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La Battaglaia di Matapan


Mattesini

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IL CONVEGNO DI MERANO E LA BATTAGLIA DI MATAPAN - 28 Marzo 1941

 

 

Francesco Mattesini

 

 

IL CONVEGNO NAVALE ITALO-TEDESCO DI MERANO

 

Nei giorni 13 e 14 febbraio 1941, mentre Hitler pianificava per l’inizio della primavera l’operazione “Marita”, destinata ad invadere la Grecia per venire in aiuto agli italiani immobilizzati sul fronte dell’Albania, si svolse a Merano un importante convegno, organizzato, con la partecipazione dei massimi vertici delle marine italiana e tedesca, per discutere questioni di comune interesse; in particolare quelle riguardanti la guerra che si combatteva nel Mediterraneo.

Durante la preparazione del convegno, Supermarina elaborò un dettagliato promemoria (n. 31) in cui erano esposti gli argomenti che sarebbero stati trattati nelle discussioni tra i rappresentanti italiani e i colleghi tedeschi. Questo documento, consegnato durante i colloqui alla delegazione germanica, faceva il punto sulla situazione strategica, verificatasi dall’inizio della guerra in poi, ed indicava quali sarebbero stati gli obiettivi da raggiungere per risollevare le sorti del conflitto nel Mediterraneo. Essi dovevano concretarsi con la riconquista della Cirenaica e con l’occupazione della Tunisia e della Corsica, in modo da dominare il Mediterraneo centrale, sbarrare definitivamente il Canale di Sicilia e rendere sicuro dalle incursioni della flotta britannica il Golfo di Genova, una cui formazione navale, la Forza H partita da Gibilterra, aveva bombardato il porto del capoluogo ligure il mattino del 9 febbraio 1941, due giorni prima dell’incontro di Bordighera tra Mussolini e il generalissimo Franco, e cinque giorni prima del convegno di Merano. Una mossa politico-strategica, quella britannica, straordinaria, perché a Bordighera Franco rifiutò nettamente di far entrare in guerra la Spagna, mentre a Merano i rappresentanti italiani si presentarono alla delegazione tedesca con un imbarazzante stato di frustrazione.

Preoccupazione era denunciata dagli italiani per le possibilità offensive che si offrivano alla Marina britannica la quale, oltre a possedere nel Mediterraneo una netta superiorità in navi da battaglia poteva contare sull’appoggio aereo fornito dalle navi portaerei, e nel frattempo aveva ridotto il divario sfavorevole in incrociatori e cacciatorpediniere rispetto a quelli disponibili nella flotta italiana. A questa ultima mancava poi un efficiente appoggio da parte dell’Aeronautica, soprattutto in relazione all’inidoneità degli aerei da caccia impiegabili in alto mare e alla scarsa efficienza riscontrata nel servizio di ricognizione, assegnato in gran parte a velivoli di caratteristiche sorpassate. Inoltre, nel promemoria si lamentavano gli oneri connessi alla protezione del traffico marittimo, che aveva costretto la Regia Marina ad aumentare gradatamente l’entità dei servizi di scorta, anche lungo le coste metropolitane insidiate dai sommergibili nemici, con grave detrazione per altri compiti di carattere militare; soprattutto nell’impiego delle torpediniere e dei cacciatorpediniere di squadra, i cui compiti dovevano essere quelli di contribuire al controllo del Canale di Sicilia e di fornire le scorte alle divisioni navali.

Scarse erano poi ritenute le possibilità di azione della Squadra Navale nelle zone controllate dal nemico; ma si assicurava che non sarebbe stata tralasciata alcuna occasione per esercitare una pressione costante sulle flotte britanniche segnalate in mare, uscendo dalle basi per “cercare di impegnarle in condizioni favorevoli”. Una eventualità, questa ultima, che però occorreva vagliare attentamente, perché, si specificava nel Promemoria n. 31, un successo sul nemico conseguito dalla Regia Marina con proprie perdite, avrebbe portato a ottenere “ripercussioni enormi“ di carattere favorevoli, ma nel contempo, per le possibilità degli inglesi di rimpiazzare le proprie perdite, anche a conseguire “effetti materiali relativamente limitati”. Comunque fosse, la flotta italiana, anche mantenendosi in potenza (Fleet in being), avrebbe per sempre obbligato il nemico ad esercitare una continua vigilanza, costringendolo a mantenere fissate nel Mediterraneo le sue grandi navi da guerra. Tutto ciò a vantaggio del fronte dell’Atlantico ove in quel periodo operavano contro il traffico britannico, tenendo la Royal Navy particolarmente impegnata nelle scorte navali, gli incrociatori da battaglia germanici Gneisenau e Scharnhorst, la corazzata tascabile Admiral Scheer, e l’incrociatore pesante Admiral Hipper.

Infine, passando ad affrontare le “Necessità di concorso da parte della Germania”, per sopperire alle deficienze della Regia Marina, venivano richiesti all’alleato mezzi contraerei per la difesa delle basi, idrovolanti da ricognizione con grande raggio d’azione, materie prime e semilavorati. Occorreva poi aumentare al massimo la quota dei combustibili provenienti dalla Romania, poiché le scorte di nafta italiane, il cui consumo si aggirava su una quota mensile di circa 100.000 tonnellate, si erano molto ridotte. In effetti il 26 febbraio Supermarina fu costretta ad emanare norme che imponevano ai comandi navali di attuare un regime di stretta economia, dal momento che era stata consumata oltre la metà della scorta di nafta di 1.750.000 tonnellate esistente all’inizio della guerra.

Queste erano le condizioni con cui la delegazione italiana si presentò al convegno di Merano.

Tra gli argomenti di comune interesse trattati nelle discussioni generali e in quelle private tra i due capi delegazione, ammiraglio Arturo Riccardi e Grande ammiraglio Herich Raeder, la situazione in Libia occupò un posto di rilievo. Come per gli italiani, anche per i tedeschi quel settore di guerra rappresentava un estremo baluardo da difendere ad ogni costo; in particolare nel momento in cui, proprio in quei giorni, stava affluendo a Tripoli la 5^ Divisione leggera del generale Erwin Rommel, il cui trasporto doveva svolgersi “con la massima rapidità e la maggiore possibile integrità”.

Ragion per cui Riccardi e Raeder vagliarono in tutti i suoi aspetti la situazione del Canale di Sicilia, riguardo agli elementi difensivi, navali ed aerei, tra cui particolarmente importante fu ritenuto quello del porto di Tripoli, che occorreva sbarrare adeguatamente con campi minati (mine magnetiche tedesche posate da navi italiane) per proteggerlo da eventuali incursioni delle unità della Royal Navy. Inoltre, nei due ammiragli, si rafforzò il convincimento che occorreva continuare a mantenere Malta sotto pressione con l’aviazione, anche quando non erano presenti nei porti dell’isola unità navali britanniche.

Al secondo posto per importanza la delegazione tedesca pose il settore dell’Egeo, anche per le conseguenze strategiche che sarebbero seguite alla conquista del territorio ellenico e delle sue isole, prevista entro maggio 1941. Il dominio dell’Egeo avrebbe permesso la riapertura della navigazione attraverso gli stretti della Turchia (Dardanelli), e un traffico continuo con il Mar Nero, per proteggere il quale, da parte tedesca, era richiesto alla Regia Marina di esercitare con i suoi mezzi navali un’efficace protezione.

Passando poi ad analizzare il problema della Corsica, la delegazione tedesca si disse convinta che la Marina francese non si sarebbe unita a quella britannica, e questa ultima non avrebbe mai effettuato alcuna azione di sbarco di sorpresa per impossessarsi dell’isola, come invece temevano gli italiani, in particolare il Comando Supremo. Nel contempo, a meno che la Germania, per motivi prettamente politici, non avesse preso l’iniziativa di conquistare i territori della Francia non ancora occupati, era sconsigliato un tentativo di invasione della Corsica da parte degli italiani. Vi era infatti la ferma convinzione tedesca che quell’iniziativa avrebbe provocato l’immediata sollevazione del Nord Africa Francese, e quindi portato ad “una radicale variante nella situazione strategica marittima del Mediterraneo occidentale, con gravi ripercussioni nel Canale di Sicilia”.

Affrontando il problema delle scorte di combustibili della Regia Marina, con la allarmante motivazione che si stavano rapidamente esaurendo, ammiraglio Riccardi affermò testualmente che le sue “ forze navali di superficie avrebbero dovuto cessare da ogni attività entro il mese di giugno e che solo i sommergibili avrebbero potuto continuare ad agire fino a febbraio 1942 ”. Dal momento che la richiesta cessione di un maggior quantitativo di nafta all’Italia, motivata dall’ammiraglio Riccardi con molta esagerazione, non rientrava nelle competenze del Grande ammiraglio Raeder, questo promise che si sarebbe interessato della questione non appena rientrato a Berlino.

In effetti, presentandosi al Führer per un rapporto sulle discussioni di Merano, che si tenne il 18 marzo 1941 a Berlino, Raeder, affrontando l’argomento della necessità di trasferire “combustibili liquidi dalle riserve tedesche alla Marina italiana” affinché prendesse “parte attiva alla guerra”, mise in dubbio quanto dichiarato dall’ammiraglio Riccardi; ossia che la Regia Marina possedessero soltanto 600.000 tonnellate di nafta, che era poi una quantità superiore a quella allora disponibile nei depositi della Kriegsmarine.

Infine, tornando alle discussioni di Merano, in un colloquio fra il Capo Reparto di Supermarina, ammiraglio Emilio Brenta e il Capo Reparto Operazioni della Seekriegsleitung (Direzione delle Operazioni Navali), ammiraglio Kurt Fricke, fu rispolverato dall’Ufficiale tedesco un argomento già trattato succintamente dal Capo della Kriegsmarine con Riccardi, e riguardante la richiesta di effettuare delle puntate veloci con le moderne navi da battaglia tipo “Vittorio Veneto”, contro il traffico costiero di rifornimento che si svolgeva tra i porti dell’Egitto e le prime linee britanniche in Cirenaica.

L’ammiraglio Brenta fece presente che quel genere di “raids” più volte studiato, era stato sempre abbandonato “perché troppo dispendiosi per gli elevati consumi di combustibile”, che occorreva risparmiare al massimo; ed anche perché non conveniva andare incontro ad un nemico che si trovava in condizione vantaggiosa e che avrebbe potuto con il danneggiamento di qualche nave, determinare riduzioni di velocità della squadra italiana, “con la grave conseguenza” di costringerla a ”dover accettare un combattimento lontano dalla proprie basi e in qualsiasi situazione di relatività” di forze.

Come avremo modo di vedere, questa temuta ipotesi si sarebbe realizzata per la flotta italiana nell’episodio di Capo Matapan, il 28 marzo 1941.

Occorre anche dire che, senza conoscere quale era stato il nocciolo delle discussioni di Merano nei riguardi di una puntata offensiva della flotta nel Mediterraneo orientale, il Comandante della Squadra Navale, ammiraglio Angelo Iachino, avanzò anch’egli, alla fine di febbraio, la proposta di un impiego offensivo, da assegnare ad un reparto veloce, costituito dalla corazzata Vittorio Veneto e da tre incrociatori pesanti. Ciò avvenne con una lettera personale inviata al Capo di Stato Maggiore della Regia Marina.

L’ammiraglio Riccardi, rispondendo il 4 marzo, anch’egli in forma privata, affermò che un piano simile era stato studiato da Supermarina. L’intenzione era quella di effettuare incursioni, con navi pesanti di superficie, contro il traffico di rifornimento britannico che faceva capo a Bengasi, seguendo le rotte costiere della Cirenaica, e di obbligare il nemico a rallentare l’afflusso dei rifornimenti e dei mezzi alle prime linee del fronte terrestre, e nel contempo costringerlo “a subire l’iniziativa” della Marina italiana.

Tuttavia, sostenne Riccardi, il piano offensivo, al momento non si rendeva attuabile, perché gli inglesi, intensamente attaccati dagli aerei del X Fliegerkorps, erano stati costretti ad abbandonare il porto di Bengasi. Ragion per cui, specificò a Iachino il Capo di Stato Maggiore della Marina, era “venuto a mancare l’obiettivo principale, se non unico dell’azione navale”.

Nel frattempo Supermarina, considerando che i britannici avrebbero tentato con ogni mezzo di attaccare il traffico con La Libia, per strangolarlo, ritenne “indispensabile mettersi in condizioni di intervenire tempestivamente con tutte le nostre forze nel Mediterraneo centrale”, per parare una simile minaccia.

Era questo un impegno che l’organo operativo dell’Alto Comando navale aveva sostenuto nel convegno di Merano, durante il quale, di fronte all’insistenza del Grande ammiraglio Raeder, l’ammiraglio Riccardi aveva dato l’assicurazione che, per proteggere le rotte libiche, “la Marina italiana avrebbe tenute pronte ad intervenire se necessario, anche le forze maggiori”. Lo stesso Alto Comando delle Forze Armate germaniche (O.K.W.) aveva insistito sull’importanza di questo genere di protezione presso il Comando Supremo italiano che, da parte sua, si rese garante emanando a Supermarina e a Superaereo precise direttive. Tutto ciò, in vista del rientro a Taranto delle corazzate che, dopo l’attacco degli aerosiluranti britannici della notte dell’11 novembre 1940, erano state trasferite prima a Napoli e poi alla Spezia (Vittorio Veneto. Cesare, Doria), per ricongiungerle alla Littorio che avendo ultimati i lavori di riparazione. Ad esse si sarebbe aggiunta anche la Duilio, che riparata a Genova, stava per rientrare in squadra.

In questo contesto, il rientro delle corazzate a Taranto, che avrebbe permesso di disporre di ben cinque unità di quel tipo e quindi in grado di fronteggiare a parità di forze la Mediterranean Fleet, era considerato a tutti gli effetti necessario ed urgente.

 

 

LA PIANIFICAZIONE DELLA MISSIONE DELLA SQUADRA NAVALE ITALIANA a SUD DI CRETA E IN EGEO E LA BATTAGLIA DI MATAPAN

 

Nelle settimane che seguirono il convegno di Merano la Seekriegsleitung continuò ad esercitare pressioni su Supermarina affinché si decidesse ad effettuare della puntate offensive contro l’incrementato traffico britannico, che collegava l’Egitto alla Grecia. Incremento dovuto al fatto che, a partire dal 6 marzo 1941 avevano cominciato ad affluire in territorio ellenico gli elementi e i mezzi di quattro divisioni britanniche, ritenute necessarie per fronteggiare l’attacco tedesco alla Grecia, i cui dettagli erano stati rivelati a Londra dalle preziose intercettazioni dell’organizzazione crittografica “Ultra”. Inizialmente Supermarina si mostrò contraria ad attuare le missioni richieste, perché riteneva che la flotta non fosse ancora in condizioni di intraprendere operazioni offensive.

Tuttavia, dopo l’errata notizia del siluramento a sud di Creta di due delle tre corazzate della Mediterranean Fleet, RIFERITO il 16 marzo dai piloti di due aerosiluranti “He 111” della 6^ Squadriglia del 2° Gruppo Bombardamento (6/KG.26) del X Fliegerkorps, il capitano Robert Kowalewski, comandante del II/KG.26, e dal tenente Rudolf Schmidt, Supermarina, ritenne si fossero presentate condizioni favorevoli per effettuare una missione della Squadra Navale nel Mediterraneo orientale. Approfittando del fatto che, il 21 marzo, il Comando Supremo, come vedremo, aveva invitato la Regia Marina e la Regia Aeronautica ad assumere in Egeo un atteggiamento più aggressivo per sostenere la prossima offensiva della Germania contro la Grecia, Superrmarina decise di effettuare la prevista puntata in profondità nel Mediterramneo orientale impiegarvi una forza navale comprendente, suddivisa in due gruppi:

 

1° Gruppo: la corazzata Vittorio Veneto (ammiraglio Iachino), con i tre incrociatori pesanti della 3^ Divisione Navale Trieste, Trento Bolzano e i sette cacciatorpediniere Granatiere, Fuciliere, Bersagliere, Alpino (13^ Sq.), Corazziere, Carabiniere, Ascar (12 Sq.)i:

2° Gruppo: i tre incrociatori pesanti della 1^ Divisione Navale Zara (ammiraglio Cattaneo), Pola, Fiume, i due incrociatori leggeri della 8^ Divisione Navale Garibaldi, Abruzzi, e i sei cacciatorpediniere:, Alfieri, Gioberti, Carducci, Oriani (9^ Sq.), Da Recco e Pessagno (6^ Sq.).

 

Per appoggiare l’azioni delle navi di superficie – che dovevano agire a nord di Creta con i cinque incrociatori del Gruppo “Zara” e a sud di Creta con il Gruppo della Vittorio Veneto – ma soprattutto allo scopo di esercitare compito di vigilanza nel Mediterraneo orientale contro i movimenti della flotta britannica, fu deciso di inviare in agguato, nel tratto di mare tra le coste sud-orientali di Creta e il porto di Alessandria, i cinque sommergibili Dagabur, Ambra, Galatea, Nereide e Ascianghi. Occorre subito dire che le unità subacquee mancarono completamente il compito affidatogli, perchè la Mediterranean Fleet, salpando da Alessandria, passò attraverso le maglie del loro sbarramento di vigilanza, senza essere state minimamente segnalata. Fu questo uno dei primi risultati negativi di un’operazione navale, che nella collaborazione con la Germania era indubbiamente necessaria, anche come gesto di buona volontà degli italiani, ma nata male, e che, sotto forma di collaborazione aeronavale, sarebbe stata condotta ancora peggio.

Nel preparare i dettagli della missione, Supermarina cercò di accertare, per mezzo della ricognizione aerea italiana e tedesca, se le due corazzate inglesi erano state effettivamente silurate dai velivoli del X Fliegerkorps. Ben presto apparve evidente che le tre navi da battaglia, di base ad Alessandria (Warspite, Valiant e Barham) erano tutte in piena efficienza. Tuttavia, contando sulla superiore velocità delle proprie unità e sottovalutando la pericolosità degli aerei britannici, che fino ad allora negli attacchi in mare aperto erano stati praticamente inconcludenti, Supermarina decise di tentare ugualmente la sorte.

E ciò, come scrisse all’epoca in un promemoria l’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo, allora Capo Ufficio Operazioni Piani di Guerra, per i seguenti tre motivi:

 

“Dare al mondo l’impressione che l’Inghilterra non ci aveva preclusa l’iniziativa in zone lontane dalle nostre basi; dare alla Squadra, da troppo tempo inattiva, la soddisfazione per essa tanto desiderata di andare verso il nemico senza subirne la volontà; non tralasciare le pressioni che ci venivano da Berlino”.

 

A questo riguardo, rispondendo il 25 marzo al Grande ammiraglio Raeder, che il giorno 19 aveva nuovamente invitato Supermarina ad attaccare il traffico inglese nel Mediterraneo orientale in un momento ritenuto favorevole per l’eliminazione delle due corazzate di Alessandria, l’ammiraglio Riccardi affermò di pensarla nello stesso modo, e sostenne che le prossime operazioni della flotta sarebbero state indirizzate in quella direzione.

Rispondendo poi al generale Alfredo Guzzoni, Sottocapo di Stato Maggiore Generale (Comando Supremo), che il 21 marzo aveva invitato la Marina ad effettuare in Egeo “offese navali di superficie attuabili attraverso rapide puntate di incrociatori protetti e cercando di battere le corazzate” britanniche, che in quel momento apparivano “in stato d’inferiorità numerica”, il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina scriveva il giorno 28 che “Supermarina aveva già studiato le possibilità di azioni con navi di superficie contro l’Egeo” e di avere ”altresì intensificata la dislocazione di sommergibili in quel settore”.

Ritenendo che la missione poteva avere successo se la flotta avesse disposto di un efficace appoggio aereo, Supermarina chiese all’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale di collegamento della Marina germanica a Roma, di prendere accordi con il Comandante del X Fliegerkorps, generale Hans-Ferdinand Geisler, il quale si disse pronto a mettere a disposizione velivoli da ricognizione, da caccia a largo raggio, e da bombardamento. Ma quando il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, dopo aver ricevuto il programma delle scorte aeree trasmesso da Supermarina, seppe dall’ammiraglio Riccardi che per la puntata della flotta erano stati presi accordi con la Luftwaffe, lasciandolo praticamente all’oscuro, il generale Pricolo si irritò con il collega della Marina; e, come poi avrebbe rivelato nel dopoguerra scrivendo al generale dell’Esercito Emilio Faldella, lo accusò “di aver commesso una grave sgarberia verso Superaereo”. Il generale Guzzoni gli dette pienamente ragione e subito furono apportate varianti per l’impiego degli aerei, che però, sfortunatamente, non poterono essere portate a conoscenza dell’ammiraglio Iachino, salpato la sera del 26 marzo da Napoli con la corazzata Vittorio Veneto.

Oltre al pasticcio dell’appoggio aereo, da cui si sarebbero verificate gravi conseguenze, accadde che, mentre gli ordini operativi alle unità della flotta, ancora all’ormeggio nei porti di Napoli, Messina, Taranto e Brindisi, furono diramati per filo, e quindi con procedura praticamente sicura, le istruzioni al Comando delle Forze Armate dell’Egeo, i cui aerei dovevano partecipare all’appoggio navale durante il giorno X (28 marzo), furono trasmesse per radio, impiegando la macchina cifrante “Enigma” di Supermarina. Si trattava, occorre dirlo, dell’unico mezzo radio disponibile, fin dall’inizio della guerra e fino al suo termine, per comunicare con la massima velocità con i Comandi dei territori d’Oltremare (Libia e Dodecaneso). Mezzo, il cui codice era considerato praticamente sicuro, e quindi non decifrabile dal nemico. Nessuno quindi in Germania e in Italia avrebbe potuto sospettare il contrario

Ne conseguì, invece, che i britannici, tramite la loro organizzazione crittografica “Ultra”, vennero a sapere che la flotta italiana avrebbe effettuato una non precisata puntata offensiva verso l’Egeo, prevista per il 28 marzo, poiché l’Ultra decrittò anche il fondamentale telegramma con il quale Supermarina informò Rodi: “Oggi 25 marzo è giorno X-3”.

Tuttavia, fortunatamente, l’Ultra non riuscì, per mancanza di tempo, a decifrare l’ordine di operazioni sulla consistenza della flotta italiana compilato il 24 marzo dall’ammiraglio Carlo Giartosio, Capo Ufficio Operazioni. Documento che, gioco-forza, Supermarina era stata costretta a trasmettere all’ultimo momento per macchina cifrante, in quanto il velivolo S. 81 della 222^ Squadriglia del 56° Gruppo Bombardamento Terrestre, a cui quel documento (teleavio n. 05521) era stato consegnato da un corriere proveniente da Roma, per essere inviato a Rodi, era precipitato il 25 marzo durante il decollo dall’aeroporto siciliano di Gerbini, determinando l’incendio e il decesso del pilota, tenente Renzo Minossi, e degli altri quattro membri dell’equipaggio.

Pur restando nel dubbio sull’obiettivo e sulla consistenza delle navi italiane che avrebbero partecipato all’operazione, il Comandante in Capo della Mediterranean Fleet ammiraglio Andrew Cunningham, decise di trasferirsi all’alba del 28 a 10 miglia a sud dell’Isola di Gaudo con la sua squadra da battaglia costituita dalle tre corazzate Warspite, Valiant e Barham, dalla portaerei Formidable e da nove cacciatorpediniere (Jervis, Janus, per riunirsi alla “Forza B” dell’ammiraglio Pridham-Wippell, costituita dai quattro incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e da altrettanti cacciatorpediniere (Ilex, Hasty, Hereward e Vendetta), salpati dal Pireo e da Suda. Inoltre Cunningham ordinò all’unico convoglio in mare, diretto in Grecia, di rientrare ad Alessandria, e dispose affinché i sommergibili Triumph e Rover uscissero da Suda per portarsi in agguato nelle acque di Creta, in cui si sospettava sarebbe transitata la flotta italiana. Infine si accordò con il Comando della R.A.F. in Grecia, affinché fosse preparato un esteso programma di ricognizione nello Ionio, e venissero approntati per l’attacco reparti di bombardieri “Blenheim”.

Come previsto, il mattino del 27 marzo un ricognitore britannico “Sunderland” del 230° Squadron (capitano pilota D.G. Boehm), partito dalla base ellenica di Scaramanga (Corinto), avvistò parte della flotta italiana (la 3^ Divisione con gli incrociatori Trieste, Trento e Bolzano) che si era riunita a sud dello Stretto di Messina con il gruppo della corazzata Vittorio Veneto, salpato da Napoli la sera del giorno 26. Questo avvistamento, assieme ad un insolito traffico radio del nemico che era indice di una importante operazione navale in corso, servì all’ammiraglio Cunningham per confermare i preparativi di partenza della sua flotta (Forza A), che salpò da Alessandria dopo il tramonto del sole del giorno 27, fissandone l’appuntamento, a sud dell’isoletta di Gaudo (Creta), per le ore 06.30 dell’indomani, con i quattro incrociatori della vice ammiraglio Pridham-Wippell (Forza B), provenienti dall’Egeo attraverso lo Stretto di Caso.

Tuttavia, nel lasciare il porto, la Warspite passò vicino ad un banco di fango che. ostruendo i condensatori, ridusse la velocità della corazzata a venti nodi; ragion per cui, l’intera Forza A, nel dirigere verso Gaudo con rotta nord-ovest, fu costretta ad adeguarsi alla velocità della nave ammiraglia di Cunningham, con la conseguenza di non permettergli di arrivare in tempo all’appuntamento con la Forza B.

Nei comandi italiani le segnalazioni del “Sunderland” generarono naturalmente un certo allarme perché la missione era stata concepita con il carattere della sorpresa. Tuttavia non venne arrestata. Infatti, sebbene i ricognitori italiani avessero accertato fin del 24 marzo che le tre corazzate della Mediterranean Fleet fossero tutte efficienti - notizia poi confermata nel pomeriggio del giorno 26 dallo sviluppo di una ripresa fotografica scattata in quella occasione da un velivolo Ju. 88 della 3^ Squadriglia del 1° Gruppo Ricognizione Strategica del X Fliegerkorps - a cui seguì la notizia, anch’essa riportata da due velivoli (uno Ju. 88 e da un Cant Z. 1007 italiano), che alle ore 13.00 del 28 quelle navi britanniche si trovavano perfettamente illese nel porto di Alessandria. Tuttavia, a Roma si ritenne che il rischio da correre non fosse molto dissimile da quello preventivato nella pianificazione. Nello stesso tempo si evitò di dare ai tedeschi il motivo di rinfacciare agli italiani una eventuale ritirata della flotta, effettuata al presentarsi delle prime difficoltà.

Pertanto, mentre l’ammiraglio Iachino veniva informato per radio, con ben quattro telegrammi, della reale situazione esistente ad Alessandria (è ciò smentisce la sua tesi di non essere stato informato), Supermarina decise di far continuare la missione della flotta verso Creta, con la sola variante della riunione di tutte le navi a sud dell’isola, perché era subentrata la convinzione, determinata da segnalazioni radio-goniometriche, di trovarvi l’indomani un reparto di unità leggere inglesi (incrociatori e cacciatorpediniere), provenienti dall’Egeo.

Ed in effetti, gli idrovolanti da ricognizione catapultati dalle navi italiane all’alba del 28 marzo, segnalarono a sud di Gaudo i quattro incrociatori e i quattro cacciatorpediniere della “Forza B” partiti dal Pireo e da Suda, che erano congiunti a nord delle coste di Creta. Su di essi conversero dapprima gli incrociatori pesanti della 3^ Divisione Navale Trieste, Trento e Bolzano, e in un secondo tempo, nel vano tentativo di prendere il nemico fra due fuochi, anche la Vittorio Veneto. Le azioni a fuoco, sviluppate dalle navi italiane a grande distanza e senza che il nemico potesse rispondere per la minore portata delle loro artiglierie, non riuscirono ad impedire il disimpegno delle unità britanniche, contro cui furono sparate novantaquattro granate da 381 m/m e cinquecentoquarantadue da 203 m/m, nessuna delle quali arrivò a segno, a conferma se ve ne fosse ancora bisogno, dell’insufficienza del tiro italiano, che si è tentato di giustificare con l’eccessiva distanza dei bersagli: tra i 22.000 e i 26.000 metri.

Un inconcludente attacco portato da sei aerosiluranti della portaerei Formidable contro la Vittorio Veneto, convinse l’ammiraglio Iachino ad affrettare la sospensione dell’azione balistica per riprendere la rotta del ritorno, anche perché la presenza degli aerei imbarcati servì a fargli comprendere che la Mediterranean Fleet non doveva trovarsi troppo distante. Egli sperò che i velivoli da caccia “Cr.42” dell’Aeronautica dell’Egeo, dotati di serbatoi supplementari per aumentare la loro autonomia, sarebbero intervenuti per proteggere le sue navi da ultri attacchi aerei, che nel corso del pomeriggio la R.A.F. attuò con trenta bombardieri “Blenheim” partiti dalla Grecia, le cui cinque incursioni si intervallarono con altre tre condotte da diciotto aerosiluranti “Albacore” e “Swordfish” dell’Aviazione Navale britannica, decollati dalla Formidabile e dall’aeroporto di Malema (Creta).

Purtroppo i dodici velivoli da caccia italiani “Cr. 42” di base sull’Isola di Scarpanto, che nel corso della mattinata erano giunti in formazione modeste e saltuarie nel cielo delle navi, nel pomeriggio non poterono continuare a proteggere la Squadra Navale che si allontanava velocemente dal limite della loro autonomia. Conseguentemente, quando cinque velivoli dell’829° Squadron della Formidable effettuarono, alle 15.20, un secondo intervento nessun aereo italiano si trovò sopra la Vittorio Veneto, che fu colpita a poppa da un siluro lanciato dall’”Albacore” del capitano di corvetta S. Dalyell-Stead, poi abbattuto, nella manovra di disimpegno, dal fuoco incrociato della corazzata e del cacciatorpediniere Fuciliere. Fu questa, di un aereo e due uomini d’equipaggio, l’unica modestissima perdita britannica di tutta l’operazione.

Al momento del siluramento la Vittorio Veneto si trovava a 420 miglia da Taranto. Costretto a ridurre la velocità della Squadra a 19 nodi, e dopo aver dato libertà di manovra per rientrare a Brindisi agli incrociatori leggeri dell’8^ Divisione Abruzzi e Garibaldi, l’ammiraglio Iachino raccolse intorno alla sua menomata nave da battaglia i restanti sei incrociatori pesanti e undici cacciatorpediniere; e con essi, distribuiti su cinque colonne parallele intorno alla Vittorio Veneto, si apprestò a fronteggiare un’ultima incursione di dieci aerosiluranti della portaerei britannica, e di altri velivoli provenienti da Maleme. Attacco che era stato preavvertito per dopo il tramonto dai crittografi dell’Ufficio Informazioni Estere di Maristat, imbarcati alla partenza da Napoli sulla Vittorio Veneto.

Nell’attacco, che si sviluppò alle 19.28 a sud di Capo Matapan, la punta estrema meridionale del Peloponneso,e che si concluse alle 19.50, il Pola (capitano di vascello Manlio De Pisa) fu arrestato da un siluro, lanciato dall’Albacore dell’826° Squadron della Formidabile, pilotato dal sottotenente di vascello G.P.C. Williams, e rimase arretrato, senza la possibilità di trasmettere subito il segnale d’allarme, per mancanza di energia elettrica. Soltanto lo Zara e il Fiume, che rispettivamente precedevano e seguivano in formazione il Pola, si accorsero che l’incrociatore di De Pisa era rimasto danneggiato, e si stava arrestando. Lo Zara trasmise “Pola est fermo”, ma sembra che il segnale non sia stato ricevuto dalla Vittorio Veneto. Lo Zara chiese allora al Pola quali fossero le sue condizioni, e poco dopo trasmise alla Vittorio Veneto: “Nave Pola informa di essere colpita da siluro a poppa. Nave è ferma”.

Cattaneo, avrebbe potuto ordinare ad un paio di cacciatorpediniere della sua Divisione di andare in soccorso al Pola, ma evidentemente non lo fece, senza l’autorizzazione del Comando Squadra, per non distogliere altre navi alla protezione della Vittorio Veneto, che condizionava una qualsiasi iniziativa dei Comandi in sott’ordine. In quel momento, con l’attacco aereo era appena terminato, la maggiore preoccupazione dell’ammiraglio Iachino, nell’ipotesi di essere attaccato durante la notte da una formazione di cacciatorpediniere nemici che Supermarina aveva segnalato in uscita dallo Stretto di Cerigotto, fu quella di riorganizzato la sua formazione navale, nella navigazione notturna, in unica linea di fila (con la 1^ Divisione che precedeva la Vittorio Veneto e con la 3^ Divisione che la seguiva).

Soltanto dopo, alle 20.18, Iachino ordinò agli altri due incrociatori della 1^ Divisione, Zara e Fiume, di invertire la rotta, per andare a soccorrere il Pola, con i loro quattro cacciatorpediniere di scorta della 9^ Squadriglia:, Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani. Ciò avvenne con un certo ritardo, perché Iachino dovette insistere parecchio per convincere il Comandante della 1^ Divisione a tornare indietro, dal momento che l’ammiraglio Carlo Cattaneo, avendo intercettato le segnalazioni degli aerei dell’Asse e le comunicazioni radio del nemico, considerando di poter essere intercettato dalle navi britanniche, che i ricognitori dell’Asse confermavano essere dirette all’inseguimento della flotta italiana, aveva saggiamente suggerito di inviare in soccorso del Pola due soli cacciatorpediniere.

Che le navi nemiche potessero costituire una minaccia era stato chiaramente denunciato, in almeno tre occasioni, dagli avvistamenti effettuati dai ricognitori e dagli aerei offensivi italiani e tedeschi e, altre due volte, per opera delle intercettazioni radio-goniometriche trasmesse da Supermarina, la seconda delle quali, arrivata alle 20.05, indicava la presenza di un Comando Complesso britannico a 75 miglia a levante della Vittorio Veneto. Erano informazioni denuncianti chiaramente che la Mediterranean Fleet stava tallonando la flotta italiana, ragion per cui la decisione dell’ammiraglio Iachino di mandare l’intera 1^ Divisione a soccorrere il Pola, con il fondato rischio di imbattersi sulle navi britanniche che sopraggiungevano da levante – e che in effetti si trovavano a circa 40 miglia di distanza dalla Vittorio Veneto – fu assai infelice, direi anzi improponibile, e costituì il punto focale della successiva tragedia di Matapan.

La 1^ Divisione, che nell’accostata ad un tempo per 180°, si era trovata a disporre dei cacciatorpediniere di scorta di poppa agli incrociatori, continuò ad avanzare verso il Pola in una anomala linea di fila in cui le siluranti seguivano le unità maggiori invece di procederle. Il motivo di questa formazione, particolarmente criticato e criticabile, risiedeva nel fatto che i cacciatorpediniere della 1^ Divisione avevano segnalato alla nave ammiraglia Zara di essere rimasti con una dotazione di nafta appena sufficiente per il ritorno alla base; ragion per cui, volendo evitare che il consumo di combustibile aumentasse con un elevato incremento di velocità necessario per mettere ai cacciatorpediniere di riportarsi davanti agli incrociatori, l’ammiraglio Cattaneo decise di non apportare nessuna variante allo schieramento delle sue navi, la cui rotta le portò ad incrociare quella delle corazzate della Mediterranean Fleet.

Nella sua decisione di lasciare i cacciatorpediniere di poppa agli incrociatori, vi influivano anche le tassative norme di squadra di Supermarina, emanate nella pubblicazione segreta SM-11-S (Impiego delle Forze, Volume II, edizione gennaio 1936), al cui Articolo 68 era inequivocabilmente specificato:

 

“All’approssimarsi della notte le Unità del naviglio sottile che il C.C. [Comandante in Capo] intende far navigare in unione con le unità maggiori, vengono inviate di poppa alla formazione di queste, in unica e doppia linea di fila”.

 

Inoltre, nell’Articolo 69 della SM-11-S “, riguardo ai cambiamenti di rotta notturna di una formazione navale, era fissata la norma che imponeva che le accostate dovessero “essere eseguite sempre per contromarcia”.

 

A queste disposizioni tassative l’ammiraglio Cattaneo adeguò la propria formazione di navigazione dirigendo verso il Pola, dapprima alla velocità di ventisei nodi, per poi ridurla gradualmente, quando ritenne trovarsi vicino al all’immobilizzato incrociatore, facendo preparare i cavi di rimorchio.

E’ quindi l’ora di finirla di accusare Cattaneo, come ha insinuato l’ammiraglio Iachino nei molti suoi scritti su Matapan, di non aver rispettato le disposizioni di navigazione notturne vigenti. Su questo comportamento dell’ex Comandante delle Forze Navali vi fu nell’immediato dopoguerra molto sostegno nell’ambito della Marina, e quindi complicità, da parte dei colleghi e dei vari comandanti che quelle norme di navigazione notturna ben conoscevano. E l’insinuazione di Iachino trovò facilmente credito da parte di giornalisti e di scrittori di Marina improvvisati, che accusarono Cattaneo di errori, che invece erano da accreditare tutti alla decisione del suo superiore diretto, di mandare l’intera 1^ Divisione Navale in soccorso al Pola, contro l’opinione dello stesso Cattaneo.

Ugualmente violente furono le insinuazioni di Iachino nei confronti del Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, dal momento che all’ammiraglio Campioni il Comandante in Capo della flotta rimprovero di averlo lasciato all’oscuro, alla partenza da Napoli, sul fatto che le tre corazzate della Mediterranean Fleet erano in piena efficienza, mentre invece Supermarina gli aveva fornito questa notizia durante la navigazione verso Gaudo, il 27 marzo, in ben quattro occasioni.

Inoltre Iachino accuso Supermarina, e quindi lo stesso Campioni che di quell’Alto Comando aveva la responsabilità, di non avergli fatto, la sera del 28 marzo, un proprio apprezzamento della situazione strategica sulla situazione navale britannica. Ciò è completamente falso, dal momento che l’organo operativo dello Stato Maggiore lo aveva sostenuto, nei limiti del possibile, con le informazioni che possedeva sullo sviluppo delle ricognizioni aerei, che indicavano la Mediterranean Fleet all’inseguimento della flotta italiana, e anche con le informazioni radio-goniometriche, che confermavano la presenza delle navi nemiche sempre più vicine a quelle italiane. Informazioni che Iachino già conosceva per le intercettazioni dei crittografi della Vittorio Veneto, ma che invece, assieme a quelle pervenute da Supermarina, interpretò in modo superficiale ed errato.

Nel frattempo le navi britanniche, per mezzo del radar avevano individuato l’immobilizzato incrociatore Pola, sul quale le corazzate di Cunningham (ridotte a disporre di una scorta di soli quattro cacciatorpediniere (Stuart, Havock, Greyhound e Griffin), avendo inviato gli altri alla ricerca delle navi italiane assieme agli incrociatori della Forza B) si apprestavano a far fuoco con le loro artiglierie. Ma, all’ultimo momento, si accorsero, con i binocoli, della presenza della 1^ Divisione Navale, che sopraggiungeva dal lato opposto. Subito dopo fu ordinato alla portaerei Formidabile di uscire di formazione dal lato opposto al nemico. Contemporaneamente i cannoni da 381 m/m delle tre navi da battaglia britanniche Waspite, Valiant e Barham, che procedevano in linea di fila, furono puntati sullo Zara e sul Fiume che alle 22.25, alla distanza di soli 3.500 metri e senza essersi accorti minimamente della minaccia incombente, furono improvvisamente illuminati dal proiettore del cacciatorpediniere Greyhound, e subito dopo investiti dalle bordate di grosso calibro delle corazzate.

In soli quattro minuti, senza aver potuto abbozzare un tentativo di difesa, i due incrociatori furono ridotti a rottami in fiamme, assieme ai cacciatorpediniere Alfieri e Gioberti, rispettivamente centrati dai 381 m/m dalla Barham e dei medio calibri della Warspite, mentre il Pola, al termine dell’azione balistica, veniva finito con siluri lanciati dal cacciatorpediniere britannico Jervis. che ne aveva in precedenza recuperato l’equipaggio.

Tuttavia, il sacrificio delle unità della 1^ Divisione, impegnando la Mediterranean Fleet lontano dalle restanti navi italiane dirette verso Taranto, raggiunse il risultato di non concesse ai britannici la possibilità di continuare l’inseguimento alla Vittorio Veneto, per dargli il colpo di grazia. Iachino afferma che, avendo ordinato alla sua formazione (una corazzata, tre incrociatori e sette cacciatorpediniere) una deviazione di rotta non percepita dal nemico, questo non avrebbe mai potuto raggiungerlo. Noi siamo invece convinti che se Cunningham non avesse incontrato il Pola e subito dopo le unità della 1^ Divisione, nel continuare l’inseguimento, distribuendo le sue navi in ampio rastrello di ricerca, sarebbe riuscito l’indomani, 29 marzo, a raggiungere il gruppo della Vittorio Veneto, e con buone possibilità distruggerlo interamente.

La tragedia di Capo Matapan, che costò alla Regia Marina la perdita di cinque navi, il danneggiamento della sua più efficiente corazzata e in termini di vite umane la mancanza all’appello di 2.308 uomini, ebbe le sue conseguenze più gravi sullo stato di incertezza e di complesso di inferiorità che venne ad insidiarsi negli ambienti navali italiani, a terra e sulle navi. Ne derivò una ancora più accentuata prudenza operativa, determinata dal convincimento di non poter affrontare il nemico ad armi pari, essendo apparso evidente uno stato di inferiorità tecnico-tattico a tutti i livelli nei confronti della Royal Navy. Ma, soprattutto, dopo Matapan si fece strada l’idea, che avrebbe accompagnato la Regia Marina durante tutta la guerra, dell’impossibilità di poter operare di notte senza l’ausilio del radiolocalizzatore, mentre invece l’esperienza avrebbe poi dimostrato che era soprattutto la mancanza di buoni strumenti ottici a condizionare, assieme a vistose carenze di addestramento, la possibilità di combattere nell’oscurità con buone possibilità di successo (Cfr. Francesco Mattesini, I Radiolocalizzatori della Regia Marina: Parte prima, in Bollettino d’archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, settembre 1995 pg. 95-198).

Inoltre a condizionare ancor di più la pianificazione di operazioni offensive, contribuì, in maniera determinante, la constatazione della difficoltà di spingere la flotta lontana dalle coste nazionali, per la mancanza di una nave portaerei che ne appoggiasse gli spostamenti. Lo stesso Mussolini, fu convinto dal Comando Supremo, dopo l’intervento dell’ammiraglio Riccardi, ad ordinare che le future operazioni navali non dovessero svolgersi oltre il raggio d’azione degli aerei da caccia, fissato in 85 miglia dagli aeroporti terrestri. Ciò significava lasciare al nemico la facoltà di muoversi a apiacimento alle due estremità del Mediterraneo, ed anche di gran parte del Mare Ionio.

Sebbene le perdite degli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Pola fossero insostituibili per le necessità operative della Regia Marina, questa ebbe modo di mitigare in questi giorni la sconfitta di Matapan con due notevoli successi, conseguiti dai mezzi d’assalto e dai sommergibili. Infatti, nella notte sul 26 marzo sei barchini esplosivi della X M.A.S., trasportati in prossimità di Suda dai cacciatorpediniere Crispi e Sella, penetrarono arditamente nella rada, ove stazionavano alcune unità della Mediterranean Fleet, e vi immobilizzarono la grossa petroliera norvegese Pericles e l’incrociatore pesante britannico York. La Pericles, che tentava di raggiungere un porto egiziano, affondò per mare grosso, il 14 aprile 1941 a nord-ovest di Alessandria Lo York, dopo essere stato adibito a nave comando per le operazioni in Grecia, nella seconda metà di maggio avrebbe ricevuto il colpo di grazia da aerei tedeschi Ju. 88 del 1° Gruppo del 1° Stormo Sperimentale (I./LG.1) dell’8° Fliegerkorps.

Il secondo successo fu conseguito dal sommergibile Ambra che, trovandosi in agguato a nord di Sollum, nella notte del 31 marzo attaccò un convoglio partito da Alessandria e diretto in Grecia, affondando con due siluri l’incrociatore leggero Bonaventure, anch’esso appartenente alla Mediterranean Fleet, che pertanto ebbe eliminati, nello spazio di quattro giorni, due delle sue più preziose navi, impiegabili per operare con la flotta e per la scorta ai convogli.

 

 

COCLUSIONI

 

Come ho riportato nei miei libri, quattro furono i fattori che permisero all’ammiraglio Cunningham di conseguire il successo notturno di Capo Matapan:

 

1°) l’Ultra che avvertì il Comandante della Mediterranean Fleet sui preparativi dell’operazione navale italiana e ne svelo probabili scopi e data di esecuzione;

2°) gli aerosiluranti “Albacore” della portaerei Formidabile che, dopo aver menomato la Vittorio Veneto, riducendone la velocità, immobilizzarono il Pola;

3°) il radar che permise alle navi britanniche di scoprire l’incrociatore immobilizzato, polarizzandovi l’attenzione;

4°) l’addestramento al combattimento notturno con i grossi calibri, per il quale le unità della Royal Navy, sebbene non possedessero per i grossi calibri delle corazzate proiettili a vampa notturna, erano addestrate da anni, mentre gli italiani non lo erano minimamente ed anzi consideravano l’azione notturna tra grandi navi difficilmente realizzabile.

 

Di tali fattori quello dell’Ultra restò un segreto gelosamente custodito nel corso della guerra, e di esso le potenze dell’Asse non ebbero nessuna notizia o sospetto fino ai primi anni del 1970.

Riguardo alla vampa ridotta, i tedeschi la possedevano soltanto fino al calibro 105 m/m, i britannici fino al calibro 152 mentre invece gli italiani l’avevano sperimentata con i cannoni da 203 m/m. dell’incrociatore Fiume , in una esercitazione del 25 marzo 1941, poco prima che la nave salpasse da Taranto per l’operazione “Gaudo”. I risultati della sperimentazione non furono allora conosciuti, perché tre giorni dopo le relazioni del tiro andarono perdute con quella nave.

 

Francesco Mattesini

 

23 Febbraio 2012

 

________________________

 

L’episodio e stato dettagliatamente trattato dall’Autore nelle opere:

"Il giallo di Matapan – Revisione di giudizi”, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1985.

“L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan”, Ufficio Storico della Marina Militare (USMM), Roma, 1998.

Corrispondenza e direttive tecnico-operative di Supermarina” Volume Secondo I Tomo, USMM, Roma , 2001.

“L’attività aerea italo-tedesca nel Mediterraneo. Il contributo del X Fliegerkorps” (gennaio – maggio 1941)”, 2^ Edizione riveduta e ampliata, Ufficio Storico dell’Aeronautica, Roma 2003.

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