista usa una M-60 addirittura con una mano sola ! Una mitragliatrice statunitense M-60 A4, in 7,62x512 mm e una FN Minimi Para in 5,56x45, entrambe mimetizzate, utilizzate dai distaccamenti del GOI in Afghanistan. Solo il GOI dispone in Italia delle M-60 A4 Un istruttore dei SEAL statunitensi, armato di M-60 A4, un'arma in 7,62x51 mm che personale esperto può utilizzare anche dal fianco
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